“Mai più” disse l’Europa all’indomani del 3 ottobre 2013. Era l’alba. Un barcone al largo dell’isola dei Conigli, mezzo miglio al largo dalle coste di Lampedusa, si incendiò e si inabissò nelle acque del Mediterraneo. Era partito due giorni prima dal porto libico di Misurata. A bordo, migranti di origine etiope ed eritrea. Bilancio: 368 morti (83 donne e 9 bambini), 20 dispersi, 155 sopravvissuti. Nelle lunghe liste di naufragi che continuano a segnare il Mediterraneo, questa del 2013 è archiviata come la più grave tragedia dell’immigrazione del dopoguerra. L’allora commissario europeo, Cecilia Malmström, disse: «Facciamo in modo che ciò che è accaduto a Lampedusa sia un campanello d’allarme per aumentare il sostegno e la solidarietà reciproca e per evitare tragedie simili in futuro».

Da allora, il 3 ottobre è una data simbolo. È stata istituita la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione. È nato il Comitato 3 ottobre che sensibilizza l’opinione pubblica sui temi dell’inclusione e dell’accoglienza. Quest’anno ricorre il decimo anniversario. Tante le iniziative promosse dal Comitato per commemorare le vittime di quel naufragio e le migliaia di migranti che hanno continuano a perdere la vita in quelle acque. Il monito dell’Europa è infatti caduto nel vuoto. Morti e sbarchi non si sono fermati. Secondo l’Oim, Organizzazione internazionale per le migrazioni, in dieci anni sono almeno 25 mila i migranti dispersi nel Mediterraneo: 20 mila nella sola rotta centrale, tra le più pericolose e “frequentate” a livello mondiale. Ma per molte altre autorevoli fonti, questi numeri sono al ribasso.

L'avvocato Emiliano Giovine

In aumento anche gli arrivi. Dal 2013 sono sbarcati in Italia poco più di 900 mila migranti. Lo dicono le rilevazioni del ministero dell’Interno e dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite. E quest’anno potremmo superare la soglia del milione. Dopo i quasi 44 mila arrivi del 2013, il picco massimo si registrò nel 2016 con oltre 180 mila sbarchi. Ora, il 2023 rischia di superare quel record. Al 20 settembre scorso, secondi dati del Viminale, sono già sbarcate in Italia 132.279 persone. Su questi numeri, improvvisamente, il dibattito italiano ed europeo si è rianimato. Sono ritornate le visite istituzionali a Lampedusa. Sono tornati i moniti. E il tema sarà anche al centro dei quattro discorsi che Papa Francesco terrà nel suo viaggio a Marsiglia, il 22 e 23 settembre. Nulla dunque sembra cambiato dal quel tragico 3 ottobre 2013. Ne abbiamo parlato con Emiliano Giovine, avvocato torinese, responsabile del team Esg & Legal Impact di RP Legal & Tax e dal 2019 membro del Consiglio direttivo e coordinatore dell’area legale di ResQ Onlus - People Saving People di cui è anche uno dei soci fondatori. ResQ, dal 2021, è presente nelle acque del Mediterraneo centrale. È alla sua terza missione.

Sono passati dieci anni dalla strage di Lampedusa e dal monito “Mai più” che si levò all’unisono da tutta Europa. Quale bilancio possiamo tracciare?

«Il bilancio è sotto gli occhi di tutti. Dal 2013 assistiamo alla conta dei morti. Inesauribile e in continua crescita. Persino la Giornata in memoria delle vittime dell’immigrazione, che avrebbe dovuto segnare un punto di svolta per impedire che tragedie di questa portata si ripetessero, si è trasformata nell’evidenza del fallimento istituzionale, politico e umano del nostro continente su un fenomeno che continuerà a crescere. Uomini, donne, bambini non smetteranno di fuggire da aree di conflitto, zone desertificate a causa del cambiamento climatico, territori feriti da disastri ambientali come in Libia e Marocco, economie al collasso come in Tunisia, un Paese distrutto. Così il prossimo 3 ottobre “celebreremo” un decennio di fallimenti. Non ultimo, il tentativo di arginare le partenze negoziando accordi con la Libia e la Tunisia, basati su principi che nulla hanno a che vedere con la tutela della vita umana. In questo momento stiamo finanziando le motovedette della Libia, un Paese che non ha sottoscritto la Convenzione per i diritti del rifugiato e dove le persone vengono detenute, torturate, violentate. Di fatto, deportate. Lo denunciano le istituzioni internazionali. Lo denunciano le Nazioni Unite».

E l’accordo con la Tunisia?

«Non è migliore. Oggi questa è la rotta più “battuta”. E su imbarcazioni che ci rimandano al 2013. I barconi che negli ultimi anni partivano dalla Libia erano più “stabili” delle barche di ferro che lasciano oggi le coste della Tunisia, vera e propria ferraglia. Hanno una soglia di galleggiamento persino minore del peggiore dei gommoni. Basta che entri un po’ d’acqua e colano a picco velocemente».

