Tassi giù? Record del Dow Jones! E se i mercati questa volta avessero torto?

Qualche ora dopo l’annuncio di politica monetaria della Fed del 13 dicembre, che ha sorpreso molti, i mercati azionari hanno festeggiato con il record delle quotazioni dall’inizio del 2022. Wall Street ha archiviato così la crisi del 2022 data dal rialzo dei tassi e dalla la crisi Russo-Ucraina.

Riconosciamo che avrebbe potuto andare ben peggio. Secondo le stime della banca mondiale la guerra avrebbe potuto impattare assai di più della limatura di 0,2 punti percentuali del Pil che è effettivamente costata, quanto meno negli Usa. Tornando sul parterre della Borsa più grande del mondo, sono in molti ad essersi chiesti se davvero tutto è già tornato normale? Il 13 dicembre il “toro” ha scosso Wall Street decisamente. L’indice S&P500 ha toccato 4707, quota superiore del 16% dell’inizio dell’anno e vicinissima al massimo storico. L’indice più dinamico, perché comprendente le 100 maggiori azioni tecnologiche, ossia il Nasdaq 100, ha fatto il record di tutti i tempi: 16,592 punti, +39% in un anno e superiore a tutti i suoi precedenti picchi. Anche il vecchio Dow Jones si è rialzato di 400 punti in una seduta, superando per la prima volta da sempre la quota di 37.000. E se non fosse finita qui?

Vediamo lo statement di politica monetaria

Quando la Fed ha iniziato a parlare, è partita dapprima una doccia gelata. I tassi Usa resteranno lì dove sono, al 5,5%, dopo di che gli osservatori si sarebbero aspettati la solita litania sul fatto che la politica monetaria è guidata dai dati, quindi i tassi potranno evolvere in un senso o nell’altro. Invece, il tono è cambiato d’improvviso. Secondo il consensus del Federal Open Market Commetee, nel 2024 i tassi potrebbero essere tagliati tre volte per complessivi 0,75 punti percentuali e finire a 4,6% entro la fine dell’anno. Altri due tagli potrebbero seguire nel 2025. Siccome le aspettative dei mercati fino a qualche mese fa erano che i tassi sarebbero rimasti stabili per un periodo sufficiente ad essere sicuri che la bolla inflazionistica fosse finita, detto fatto, questo è esattamente quanto i mercati hanno capito: “la bolla inflazionistica è finita e la politica monetaria tornerà normale e la liquidità tornerà a scorrere a fiumi”.

E se avessero compreso male?

In realtà un conto è l’interpretazione dei Fed watcher che seggono sui banchi di trading, altro è quello che la Fed ha fatto e il messaggio che ha voluto inviare. Infatti, mentre è vero che la politica monetaria resta guidata dai dati, non è vero che i dati di inflazione siano i soli e gli unici ad essere considerati.

L’inflazione è scesa, ma i dati a disposizione sono pochi

La prima questione riguarda l’inflazione. È usuale guardare alla core inflation (ossia quella ripulita delle componenti volatili non dovute all’economia endogena) per intuire la direzione dell’inflazione generale. È vero che, mese su mese, a ottobre la core inflation si sarebbe fermata a zero.

È altrettanto vero, però, che il valore tendenziale è ancora del +4% e la “core-core”, ossia quella che esclude dal paniere principale non solo l’energia e i prodotti alimentari volatili, ma anche gli alloggi e le auto usate, viaggia a un tendenziale annuale ancora del 2,57%. E’ certo meglio di quanto ci si sarebbe attesi qualche mese fa, ma non tale da fare esultare per la fine di un fenomeno. Il rientro definitivo dall’inflazione controllata attraverso i tassi di interesse non dovrebbe essere basata sul giudizio di un mese o di un trimestre, e questo alla Fed non possono non considerarlo.

