In Arabia Saudita si è aperta una stagione di profondi cambiamenti economici e di incognite politiche

La rivoluzione economica
L’ascesa al trono dell’81enne re Salman bin Abd al-Aziz Al Saud, succeduto il 23 gennaio 2015 al fratellastro Abdallah, ha aperto una stagione di profondi cambiamenti in Arabia Saudita. Dall’esito, però, quanto meno incerto.
In campo economico, nell’aprile 2015 è stato lanciato il “National Transformation Plan”, conosciuto anche come progetto “Vision 2030”, dalla data del previsto completamento. Il Piano (costato ben 1,25 miliardi di dollari soltanto in consulenze incassate dalle maggiori aziende mondiali del settore: Deloitte, McKinsey, KPMG, PwC) ha l’obiettivo di ridurre l’enorme dipendenza dall’estrazione d’idrocarburi (la quale attualmente genera il 90 per cento delle esportazioni, l’87 per cento delle entrate statali e il 42 per cento del Pil) mediante una profonda diversificazione dell’apparato produttivo. Il volume degli investimenti è stimato da McKinsey in ben 4.000 miliardi di dollari.

Il principale meccanismo individuato è la privatizzazione di alcuni settori finora riservati allo Stato, che culminerà nella quotazione sul mercato azionario del 5 per cento di Saudi Aramco (Arabian American Oil Company), il nucleo centrale del potere politico-energetico del Paese poiché controlla riserve petrolifere per 266 miliardi di barili, pari al 16 per cento del totale mondiale convenzionale, ed è il principale produttore mondiale di greggio. Programmata per il 2018, tale quotazione, che si annuncia come la maggiore della storia delle borse mondiali, farà affluire preziose risorse valutarie nelle impoverite casse statali. Fonti del regno saudita valutano infatti Aramco oltre 2.000 miliardi di dollari (Figura 1), mentre altre stime, ad esempio quella di Wood Mackenzie Ltd, riducono fortemente la cifra a 400 miliardi e, quindi, il potenziale incasso effettivo. In marzo il ministro saudita del petrolio, Khalid al-Falih, ha previsto una stima variabile tra mille e 1.500 miliardi. La cifra più probabile, secondo molti analisti, finirà per aggirarsi intorno a 1.000 miliardi di dollari.


Per combattere le crisi cicliche del settore petrolifero, “Vision 2030” prevede inoltre di portare i principali settori non energetici (miniere, turismo religioso, petrolchimica e servizi finanziari) a fatturare 100 miliardi di dollari nel 2020, e a creare 6 milioni di posti di lavoro entro il 2030. L’obiettivo di fondo è preparare il passaggio a un sistema produttivo post-energetico che collochi l’Arabia Saudita tra le prime dieci economie mondiali.
Il deciso aumento degli introiti statali (e quindi anche la quotazione di Aramco) è divenuto urgente dopo il fallimento della “scommessa” petrolifera tentata da Riyadh alla fine del 2014: mandare fuori mercato i principali concorrenti mondiali (gli Stati Uniti con il loro shale oil prodotto mediante la “fratturazione idraulica”, ma anche vari altri Paesi membri del cartello dell’Opec, Iran in testa, i cui greggi convenzionali hanno costi di produzione superiori a quelli sauditi) estraendo enormi quantità di petrolio, fino a 10,64 milioni di barili al giorno (mb/g) nel novembre scorso. Il guadagno di alcune quote di mercato, infatti, è stato pagato dall’Arabia Saudita con un drastico crollo del prezzo internazionale del greggio (da 114 dollari al barile nel maggio 2014 a meno di 30 dollari all’inizio del 2015) e, quindi, dei propri introiti (da 247 miliardi di dollari nel 2014 a 130 miliardi nel 2015 e a poco più di 100 nel 2016). Ciò ha causato forti scompensi nel bilancio statale (Figura 2): 98 miliardi di dollari il deficit nel 2015, 79 miliardi nel 2016, con una stima di altri 52 per l’anno in corso (Figura 3), mentre, in rapporto con il Pil, il passivo è risultato rispettivamente di -15, -11,5 e -7,7 per cento: soltanto nel 2020 è previsto un ritorno al pareggio.
Di fronte a un simile crollo, Riyadh è stata costretta a un’umiliante retromarcia promuovendo, a fine novembre 2016, un’intesa (inizialmente semestrale, ma con molta probabilità prorogata almeno fino alla fine dell’anno) tra l’Opec e gli altri principali produttori mondiali per ridurre l’estrazione globale di 1,2 mb/g allo scopo di riequilibrare il mercato e far risalire le quotazioni.
Ciò ha rappresentato una sconfitta sul piano politico, poiché l’arci-nemico iraniano ha ottenuto un rialzo della sua quota produttiva (per quanto simbolico, 90mila barili al giorno), mentre l’Arabia Saudita si è accollata il taglio più elevato, pari a 0,486 mb/g). Ed è stata una vittoria di Pirro sul piano economico, poiché tale manovra ha fatto risalire i prezzi di poco più di 5 dollari al barile (Figura 4), stabilizzandoli intorno a “quota 50”: troppo poco per ripristinare un flusso significativo d’introiti nelle casse statali. Forse non per caso, a ottobre 2016, il governo saudita aveva deciso di rastrellare denaro emettendo obbligazioni a 5, 10 e 30 anni per 17,5 miliardi di dollari (andate peraltro a ruba, grazie anche a rendimenti superiori a quelli dei corrispondenti titoli del debito americano, segno comunque che il regno gode ancora di ampia fiducia sui mercati), dopo aver raccolto altri 18 miliardi nel primo semestre del 2016. Il debito totale ha comunque raggiunto i 200 miliardi di dollari ed appare destinato a salire (Figura 5).