IL PUNTO SUGLI SBARCHI
IL PUNTO SUGLI SBARCHI

Dopo la strage del 2013, il governo autorizzò l’Operazione Mare Nostrum per rafforzare il pattugliamento del Canale di Sicilia. A fine 2014 venne sostituita dall’agenzia europea Frontex. Cosa ha significato questo differente approccio?

«È un passaggio fondamentale che ha segnato profondamente, e in peggio, gli ultimi dieci anni di soccorsi nel Mediterraneo. Siamo passati da una operazione coordinata dalla Marina Militare con una chiara e inequivocabile finalità umanitaria, Mare Nostrum, a una operazione di sorveglianza delle frontiere, Frontex, che ha la finalità di prevenire, arginare, controllare, verificare gli accessi irregolari al continente. Così anche quest’anno la stragrande maggioranza degli arrivi è stata classificata come intervento di Law Enforcement (applicazione della legge) e non di tutela dei diritti umani. Il risultato lo abbiamo visto nel naufragio di Cutro. L’imbarcazione era stata qualificata come possibile accesso irregolare di persone prive di permesso e per questo è stata avvicinata da imbarcazioni della Guardia di Finanza che non hanno la tenuta e la stabilità dei mezzi della Guardia Costiera, in grado di affrontare qualunque tipo di mare. Nel 2013 Mare Nostrum ha rappresentato un presidio di salvaguardia della vita, finanziato essenzialmente dall’Italia. Ora, dieci anni dopo quella intuizione politica, sarebbe necessaria una nuova operazione Mare Nostrum. Ma a coordinamento e finanziamento europeo».

Intanto Lampedusa ha registrato 7 mila arrivi in pochi giorni per un hotspot che può accogliere massimo 384 persone…

«Su questo bisogna essere chiari: mantenere per anni uno hotspot a 384 posti significa voler continuare a proporre all’opinione pubblica l’idea di un’isola al collasso. Lampedusa è diventata la bandierina perfetta da sventolare. Dopo tanti anni non possiamo più parlare di emergenza subìta: è una emergenza costruita ad arte. La vera emergenza la viviamo noi, italiani ed europei. Ed è una emergenza politica e culturale gigante. Stiamo parlando di 7 mila persone: per Lampedusa sono tantissime, per l’Europa un granello di sabbia nel Sahara».

Con ResQ, l’11 settembre, siete tornati nel Mediterraneo centrale…

«Dopo alcune missioni nel 2021, siamo rimasti fermi per un anno e mezzo e abbiamo lavorato molto sul territorio e nelle scuole. ResQ è finanziata dalla società civile, accomuna persone mosse solo dal bisogno di tutelare la vita umana. Ma una nave è un progetto mastodontico per difficoltà e complessità tecnico-operative e finanziarie. I costi sono esorbitanti. Siamo ripartiti pensando di concludere piccole attività di supporto. Invece, tra Lampedusa e Tunisia lo scenario è stato drammatico. Quel tratto di mare è pieno di barche instabili, di pessima qualità. La quantità di chiamate di soccorso che si susseguono è inimmaginabile. Abbiamo subito portato a termine due soccorsi di 49 e 47 persone. Imbarcazioni che abbiamo individuato per puro caso. La seconda, mentre avevamo ancora i due gommoni operativi, aveva già imbarcato molta acqua. Il tempo di mettere in salvo i migranti ed è affondata. Non ci fossimo trovati lì, sarebbero stati altri 47 morti di cui nessuno avrebbe saputo nulla. Fortunatamente ci è stato assegnato il porto di Trapani, abbastanza vicino. Con il Codice di Condotta di gennaio, navi di altre Ong si sono invece viste assegnare porti assurdi, a migliaia di miglia di distanza. E questo perché sulla nozione di “porto sicuro” permane una zona interpretativa grigia tuttora irrisolta. Su questo artificio giuridico, le autorità decidono in modo asettico che persone che hanno attraversato il deserto del Sahara, hanno vissuto nelle carceri libiche e hanno affrontato un viaggio nel Mediterraneo, stipati per giorni, possano affrontare altri quattro giorni di navigazione per andare nei porti di Ancona e La Spezia».

L'imbarcazione con cui la Onlus ResQ opera nel Mediterraneo in soccorso di migranti

Dal 2013 è cambiato anche l’approccio all’assegnazione dei porti?

