1. C’è un giudice a Milano. E critica la Costituzione: questa la sintesi di un’interessante sentenza del TAR Lombardia (2271/13, sez. I), da poco pubblicata, che offre uno spaccato del grado di tutela della libertà economica in Italia alla luce delle più recenti liberalizzazioni in materia di commercio promosse dall’Unione Europea.

La vicenda di cui si sono occupati i giudici amministrativi meneghini traeva origine da una determina con cui il Comune di San Giuliano Milanese aveva respinto la domanda di una nota catena di supermercati di autorizzare l’ampliamento della superficie di vendita di un suo esercizio. Il Comune non aveva fornito motivazioni particolari per giustificare il diniego, limitandosi ad applicare le proprie norme urbanistiche, che vietavano tout-court la presenza di strutture commerciali superiori a una certa metratura nell’intera zona della città in cui si trovava il punto vendita in questione.

2. Fino a pochi anni fa, la catena della grande distribuzione non avrebbe avuto a disposizione particolari strumenti per contestare questa decisione del Comune: come affermato in modo sorprendente dalla stessa sentenza, «in passato, l’art. 41 della Costituzione [quello che tutela la libertà d’iniziativa economica, NdR] ha costituito un assai debole presidio [per la tutela delle libertà economiche], consentendo che il loro esercizio potesse essere incondizionatamente subordinato nell’an e nel quomodo [dal punto di vista della sussistenza e del contenuto, NdR] a qualunque tipo interesse pubblico assunto dal legislatore (e a cascata dalla p.a.) ad oggetto di tutela».

La Costituzione, quindi, a detta degli stessi giudici, solitamente piuttosto deferenti nei confronti della Carta fondamentale, offriva scarse tutele alla posizione di chi, come la catena straniera di supermercati in questione, voleva investire nel nostro Paese ma si scontrava con gli ostacoli burocratici dei Comuni. Per inciso, vale la pena notare che la gran parte delle proposte di modifica della Costituzione, che pure suscitano molte indignate reazioni a difesa del testo esistente, non considera neppure l’ipotesi di modificare le norme in materia economica come l’art. 41, appartenenti alla Prima Parte, ritenuta evidentemente inviolabile anche dai riformatori.

In ogni caso, da qualche tempo lo scenario normativo è cambiato, e ciò si deve eminentemente all’intervento della direttiva servizi (dir. 2006/123/CE), la cosiddetta Bolkestein, dal nome del commissario europeo che la promosse. Tale direttiva fu poi recepita in Italia dal decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, che a sua volta ispirò una serie di ulteriori interventi normativi tra 2011 e 2012 che hanno liberalizzato la materia in questione, e in particolare quella del commercio, già oggetto negli anni recenti di altri interventi di progressivo superamento dell’originaria disciplina del 1971, di impianto fortemente dirigistico.

Per effetto della direttiva Bolkestein, dunque, e della successiva legislazione italiana da essa derivante, si è affermato il principio per cui «l’iniziativa economica non [può], di regola, essere assoggettata ad autorizzazioni e limitazioni (specie se dirette al governo autoritativo del rapporto fra domanda ed offerta), essendo ciò consentito solo qualora sussistano motivi imperativi di interesse generale rientranti nel catalogo formulato dalla Corte di Giustizia».

Ciò si riflette anche nella materia urbanistica, dove gli atti di programmazione territoriale dei Comuni divengono così soggetti a una verifica di compatibilità con i dettami della direttiva servizi. Al giudice italiano si consente e al tempo stesso impone di effettuare «un riscontro molto più penetrante di quello che si riteneva essere consentito in passato; e ciò per verificare, attraverso un’analisi degli atti preparatori e delle concrete circostanze di fatto che a tali atti fanno da sfondo, se effettivamente i divieti imposti possano ritenersi correlati e proporzionati a effettive esigenze di tutela dell’ambiente urbano o afferenti all’ordinato assetto del territorio sotto il profilo della viabilità, della necessaria dotazione di standard o di altre opere pubbliche, dovendosi, in caso contrario, reputare che le limitazioni in parola non siano riconducibili a motivi imperativi di interesse generale e siano, perciò, illegittime».

È cioè completamente cambiato il paradigma: sono ora i Comuni a dover giustificare in modo convincente le restrizioni da essi poste, tramite la pianificazione urbanistica, all’apertura di nuovi esercizi commerciali. In assenza di una giustificazione convincente, le restrizioni devono essere ritenute illegittime, ed è stato questo il caso dei vincoli posti dal Comune di San Giuliano Milanese a fondamento del proprio rifiuto di consentire alla catena di supermercati l’ampliamento del proprio punto vendita: tali vincoli sono così stati ritenuti dai giudici milanesi costituire addirittura «una misura anti concorrenziale che, di fatto, salvaguarda le imprese commerciali già presenti nella zona senza apportare alcun beneficio più generale per la collettività», con il conseguente annullamento del provvedimento del Comune impugnato dalla catena di supermercati.

3. La vicenda in questione è significativa del grado di influenza che il diritto europeo ha acquisito sul diritto dell’economia nel nostro Paese, giungendo fino a ridimensionare l’ambito operativo di norme come il citato art. 41 sulla libertà di iniziativa economica. In effetti, secondo molti autori, il costituente italiano aveva disegnato un modello di costituzione economica molto diverso, molto più aperto all’intervento statale e molto più diffidente nei confronti del libero mercato e della concorrenza. Secondo un grandissimo costituzionalista, Giovanni Bognetti, recentemente scomparso, di per sé la Costituzione era invece molto più rispettosa delle libertà economiche di quanto comunemente non si creda, e sono state la legislazione e la prassi successive a dare ampio spazio all’interposizione pubblica nell’economia.