Un duro impatto sociale
Il figlio del re, Mohammed bin Salman, nominato dal padre dopo appena tre mesi di regno, vice principe ereditario (secondo in linea di successione dopo il cugino Mohammed bin Nayef), vice primo ministro con l’incarico di gestire la riforma dell’economia e ministro della Difesa - il più giovane al mondo (classe 1985) a ricoprire questo ruolo cruciale, che gli dà il controllo del più potente apparato militare mediorientale -, intende imprimere a “Vision 2030” il carattere di una “rivoluzione thatcheriana”. L’enfasi posta sulla redditività dei progetti e sui conti statali in ordine, con la conseguente necessità di adottare dure misure di austerità, minaccia però di alterare i delicati equilibri socio-economici del regno. La drastica “ristrutturazione” economica che ne consegue sarà infatti pagata soprattutto dai cittadini sauditi: per la prima volta saranno tassati i redditi personali (anche se è stata smentita una rapida adozione della misura), sarà introdotta l’Iva su molti prodotti voluttuari o di lusso e verranno aumentate le imposte sull’impiego di manodopera straniera (oggi circa il 50 per cento del totale), la quale dovrà acquistare il permesso di residenza temporanea a fini lavorativi.
In particolare, il sistema di welfare state - finora tra i più generosi al mondo, specie per la sanità e l’istruzione - sarà fortemente ridotto per tutti i sudditi. Il primo segno dell’arrivo di tempi difficili è stato l’aumento del 50 per cento del prezzo della benzina, che prima costava appena 16 centesimi di riyal al litro (circa 5 centesimi di euro!), seguito da quello di gasolio ed elettricità. E non è affatto escluso che, se la situazione finanziaria non migliorerà rapidamente, siano a rischio anche gli ingenti sussidi statali ad altri beni di prima necessità (cibo, acqua, farmaci), finora venduti a prezzi simbolici. Gran parte delle cure mediche, che fino a pochi mesi fa si potevano effettuare gratuitamente all’estero, è stata cancellata o resa a pagamento pieno. Ulteriore segnale del mutamento profondo delle priorità del regno saudita, è il boom delle spese militari - ormai, con 87,2 miliardi di dollari, le terze al mondo per dimensione davanti a quelle russe (Figura 6), ma le prime in assoluto per valore procapite - che ormai eguagliano quasi quelle per l’istruzione (Figura 7). Cui va aggiunto il costo della guerra in Yemen, stimato in altri 50/60 miliardi di dollari l’anno.

«Esistono grossi problemi sociali - denunciava lo scorso anno Liisa Liimatainen, una delle più autorevoli studiose occidentali del mondo saudita. La disoccupazione giovanile è ad altissimi livelli. Il ministero del Lavoro ha espulso almeno un milione di lavoratori illegali a partire dal 2013. Questa operazione continua ancora. La finalità è creare spazio al lavoro per i sauditi disoccupati. Anche la mancanza di case è un grosso problema: secondo alcune fonti, addirittura circa il 60 per cento dei sauditi non avrebbe un’abitazione decente. I problemi di povertà toccano circa 40 per cento della popolazione». Entro il 2030 l’Arabia Saudita dovrà far posto ad altri sei milioni di 15enni e si stima che il numero di quanti cercano lavoro salirà di quattro milioni. Quello stesso lavoro che, fino a un paio di anni fa, di fatto era snobbato dai sauditi, cui bastava, per vivere alla grande, sottopagare, privandoli di ogni diritto politico e sindacale, 9 milioni di lavoratori immigrati per svolgere professioni manuali (dall’idraulico all’elettricista, fino al benzinaio o all’infermiere) ritenute troppo umili e socialmente indecorose. Già oggi la disoccupazione ufficiale è al 12per cento, ma quella reale pare molto superiore, probabilmente quasi doppia. I giovani senza lavoro sotto i 25 anni superano il 30 per cento.