La Fed ha un secondo obiettivo: l’occupazione generale

C’è dunque qualcosa di più. Guardiamo all’economia reale. Questo perché il mandato della Fed è duplice. L’obiettivo di controllo dell’inflazione deve essere conseguito assecondando la piena occupazione, e questo richiede a sua volta che l’attività economica sia stabile o in crescita. E qui si arriva alle dolenti note. Se, infatti, ci limitassimo a considerare la congiuntura americana sulla base dei dati trimestrali sul Pil, quelli più aggiornati sono fermi al III trimestre e sarebbero decisamente buoni, perché la variazione annuale (tendenziale) è +3% mentre quella congiunturale (trimestre su trimestre, annualizzato) è +5,2%. Queste cifre indicherebbero un’economia surriscaldata e dunque tassi di interesse stabili per un lungo periodo, non certo in calo. Dunque, anche la congiuntura del terzo trimestre non spiega gran che della scelta della Fed di indicare una imminente e precoce riduzione dei tassi.

Il quarto trimestre sta andando male

Passiamo infine al trimestre in corso: il quarto. Il trimestre in questione è il solito primo trimestre invernale. E stato un trimestre nel quale la reporting season dei bilanci aziendali è stata superiore alle attese. A metà del trimestre l’80 per cento delle società quotate avevano battuto le previsioni di utili e il 60% aveva battuto le previsioni di ricavi. Ma, di nuovo, questi dati provengono dallo specchietto retrovisore. Se si guarda invece dentro al trimestre, gli indicatori congiunturali mensili sono assai meno favorevoli. Anzi, si è verificata una vera e propria caduta ad ottobre del livello degli ordini di beni durevoli (-5,4%, che sale a -6,7% se al netto dei beni per la difesa), è caduta ancora la produzione industriale (-1,7%) e si tratta del settimo calo mensile consecutivo, è caduto il PMI manifatturiero sotto la soglia critica di 50 (49,50); è sceso dal 79,4 al 78,9% l’utilizzo di capacità produttiva (mezzo punto perduto in un mese solo) e gli housing start non si riprendono da 1,4 milioni di unità, quando prima della crisi del 2022 il livello mensile era di 1,8 milioni. I tassi di disoccupazione sono ancora controllati (3,7%), ma U6, il tasso di disoccupazione che comprende le persone che non cercano lavoro perché sanno che non lo troverebbero è del 7%. Una cifra che profuma molto di “vecchio continente”.

Gli Usa, il sovraindebitamento e il “patto rotto” con gli americani del ceto medio

Gli Usa, in effetti, negli ultimi quindici anni hanno rotto il patto che avevano con gli americani, di far partecipare tutti, ma proprio tutti al sogno americano. Facendo base il 2008, i salari medi unitari reali americani non sono più saliti, anzi nel 2022 erano del 3% sotto il livello del 2008. Che cosa significa? Che se il motore dell’America nel breve periodo è la domanda dei consumatori e questi hanno pro capite lo stesso pil pro capite reale del 2008, come fanno a comprare un Pil reale che era nel 2008 di 16,8 trillioni e oggi supera 22,5 trillioni? Facile, lo comprano a credito.

Un’economia sempre più basata sul credito, privato, e pubblico

Gli americani comprano il loro Pil con il credito, ossia consumando e investendo a credito, nonché spendendo i soldi trasferiti dallo Zio Sam. Dietro ogni carta di credito emessa a un cittadino americano ci sono più di 8.000 dollari di debiti ma il mondo dei prestiti personali fa rabbrividire ben oltre. I debiti personali ammontano a 25 mila miliardi di dollari complessivi, ossia il 110 per cento del Pil, ben 74 mila dollari per ogni americano (ma molti non hanno nemmeno un dollaro di debiti, quindi immaginiamo la condizione di chi invece li ha), senza contare i 39 mila dollari di prestiti dati agli studenti che si sono indebitati, che con i salari reali in incredibile remissione dal 2008 non sono più, nella maggior parte dei casi, rimborsabili con gli stipendi dell’impiego post-lauream. Non finisce qui. A carico del bilancio dello Zio Sam, finanziato da 128 milioni di contribuenti su 335 milioni di abitanti, sono finiti 41 milioni di percettori dei food stamps, 43 milioni di poveri, 8 milioni di disabili, 64 milioni di beneficiari della medicare e 86 beneficiari della medicaid, per non dire degli 832 miliardi di dollari di spese per la difesa (sarebbero circa il 40% del Pil italiano).