In qualunque modo ci si collochi all’interno di questo dibattito di carattere costituzionalistico, va riconosciuto che oggi l’impatto del diritto europeo su quello nazionale è tale che, almeno per certi versi, l’ostilità al mercato propria della legislazione in materia economica stratificatasi fino almeno agli anni ’90, trova un limite nei superiori principi di derivazione europea, che molto spesso impongono al legislatore italiano scelte di liberalizzazione dei mercati. Questo vale tanto per il legislatore statale, quanto, come confermato da recenti pronunce della Corte Costituzionale come la 299/2012 e la 38/2013, per quello regionale, il quale, pur essendo oggi competente in materia di commercio, risulta vincolato dalle scelte pro-concorrenziali effettuate dal legislatore statale per adeguarsi alle istanze di derivazione europea.

Tali scelte si sono manifestate, anche per effetto della stessa direttiva Bolkestein, nel campo dei servizi professionali, dove le tenaci resistenze degli ordini non hanno potuto impedire alcuni elementi di liberalizzazione, come un certo abbandono delle tariffe, la caduta dei divieti pubblicitari, o la legittimazione delle società professionali e inter-professionali.

Ma la spinta europea all’apertura dei mercati nazionali si è fatta sentire in Italia anche in altri ambiti, come per le altre libertà fondamentali (merci, persone, capitali), ma forse su tutti nella materia degli aiuti di Stato, ovvero di quelle provvigioni economiche che vanno a beneficiare singole aziende o singoli settori, così falsando la concorrenza. La Costituzione italiana non poneva restrizioni particolari a questa forma di interventismo economico, che risultava quindi una forma di politica economica di per sé legittima; tuttavia, poiché gli aiuti di Stato ostacolano la concorrenza all’interno dell’Unione Europea e allontanano così l’obiettivo di creare un mercato interno con meno barriere e frammentazioni possibili, la UE ha posto un divieto generale a tale forma di intervento pubblico.

In questo modo, il sentiero per la possibilità dei governi di intervenire direttamente a sostegno di particolari imprese è divenuto molto più stretto. In Italia, l’impatto è stato particolarmente significativo, come emerge da un dato su tutti: il volume complessivo degli aiuti italiani (settore ferroviario escluso) è sceso dagli oltre 18 miliardi di euro del 1992, ai meno di 4 del 2011. Parallelamente, è cresciuto l’enforcement da parte della Commissione Europea, che ha preteso la restituzione di somme anche ingenti, come i 220 milioni nel noto caso dei decoder per il digitale terrestre o i 295 concessi ad Alcoa sotto forma di tariffe elettriche agevolate, e che risulta l’unico ostacolo a operazioni dubbie come l’ingresso di Poste Italiane in Alitalia o il salvataggio di Montepaschi attuato tramite un prestito, invece della nazionalizzazione pura e semplice.

Per la verità, nella stessa materia degli aiuti di Stato, la UE non ha potuto fare molto per limitare la proprietà pubblica delle imprese, che se è in parte diminuita con le privatizzazioni degli anni 90, è rimasta stabile se non è cresciuta a livello municipale (in valore assoluto, le società e consorzi pubblici sono complessivamente cresciuti di numero addirittura dell’8 per cento dal 2011 al 2012). In materia di servizi pubblici locali, del resto, l’Unione Europea riconosce la legittimità delle società in house (al 100 per cento pubbliche), e l’esito dei referendum del 2011 è stato ritenuto compatibile con il diritto europeo.

In diversi altri ambiti l’Unione Europea non aveva le competenze per imporre all’Italia una maggior tutela delle libertà economiche, come in materia di diritto del lavoro (nonostante pronunce coraggiose, come Viking e Laval), o di obblighi e vincoli burocratici (nonostante il pur fondamentale lavoro fatto dalla Corte di Giustizia Europea in materia di libera circolazione delle merci, dal celebre caso Cassis de Dijon in poi).

In molti altri campi, poi, l’azione delle istituzioni europee è andata in direzione opposta al perseguimento del principio di libera concorrenza e all’espansione dell’area del mercato rispetto a quella dello Stato, come con la Politica Agricola Comune e in generale la politica doganale, con diversi interventi dirigistici in materia antitrust, o con la promozione di nuovi diritti sociali come quello al turismo, idea del Commissario italiano Antonio Tajani.

4. In conclusione, il quadro tracciato, pur nella sua estrema sinteticità, restituisce un’immagine di una UE dalle molte sfumature: certamente non è quel centro di irradiazione di politiche liberiste che viene descritto da taluni, ma, come dimostra la recente sentenza milanese da cui ha preso le mosse questa analisi, la sua azione ha contribuito molto all’apertura dei mercati nazionali, soprattutto in Paesi, come l’Italia, che da soli sarebbero stati con ogni probabilità ancor più lenti nei processi di privatizzazione e liberalizzazione.

Da questo punto di vista, anche in vista del dibattito sull’Europa che inevitabilmente si svilupperà con l’approssimarsi delle elezioni 2014 del Parlamento Europeo, destano particolare interesse e meritano molta attenzione quei movimenti di opinione che in Italia (è il caso di Libera Europa) come in altri Paesi fondano la propria azione sulla difesa delle conquiste europee in materia di mercato interno, rigettando con altrettanta convinzione tutta l’impalcatura burocratica che ad esse ha fatto da contorno, finendo molto spesso col prevalere nell’immaginario collettivo.