Le incognite politiche
La difficile situazione socio-economica si riflette inevitabilmente in maniera critica sulla situazione politica. La crisi petrolifera e le conseguenti misure di austerità in via di adozione sembrano in grado di scavare un solco difficilmente colmabile tra la smisurata famiglia reale (circa 15mila tra principi e parenti collaterali dei rami cadetti, che potrebbero salire a 60mila nel prossimo decennio) e la fascia di “grand commis” e beneficiati diretti dalla monarchia (stimabile in meno del 10 per cento della popolazione totale, pari a 28 milioni di persone) da un lato e il resto della società dall’altro. La stabilità del Paese ne potrebbe uscire compromessa. Finora, infatti, il regno saudita si è retto su un tacito patto, rispettato lealmente dai due contraenti: I sudditi si disinteressano della politica, lasciata discrezionalmente nelle mani dell’élite dirigente; questa, in cambio, assicura ogni tipo di favore socio-economico, destinando allo scopo una quota significativa dei proventi dell’ “oro nero” ed esentando di fatto gran parte dei sudditi dalla necessità di lavorare; oppure garantendo loro un sicuro impiego statale (gli addetti del settore sono circa 2,3 milioni, oltre la metà del totale dei lavoratori sauditi).
La “rivoluzione thatcheriana“ delineata da Mohammed bin Salman ha subito messo nel mirino alcune delle principali concessioni elargite nel passato: oltre ai già ricordati aumenti dei prezzi di acqua, benzina ed elettricità, il 26 settembre 2016 un decreto reale ha decurtato del 20 per cento gli stipendi pubblici, compresi quelli dei ministri, e imposto forti tagli a molti fringe benefits, come “auto blu”, biglietti aerei, ristoranti e ospedali gratuiti.
Le riforme in cantiere, oltre a ridimensionare fortemente questa sorta di “paradiso di Allah in terra”, richiedono soprattutto ai sudditi di trasformarsi di fatto in cittadini-lavoratori e cittadini-imprenditori. Ma con una conseguenza cruciale. Se essi, d’ora in poi, dovranno pagare tasse e imposte per ricevere una serie più ridotta di servizi, appare inevitabile che richiedano di poter controllare come viene speso il denaro loro prelevato. Il che implica la creazione di forme di controllo istituzionali, quindi la concessione di diritti politici per condividere la formazione delle scelte di fondo del Paese. Non appare più fantapolitica l’ipotesi che la molla che nel 1776 portò 13 colonie americane a ribellarsi a Sua Maestà britannica, all’insegna del grido di battaglia “nessuna tassa senza rappresentanza politica”, sia pronta a scattare di nuovo contro una delle ultime monarchie assolute. Nel caso saudita, quel grido oggi risuonerebbe così aggiornato: «Se ci togliete i benefit e la vita dorata finora garantitaci, allora vogliamo poter decidere anche noi su come vengono impiegati gli enormi introiti della rendita petrolifera». La richiesta di partecipazione politico-sociale sfocia inevitabilmente in una parola finora impronunciabile e aborrita per il mondo saudita: democrazia. Con tutto il corollario di effetti devastanti che essa comporta per il sistema assolutista finora in vigore: costituzione approvata dal popolo, stato di diritto con separazione dei poteri, libere elezioni, pieno esercizio dei diritti umani più elementari: manifestazione del pensiero, di associazione politica e perfino - ma in tempi non certo rapidi - della pratica religiosa, tuttora bandita da una spietata sharia’a.

Le conseguenze saranno profonde anche sul costume sociale e il sistema religioso: la monarchia dovrà fare concessioni sostanziali al mondo femminile, finora escluso di fatto dalla vita pubblica, anche se dal settembre 2011 è stato esteso il diritto di voto e attivo e passivo alle donne, che chiede crescente parità giuridica con l’uomo e diritti in campo lavorativo (oggi solo il 22 per cento delle donne saudite ha un’occupazione retribuita). Ma andrà soprattutto chiarito il rapporto ambiguo e opaco che intercorre tra la dinastia e il potere religioso wahabita, che interpreta e custodisce l’Islam, la religione ufficiale di Stato. La monarchia è ferma ufficialmente da tre secoli nella difesa di questa corrente del pensiero islamico-sunnita, la cui radicalità puntella il conservatorismo politico-sociale ufficiale, anche perché ne ha ricevuto in cambio una costante legittimazione religiosa. Abbinata al fatto di controllare i due luoghi più sacri dell’Islam, la Mecca e Medina (il principale titolo vantato dai Saud verso i loro sudditi e il mondo esterno è di essere “custodi e difensori dei luoghi santi”), questa “stampella” religiosa ha dato alla casa reale un prestigio finora indiscusso in tutto il mondo musulmano, almeno quello di confessione sunnita. E quindi un formidabile potere politico. Chiaro, perciò, che ogni indebolimento dell’uno è destinato a ripercuotersi sull’altro: “simul stabunt, simul cadent”. I sovrani assoluti d’Arabia potrebbero avere un futuro temporale molto ristretto.