Alla fine il Pil viene “comprato a credito”, sia dalle famiglie che dallo Zio Sam, che nonostante stia chiudendo i conti di un anno nel quale il Pil è salito di parecchio (siamo al 3% tendenziale, in termini reali, nel terzo trimestre) facendosi finanziare dai mercati obbligazionari internazionali, perché la Fed ha smesso di comprare i treasuries. Su 6.300 miliardi di spesa federale, ben 1.900, quasi un terzo, non hanno copertura dalle tasse e quindi sono in deficit, e uno dopo l’altro i deficit sommati agli interessi hanno costruito un castello di debiti pubblici di 34 mila miliardi: il 133% del Pil, 101 mila dollari per americano, 260 mila dollari per contribuente. Il castello di carta ha iniziato a scricchiolare, tanto che anche Moody’s, il 16 novembre scorso, ha confermato con così poca convinzione il rating tripla A degli Usa, da affibbiargli un outlook negativo. Eppure il 13 dicembre i mercati sembravano avere rimosso tutto questo.

I banchieri centrali: tassi giù per continuare a continuare a comprare il Pil a credito

E se nei pensieri dei banchieri centrali il 13 dicembre non ci fosse stata l’esultanza per il raffreddamento dell’inflazione? E se i banchieri centrali, più informati e meglio informati, avessero visto le difficoltà di mantenere il livello corrente del Pil? In fondo, da un lato, le attività economiche che lo producono stanno rallentando, a partire dalle case e dagli ordini manifatturieri. Secondariamente, se il Pil è comprato “a credito” sia dalle famiglie che dal governo federale, i tassi bassi sono la sola cosa che si può fare, per mantenerlo più o meno lì dove è, senza rischiare una recessione, dietro l’angolo se gli americani decidessero di spendere meno per ridurre i loro debiti.

Oltre al sovraindebitamento, c’è FLUXUS

Il Centro Einaudi analizza la congiuntura dei Paesi che studia ai fini del rapporto sull’economia post-globale attraverso indicatori compositi propri del ciclo di breve termine. FLUXUS è l’indicatore composito dell’economia degli Stati Uniti. Viene espresso in deviazioni standard da una crescita media. Quindi è buon segno quando è semplicemente positivo. Quando scende sotto il valore di zero, dobbiamo allarmarci.

Come si vede dal grafico seguente, FLUXUS è scivolato da 1 a quasi-zero proprio a novembre, e a guardare dentro le componenti, la caduta è proprio dovuta agli indici di sentiment produttivo. Non siamo gli unici ad avere annusato quest’aria. GdpNow, l’indicatore di nowcasting della Federal Reserve Bank of Atlanta sta stimando una crescita nel IV trimestre del Pil Usa dell’1,2%, ossia giù di 4 punti dal precedente +5,2%. Potremmo ragionevolmente sospettare che anche quest’ultimo indicatore “di casa” fosse sul tavolo dei governatori della Fed il 13 dicembre scorso, quando sono stati convinti a mollare la politica monetaria. Dopo tutto, il 2024 è anche un anno elettorale e una recessione non è mai opportuna in questi casi.

L’indicatore mensile FLUXUS del ciclo economico americano, elaborato dal Centro Einaudi (scala destra), in colore rosso, e le variazioni percentuali del Pil reale pro capite degli Stati Uniti (scala sinista), in colore blu. La fonte dei dati sul Pil è FRED. FLUXUS è un indicatore del Centro Einaudi, basato su dati mensili rapidamente disponibili sulla congiuntura americana. “Non è” una intelligenza artificiale.

L’ultima riga: la politica economica è zoppa

Prima di arrivare all’ultima riga, riassumiamo. Il festeggiamento di Wall Street potrebbe essere davvero un misunderstanding. Favorito tra l’altro dalla psicologia degli investitori alla “fine dell’anno”, che ha sempre un bias stagionale positivo. Resta da considerare che la mossa di politica monetaria inattesa nasconde una debolezza particolare americana: tocca ancora alla banca centrale fare le due parti nella stessa commedia. Regolare la moneta ed evitare che la domanda globale collassi, sostenendo non solo i debiti privati, ma anche quello pubblico. Un carico che, come Moody’s ha iniziato a segnalare, non può durare all’infinito. Buon 2024, America!