«Certamente. Nel 2013, e poi negli anni successivi, l’obiettivo era tenere le navi delle Ong lontane dai porti, in balia delle onde e del tempo... La vicenda di Sea Watch e Carola Rackete, poi assolta in Cassazione, è esemplare. La tattica ora si è rovesciata. Chi presta soccorso, soprattutto grandi navi come la Geo Barents e la Ocean Viking, deve andare immediatamente nel porto indicato. Cosa significa nella pratica? Che se arriva un’ulteriore richiesta di soccorso, la nave deve ignorarla e andarsene. Con il rischio, paradossale, di commettere un illecito. Perché esiste il dovere di prestare soccorso: è previsto dal Codice della navigazione e dal nostro Codice penale. È già accaduto che, a causa del Codice di Condotta, non si è potuto prestare soccorso a persone in difficoltà. O al contrario, il Codice è stato violato e la nave è stata posta sotto sequestro. Sono azioni pensate per mettere in difficoltà le navi delle Ong che ciclicamente vengono fermate. Nonostante si sia sgonfiata da sola anche la bolla retorica del “pull factor”. I numeri hanno dimostrato che quando le Ong non sono operative i flussi dei migranti non diminuiscono. Anzi, spesso aumentano. Passiamo il tempo a dimostrare di non essere scafisti, trafficanti, criminali. Siamo solo persone che lavorano e che, banalmente, non vogliono più vedere morire nessuno davanti al portone di casa. Lo dico da cittadino italiano ed europeo: è inaccettabile che l’accesso all’Europa, attraverso il Mediterraneo, rappresenti oggi la frontiera più mortale al mondo».

La sensazione è che sappiamo ancora troppo poco. Vent’anni fa Marco Pannella affermava: «Bisognerebbe mettere telecamere alle boe per capire cosa avviene nel Mediterraneo»…

«È vero, non ci sono censimenti. I dati sono sempre al ribasso, sia sul numero dei morti sia su quello dei respingimenti. Possiamo “mappare” solo i migranti che arrivano e sui quali si costruisce la propaganda dell’invasione. Il dato che si tende a insabbiare, o che magari proprio non si conosce, riguarda quanti spariscono. Quelli di cui non sapremo mai nulla perché intercettati dalla cosiddetta Guardia Costiera libica prima delle nostre navi o perché si inabissano. Il Mediterraneo purtroppo si presta alla spettacolarizzazione del fenomeno ma non dimentichiamo gli altri “buchi neri”: a est, la rotta balcanica, e poi i confini con la Francia (Valle di Susa e Ventimiglia), Calais, la foresta di Bialowieza tra Bielorussia e Polonia. Sono tutte sacche di inciviltà inaccettabili».

Il “Mai più” del 2013 non è servito

«No. E in questi dieci anni, la maggioranza dell’opinione pubblica si è assuefatta ai morti. Registriamo picchi di indignazione e risentimento solo quando li vediamo galleggiare senza vita. È drammatico. Perché è un picco inutile e controproducente: non mette in moto reazioni che portano a soluzioni strutturali. Oggi, come il 3 ottobre 2013, viviamo in totale assenza di risposte all’accesso sicuro in Europa di queste persone e alla loro permanenza dignitosa. Il decreto Cutro ha confermato il taglio a tutte le risorse destinate all’integrazione: corsi di lingua, supporto psicologico, avviamento al lavoro... Chi ce la fa viene parcheggiato. I fortissimi disagi sfociano poi in degrado sociale che alimenta il dibattito politico che scredita qualunque forma di supporto all’integrazione. Persino lo Sprar, il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, che poteva indirizzare le persone verso un percorso di integrazione, è stato completamente decimato».

Quali sarebbero allora realisticamente i percorsi da adottare?

«Individuare canali di accesso legali. Con l’obbligo di presentare documenti per richieste di protezione internazionale o per accedere a offerte di lavoro. Il decreto flussi viene aggiornato con il contagocce e non risponde alle richieste di manodopera straniera del nostro Paese. Sono stati avviati esperimenti come quello della Comunità di Sant’Egidio che ha aperto corridoi umanitari. Funzionano. Contemporaneamente però si deve prestare soccorso a tutti i migranti che si avventurano nella follia del Mediterraneo. Perché non possiamo semplicemente continuare a sperare che non partano più o ne arrivino il meno possibile».

La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen a Lampedusa

Pochi giorni fa Ursula von der Leyen è stata a Lampedusa. Ha detto: “Decidiamo noi chi entra in Europa, non i trafficanti di esseri umani” e ha lanciato il Piano in 10 punti. Cosa ne pensa?

«In questi anni abbiamo visto tantissime visite a Lampedusa. Sono talmente numerose e fugaci che si trasformano in passerelle istituzionali. Il Piano in 10 punti tocca temi corretti come l’attivazione di canali di ingresso legali. Permane però lo scoglio della redistribuzione, la cosiddetta solidarietà volontaria dei Paesi europei. Germania e Francia hanno già sospeso le procedure di ingresso per la quota minima di migranti che si erano impegnati ad accogliere. Lo hanno fatto sulla base di criteri del tutto opinabili. E qualsiasi altra soluzione tampone che fortifichi Paesi che praticano la tortura o che abbandona le persone in balia delle onde, nella speranza che i numeri si riducano, rappresenta una politica criminale».