L'aumento della povertà alimentare è sicuramente collegato ai limiti strutturali del sistema di welfare italiano in materia di politiche di contrasto all'indigenza

Secondo l'Istat nel 2008 le persone in povertà relativa, ovvero con redditi disponibili inferiori ad una soglia stabilita prendendo in considerazione la spesa media procapite, in Italia erano circa 6,5 milioni (l'11,1% della popolazione residente). Nel 2014 le persone in questa condizione risultavano 7,8 milioni (12,9% dei residenti), in aumento di circa 2,3 milioni rispetto a sei anni prima. Per fare un esempio, la linea della povertà relativa per una famiglia italiana di 2 componenti è di 1.041 euro (anno 2014).

Nello stesso periodo le persone in povertà assoluta, condizione in cui si trovano coloro i quali non riescono ad accedere a beni e servizi considerati essenziali per mantenere uno standard di vita minimamente accettabile, sono praticamente raddoppiate. Nel 2008 le persone assolutamente povere erano circa 2,1 milioni, pari al 3,6% dei residenti, nel 2014 il loro numero è arrivato a 4,1 milioni, il 6,8% della popolazione (Figura 1 e Figura 2).
Ad esempio, una famiglia di 2 componenti che vive in un'area metropolitana del nord Italia ha una soglia di povertà assoluta di 837 euro a prezzi correnti, per l'anno 2014. La stessa famiglia che vivesse nel Mezzogiorno nello stesso anno avrebbe la soglia a 606 euro. I più recenti dati Istat relativi al 2015 diffusi in questi giorni, dopo la stesura della scheda, confermano purtroppo questa tendenza negativa.
È in questo contesto che è andato allargandosi - raggiungendo dimensioni che non si registravano dal secondo dopoguerra - il problema della povertà alimentare, cioè l'incapacità degli individui di accedere ad alimenti sufficienti, sicuri e nutrienti tali da garantire loro una vita sana e attiva rispetto al proprio contesto sociale di riferimento. Poiché alcuni costi risultano difficilmente comprimibili – le bollette, l'affitto, le rate di un mutuo, etc. – per far quadrare i conti molti italiani negli ultimi anni si sono visti costretti a tagliare altre voci di spesa più facilmente riducibili, legate soprattutto ad abbigliamento, istruzione, cultura, salute e – appunto – alimentazione.

Proprio i dati legati ai consumi alimentari indicano come sempre più persone, strette nella morsa della crisi, rinuncino in toto o in parte agli acquisti alimentari (Maino, Lodi, Rizzini e Bandera, 2016). A dimostrare questa tendenza è ad esempio l'indicatore Eurostat relativo alla "incapacità di permettersi un pasto con carne o pesce (o equivalente vegetariano) ogni due giorni". Secondo le rilevazioni, gli italiani che nel 2014 dichiaravano di trovarsi in questa situazione erano pari al 12,6% della popolazione. Rispetto al 2008, quando erano il 7,5%, si è registrato un aumento consistente che ha portato il nostro Paese ben al di sopra della media degli altri Paesi UE, che sempre nel 2014 era pari al 9,4% (Figura 3).
In una situazione peggiore dell'Italia si trovano solo la Grecia (13%) e i Paesi entrati nell'Unione Europea con gli ultimi allargamenti (Bulgaria, Romania, Croazia). Grandi Paesi come Francia (7,2%), Germania (7,5%), Regno Unito (8%) e Spagna (3,3%) presentano invece livelli molto più bassi di quelli italiani (Figura 4), benchè differiscano in quanto nei primi due (Francia e Germania) dal 2008 c'è stato un miglioramento, mentre nel Regno Unito e Spagna il trend è stato peggiorativo.
Gisella Accolla in una recente ricerca (2015) ha quantificato il livello di povertà alimentare delle famiglie italiane concentrando l'attenzione su quei nuclei che si trovano al di sotto della soglia di povertà assoluta stabilita dall'Istat e, nel contempo, presentano una spesa alimentare inferiore alla soglia assoluta riferita alla sola componente alimentare. In base a questi parametri, nel 2013 circa il 6,8% dei nuclei familiari residenti in Italia si è trovata in una simile condizione; nel 2007 erano appena il 3%. In termini reali si tratta di quasi 5,5 milioni di persone, il 9,1% dei residenti nel Paese. Attualmente i poveri alimentari si concentrano principalmente nel Sud della Penisola (Figura 5), dove ben il 10,6% delle famiglie residenti è colpita dal fenomeno (erano il 4,3% nel 2007), contro il 4,8% del Centro (1,8% nel 2007) e il 5,1% del Nord (2,6% nel 2007). Le regioni con i tassi più alti di famiglie alimentarmente povere (Figura 6) sono in particolare la Sicilia (13,3%), la Calabria (12,4%), la Sardegna (12,1%) e la Puglia (10,7%). Le regioni con i tassi più bassi sono invece la Toscana (2,6%), il Trentino-Alto Adige (2,8%), le Marche (4,1%), il Friuli Venezia Giulia e l'Emilia Romagna (entrambe col 4,2%).

