Il documento rilasciato dalla Commissione sullo standard di vita e sulla povertà nell’Unione Europea fa molto riflettere. Sia per i numeri che vi sono riportati, sia per la posizione italiana.

La prima riflessione riguarda lo stato generale delle famiglie. La pioggia di numeri non agevola la lettura e quello che emerge è una situazione da bicchiere “mezzo vuoto”. Sono infatti messe insieme statistiche che derivano dalla osservazione quantitativa di grandezze economiche (il reddito) con altre che provengono da indagini di opinione. Non è la stessa cosa ed il rischio è ovviamente di far prevalere le emozioni nella valutazione dei fenomeni.

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Salta all’occhio la percentuale di famiglie che incontra almeno qualche difficoltà a raggiungere la fine del mese, che sarebbe del 45,5% nella media dell’Unione e addirittura di due famiglie su tre in Italia. Sono cifre che potrebbero allarmare, se non fosse che a un altro sondaggio, quello degli eurobarometri, che non sono inclusi nel documento, le persone che ritengono che la povertà costituisca un’emergenza “personale” in Italia sono il 9% (dati del 2022), e questa emergenza viene dopo una nutrita lista che include l'inflazione (45%), la salute (31%), le tasse (17%), la disoccupazione (15%), le condizioni di lavoro (13%).

Da osservare che la povertà sarebbe un’emergenza personale con ben altre percentuali in Romania (28%), Bulgaria (25%), Grecia (22%), Croazia (21%) e Lettonia (20%). Al contrario, la povertà è stata citata come preoccupazione personale marginale in Danimarca (2%), Svezia (3%), Finlandia (4%), Paesi Bassi (5%) e Lussemburgo (5%).

Come si vede, la cifra italiana si avvicina più a quella dei paesi ben messi che a quelli problematici. In generale, quando si utilizzano le risposte a indagini di opinione, il momento nel quale esse sono raccolte, il contesto, gli obiettivi strategici delle persone, influenzano il risultato e sono da prendere con le pinze. Invece, l’informazione che ha prevalso nei media generalisti è stata che due famiglie su tre che non arrivano a fine mese. Non ne saremmo così convinti.

Le evidenze 

A guardare a fondo nella quantità di informazioni, ci sono tre evidenze che ci hanno fatto riflettere.

  1. La prima, la distanza tra il quintile più ricco e povero di reddito, che è di 4,9 volte nella media Europea, 3,9 volte nella Finlandia (una delle migliori) e 6,3 volte in Italia, sesto peggior risultato dietro a Bulgaria, Romania, Spagna, Lettonia e Lituania. È probabile che questo dato sia fortemente influenzato dalle differenze regionali italiane nella produzione di reddito, e forse anche dalla percentuale di sommerso, che queste cifre non colgono.
  2. La seconda vulnerabilità italiana, che salta all’occhio, è la povertà lavorativa. Il 12 per cento degli italiani adulti vive in una famiglia dove il lavoro è insufficiente. Siamo in cima alla classifica dei 27, che vede la media dell’Unione all’8%. Decisamente pochi italiani hanno un lavoro, lo cercano, lo vogliono, hanno le competenze per averlo e il mercato gli offre le opportunità di lavorare. Questo è, insieme alle differenze regionali di reddito e il sommerso, il quadro dei problemi che ci sentiamo di sottolineare e che dovrebbe essere messo sotto la lente dell’azione politica. Sono emergenze nazionali.
  3. Il terzo dato saliente non è negativo, anzi: secondo una classifica di generale benessere o addirittura di felicità, il voto che gli italiani danno alla loro condizione generale è 7,3. Più che discreto. La media europea è infatti 7,1 e i tedeschi sono i penultimi della lista (dietro di loro solo la Bulgaria) con 6 e mezzo. Insomma, la società italiana ha certamente dei difetti, ma probabilmente ha anche un capitale sociale ed istituzioni formalizzate e non che sanno rimediare a molti.

 

Qualche suggerimento

Un rapporto fatto di puri numeri non lancia politiche. Noi ci sentiamo di lanciare un paio di idee.

La prima è di rivalutare i censimenti, perché sono quelli che aiutavano e aiuterebbero ad avere una percezione migliore delle condizioni sociali. Oggi sono sostituiti dai “censimenti permanenti”, che vanno messi alla prova.

La seconda è di accelerare sulle riforme strutturali che toccano le tre piaghe che abbiamo sottolineato: il divario nord-sud, il lavoro e i lavoratori insufficienti e l’emersione dell’economia sommersa. Sono davvero tre priorità.

E il microcredito?

C'è una terza idea e passa attraverso una domanda. Che ne è stato del microcredito? Sembra finito in un angolo della cassetta degli attrezzi eppure è una misura attiva che riduce la marginalità sociale attraverso l’inclusione nel mercato del lavoro. Si ha l’impressione che negli ultimi tempi l’inclusione nell’economia sia stata affrontata per lo più attraverso i trasferimenti di reddito. Non ne neghiamo l’utilità. Sono indispensabili, ma chi riceve un trasferimento, spesso dovrà averne un altro.

Chi accede al microcredito, in oltre 90 casi su 100 lo restituisce e soprattutto fa uscire dalla trappola della povertà i propri figli. Non sarà per tutti, ma insieme ad altre misure, come la formazione, potrebbe essere una politica adatta a molti.