1. Non ci sono molti precedenti storici che possano aiutare a capire la crisi economica e finanziaria in corso, nonché i suoi possibili effetti sulla società e la politica. L’unico fenomeno paragonabile è la Grande Depressione degli anni Trenta del Novecento, pur con tutte le cautele che tale confronto richiede, considerato che all’epoca la finanza, la tecnologia, le comunicazioni, l’organizzazione politica e sociale, il sistema delle relazioni internazionali, erano radicalmente differenti.

Una cosa però il paragone con gli anni Trenta la dice in maniera inequivocabile, ed è bene non dimenticarla: una prolungata recessione economica innesca reazioni sociali e politiche difficili da prevedere, ma verosimilmente molto forti.  Gli effetti sulla politica prodotti in Europa dalla crisi attuale già si vedono e cresceranno – forse gli anni Trenta possono almeno suggerirci da che cosa dobbiamo stare in guardia.

2. Venendo all’oggi: nelle prossime settimane sono previsti alcuni appuntamenti  elettorali importanti  (6 maggio, secondo turno delle presidenziali in Francia ed elezioni politiche anticipate in Grecia; 6 e 7 maggio, primo turno in Italia di elezioni amministrative che riguardano 11 milioni di elettori;  6 maggio in  Germania elezioni regionali nello Schleswig Holstein e 13 maggio nel Nord-Reno Vestfalia, il Land più popoloso; 20 e 21 maggio, secondo turno delle amministrative italiane; 31 maggio, referendum in Irlanda sul fiscal compact europeo). Si aggiunga che il 20 aprile si è dimesso il governo minoritario di centrodestra olandese per l’impossibilità di raggiungere un accordo sui tagli di bilancio fra i partiti che lo sostengono, e che pertanto anche l’Olanda pare avviarsi a elezioni politiche anticipate.

Quanto all’esito delle diverse consultazioni elettorali, si profilano, per quel che si capisce dai sondaggi, una elevata incertezza sui vincitori, la tendenza al contrarsi del consenso per i partiti “storici”  di sistema, il rafforzamento delle estreme di destra e sinistra, la frammentazione del voto (fenomeni tutti in maggiore o minor misura rilevabili anche nel primo turno delle presidenziali francesi, da cui è uscito vincitore il socialista Hollande). Nel caso francese, la frammentazione sarà almeno formalmente ricondotta a unità dal ballottaggio, e nel caso italiano si tratta pur sempre di elezioni amministrative, come nel caso tedesco, dove però in entrambi i Laender i sondaggi attribuiscono buoni risultati al partito dei Pirati; la Grecia parrebbe avviata a un governo di coalizione, ma fra quali soggetti  politici è tutto da vedere; quanto all’Olanda, al presente l’unica certezza è che non vi è una maggioranza in Parlamento.

3. Si impongono a questo punto quattro considerazioni.

La prima è che l’intera costruzione europea, per il modo com’è stata disegnata e che si riflette nella scrittura dei Trattati, resta pur sempre una catena, non più forte del suo anello più debole.

La seconda: il 7 maggio l’Europa potrebbe risvegliarsi politicamente molto diversa da come era andata a dormire la sera del 5 – e non pare essersene accorta, o aver apprestato adeguate contromisure.

La terza: se la reazione dei mercati al primo turno delle presidenziali francesi è stata così negativa (benché la storia recente indichi che molto spesso il risultato del secondo turno ha contraddetto quello del primo), come reagirebbero gli stessi mercati a una simultanea vittoria della gauche in Francia, dei partiti anti Europa in Grecia, di populismi di varia natura in Italia e Germania?