Ad essere particolarmente esposti al fenomeno della povertà alimentare sono anzitutto i minori. I dati indicano che l'11,9% della popolazione nella fascia 0-5 anni, il 13,7% della fascia 6-14 e il 13% della fascia 15-17 vive in famiglie caratterizzate da una situazione di povertà alimentare: dati molto superiori alla media nazionale, che come detto è pari al 9,1%. Complessivamente dei 5 milioni e mezzo di persone che vivono in condizioni di povertà alimentare circa 1 milione e 300 mila sono quindi minorenni.
L'aumento e la diversificazione di rischi e bisogni legati alla povertà alimentare possono essere certamente ricollegati agli effetti della crisi-che-non-passa, ma sarebbe un errore non tenere conto anche dei limiti strutturali del sistema di welfare italiano in materia di politiche di contrasto all'indigenza. Il nostro Paese, infatti, oltre ad alcune sperimentazioni avviate negli ultimi anni (come la Social Card nelle grandi città) non ha sviluppato misure uniformi a livello nazionale per affrontare i problemi legati alla povertà. Un vulnus che a cascata per molti anni ha impedito di contrastare efficacemente il fenomeno della povertà alimentare che, come visto, riguarda ormai una parte consistente della popolazione italiana. Il Legislatore ha recentemente cercato di intervenire in tal senso attraverso l'introduzione della cosiddetta Legge anti-spreco, la quale prevede una serie di misure che, semplificando requisiti, procedure e normative, dovrebbero incentivare le donazioni alimentari (Lodi Rizzini, 2016).
Quella del contrasto allo spreco alimentare, infatti, è oggi una strada privilegiata per affrontare anche i problemi dei più poveri. Solo in Italia ogni anno 5,5 milioni di tonnellate di alimenti in perfette condizioni e utilizzabili per il consumo umano finiscono nella spazzatura, per uno spreco stimato in oltre 12 miliardi di euro (Garrone, Melacini e Perego, 2012). Gran parte di queste eccedenze, con uno sforzo relativamente contenuto, potrebbero essere recuperate e utilizzate per sostenere chi si trova in povertà alimentare. La proposta di legge, già approvata alla Camera e ora al vaglio del Senato, rappresenta senza dubbio un'iniziativa positiva per favorire evoluzioni in tal senso. Prima di essa tuttavia - se si esclude la cosiddetta Legge del Buon Samaritano - lo Stato ha giocato un ruolo assolutamente residuale per quel che riguarda il contrasto alla povertà alimentare, di cui invece si sono occupate largamente tanto le istituzioni europee quanto le organizzazioni del terzo settore.

L'Unione Europea - prima col con il Programma per la distribuzione di derrate alimentari agli indigenti (PEAD) e poi con il Fondo di Aiuti Europei agli indigenti (FEAD) - dal 1987 si occupa infatti di distribuire risorse a chi nei Paesi membri si trova in povertà alimentare. Un impegno che dura da quasi 30 anni e che si basa soprattutto sull'apporto di diverse realtà della società civile, cui spetta il compito di individuare e sostenere gli indigenti attraverso le risorse messe a disposizione dall'UE.
Nel nostro Paese, in particolare, le organizzazioni del terzo settore hanno giocato e giocano un ruolo cruciale nella lotta alla povertà alimentare. In un'ottica di secondo welfare (Maino e Ferrera, 2015), infatti, ogni giorno migliaia di soggetti radicati sui territori mettono in campo iniziative e risorse capaci di rispondere ai bisogni alimentari dei più poveri.

  • È questo il caso di food bank come il Banco Alimentare che, operando come grossisti della solidarietà, recuperano le eccedenze prodotte lungo la filiera agroalimentare per destinarle a chi si trova in situazione di indigenza.
  • O degli empori solidali, realtà non profit che stanno innovando le modalità di contrasto all'indigenza alimentare offrendo, oltre ai generi alimentari, strumenti integrati di promozione lavorativa e sociale per permettere alle persone di uscire da questa situazione.
  • O, ancora, delle migliaia di cittadini e associazioni che, grazie alla crescente consapevolezza delle conseguenze sociali, ambientali ed economiche che possono essere generate da comportamenti e abitudini alimentari errate, stanno sviluppando forme di approvvigionamento, produzione e consumo più sostenibili. Come dimostra la diffusione dell'agricoltura urbana, il proliferare dei Gruppi di Acquisto Solidale o l'utilizzo di nuove tecnologie per favorire il food sharing e il recupero delle eccedenze alimentari.

Queste e molte altre esperienze sono state raccolte in un recente studio - Povertà alimentare in Italia: le risposte del secondo welfare (Maino, Lodi Rizzini e Bandera, 2016) - cui è possibile fare riferimento per capire meglio le strade percorribili (Figura 7) per spezzare il circolo vizioso costituito da povertà e spreco alimentare.