La quarta, infine: alla radice della crisi dei debiti sovrani in Europa vi è un problema squisitamente politico, un problema di consenso delle leadership nazionali elettive. Ad averlo, però, non sono soltanto i politici latini (per definizione, spreconi?), quali gli spagnoli Zapatero e Rajoy, il greco Papandreu, i francesi  Sarkozy e Hollande, gli italiani Alfano e Bersani, che hanno difficoltà a sostenere misure di rigore se vogliono essere rieletti. Il problema esiste anche in Germania: nei fatti, se vuole avere qualche speranza di rielezione, la cancelliera  Angela Merkel  “non può” dire agli iscritti e militanti della Cdu-Csu ciò che pure è una realtà ormai evidente, ossia che l’euro non regge senza una “vera” banca centrale e che politiche di solo rigore hanno effetti recessivi, tali da allontanare l’equilibrio di bilancio e mettere a rischio, per le loro ripercussioni sociali e politiche, la sopravvivenza stessa dell’eurozona.

Questo non detto – come tutti i non detti – è molto pericoloso: perché prima o poi (e da come vanno le cose, più prima che poi) bisognerà farci i conti, con quali conseguenze non è dato prevedere.

4. Che in questo contesto l’Italia fatichi non può stupire: passato lo choc di novembre-dicembre, per effetto del quale furono approvati la riforma delle pensioni e  l’inasprimento fiscale, le misure di liberalizzazione sono state generosamente annacquate in parlamento (una controprova empirica, per chi volesse dispensarsi dalla lettura del testo della legge: in un paese fatto come l’Italia, possono mai essere liberalizzazioni vere quelle che come tutta protesta hanno provocato appena qualche giorno di sciopero dei taxisti?); la riforma del mercato del lavoro è in stallo; e l’unica cosa chiara è che si prospetta  un anno di recessione.

Rispetto a novembre, la situazione si è per qualche verso complicata: la luna di miele del governo Monti – con gli italiani, con i partiti in parlamento, con i mercati finanziari e con gli altri partner europei – si è conclusa producendo come frutti una ottima riforma delle pensioni, un duro (e recessivo) inasprimento fiscale, una tregua molto temporanea sui mercati finanziari e l’illusoria percezione che le liberalizzazioni siano state fatte (ma chi godeva e continua a godere di rendite di posizione rimaste intatte sa che prima o poi potrà venire il suo turno, e questo deprime ulteriormente le aspettative; mentre a nessuno sarà sfuggito che l’approvazione della riforma delle pensioni, per quanto dura, ha coinciso con un collettivo sospiro di sollievo, perché … il dente finalmente era stato tolto).

5. I partiti sono in crisi, come e peggio che nel ’92, e se è vero che c’è in circolazione molto qualunquismo antipolitico, è altrettanto vero che l’indignazione per i comportamenti corruttivi e gli sprechi è largamente fondata, e non si può certo pretendere che sparisca. In democrazia non si governa a dispetto dei santi (degli elettori?) – dunque a questo punto se le cose andassero davvero male si tornerà a votare, magari in autunno, prima del “semestre bianco”, ossia dei sei mesi conclusivi del mandato del presidente della Repubblica, durante i quali questi non può sciogliere le Camere. (Sia detto per  inciso, ma è davvero  un segno inquietante della gravità della crisi di sistema in Italia che si sia seriamente evocata l’ipotesi di rinviare le elezioni – cosa che sarebbe immaginabile solo nel caso, per esempio, di un terremoto che distruggesse un quarto del paese; non certo, invece, perché non si capisce quale maggioranza potrebbe venir fuori dalle elezioni: servono proprio a questo le elezioni, a “scoprire” le maggioranze).

Ci si può solo augurare che per quando si tornerà al voto –  e sarà comunque fra meno di un anno – vi siano davvero, dentro o fuori dai partiti, degli “imprenditori politici della fiducia”, determinati a costruire quella coalizione per le riforme che è mancata all’Italia negli ultimi vent’anni, e capaci di farlo. Nell’Europa degli anni Trenta a vincere furono gli imprenditori della paura: ma conoscere la storia dovrebbe servire a non ripetere gli errori del passato.