Il fenomeno conosciuto come Jobless recovery è caratterizzato da una crescita del Pil che subito dopo una recessione è accompagnata dalla mancata creazione di nuovi posti di lavoro

Quando dopo una crisi economica il Pil arrestava la sua caduta e cominciava a risalire, anche il numero di occupati seguiva quasi immediatamente questo trend positivo; in breve tempo, sia il Pil che l’occupazione ritornavano ai valori che avevano prima della recessione. Un aspetto che caratterizza però le ultime tre crisi americane risiede nel fatto che le riprese ad esse associate vedono una importante carenza di nuovi posti di lavoro: quando il Pil ricomincia a crescere, il numero di occupati, lontano dall’aumentare, rimane per diversi trimestri pressoché stabile al livello che aveva quando la crisi era terminata o, nei casi peggiori, continua la sua discesa. Questo fenomeno, conosciuto come Jobless recovery, è quindi caratterizzato da una crescita del Pil che subito dopo una recessione è accompagnata dalla mancata creazione di nuovi posti di lavoro; inoltre, il lasso di tempo affinché il numero di occupati, dopo aver arrestato la caduta, recuperi ciò che ha perso durante la crisi è notevolmente maggiore rispetto al passato: sia nelle crisi del 1975 che del 1991, il Pil americano impegnò circa tre trimestri per recuperare il terreno perduto; se, però, nel primo caso l’occupazione tornò al suo livello iniziale dopo circa dieci mesi di crescita, nel 1991 essa impiegò esattamente il doppio del tempo per raggiungere lo stesso risultato (Figura 1).

Per identificare e analizzare il fenomeno, confronteremo le ultime tre crisi americane (1991, 2001 e 2009) con il ciclo economico medio, che possiamo assumere essere la media dei valori caratterizzanti – produttività, Pil e occupazione – le crisi che vanno da quella del 1961 a quella del 1982. Prima di proseguire, due semplici definizioni: (i) con il termine “ripresa” si identifica il lasso di tempo che intercorre fra il momento in cui il Pil (reale) tocca il suo livello più basso e il momento in cui esso raggiunge nuovamente il livello che aveva prima che la recessione iniziasse. Le date puntuali di inizio (e fine) della crisi sono fornite dal National Bureau of Economic Research; (ii) se una ripresa non è accompagnata da una crescita quasi immediata – storicamente un trimestre – dei posti di lavoro, essa viene definita Jobless.


Date queste definizioni, risulta alquanto difficile per gli economisti trovare una spiegazione condivisa del fenomeno – che infatti ad oggi ancora non c’è –, sia perché non ci sono importanti esempi di esso nel passato, sia perché lo stesso non è direttamente riconducibile alle teorie macroeconomiche classiche. Queste, infatti, attribuiscono ai consumi una componente fondamentale del Pil e, considerata la corrispondenza diretta fra consumi e reddito e considerato come la fonte principale del reddito sia un’attività lavorativa, si comprende subito come il fenomeno possa essere strutturalmente contraddittorio e di difficile spiegazione.
La Figura 2 mostra i trend del numero di occupati durante il ciclo economico medio e durante le ultime tre riprese. La linea corrispondente al ciclo economico medio mostra chiaramente come, nel passato, il numero di occupati abbia ricominciato a crescere contemporaneamente al Pil. Analizzando invece le ultime tre riprese, si scopre come nel 1991 il numero di occupati durante il primo anno di ripresa sia rimasto al suo livello più basso, leggermente inferiore di quello registrato quando la crisi finì; nel 2001 l’occupazione impiegò poi più di due anni solo per tornare al livello che aveva quando il Pil aveva arrestato la sua caduta e infine, durante l’ultima ripresa, il numero di occupati ha continuato a diminuire durante tutti i sei mesi successivi al picco negativo del Pil, in piena ripresa quindi.
La Figura 3 e la Figura 4 mostrano quindi l’andamento di Pil e del numero di occupati rispettivamente durante la ripresa del 1975 e quella del 2009. La differenza sostanziale nell’andamento del numero di lavoratori nelle due crisi è una chiara evidenza empirica della Jobless recovery.

Quale spiegazione piò essere attribuita a questa congiuntura? Una delle cause più utilizzate per spiegare il fenomeno è associata all’incremento della produttività del lavoro. Il fatto che la produttività debba aumentare quando il Pil cresce in assenza nuovi posti di lavoro è sicuramente vero e, anche da un semplice punto di vista aritmetico, non potrebbe essere diversamente. Il dato interessante che sembra però ridimensionare la portata di questa spiegazione risiede nell’evidenza che l’incremento di produttività successivo alle ultime tre crisi, quelle senza la creazione di nuovi posti di lavoro, è stato pressoché identico a quello che caratterizzò il ciclo economico medio – nel 2009 la crescita della produttività fu persino inferiore (Figura 5). L’incremento di produttività e l’innovazione tecnologica sono quindi solo parzialmente responsabili della carenza di nuovi posti di lavoro durante una ripresa: da una parte essi sono infatti fenomeni di lungo periodo, più pertinenti ad un’analisi della Jobless growth; dall’altra, non sono sufficienti per spiegare un evento così marcato, profondo e temporalmente circoscritto.
Per mettere meglio a fuoco il fenomeno, in questa sede proporremo quindi uno sguardo ravvicinato alle dinamiche in corso nel mercato del lavoro durante le riprese, analizzando come il meccanismo del just-in-time employment, o lavoro flessibile, possa fornire valide, seppur non complete, spiegazioni per la jobless recovery.
Il primo dato interessante riguarda il numero di ore lavorate e, più in particolare, quelle di straordinario. La Figura 6 mostra chiaramente come le ore di straordinario lavorate in media ogni settimana nel settore manifatturiero americano, durante la ripresa del 2009, siano aumentate incredibilmente, più che nel ciclo economico medio. Il dato è ancora più sorprendente se si pensa che nel primo caso il numero di occupati continuava a diminuire, mentre nel secondo, come abbiamo visto, era già in fase di risalita. Anche nelle riprese del 1991 e del 2001 il dato dopo un anno di ripresa è positivo, seppur in maniera più modesta.

Un secondo modo per ottenere una forza lavoro flessibile è quello del temporary employment (lavoro interinale in Italia). Si tratta di aziende che forniscono i loro occupati (temps) ad altri imprenditori, solitamente per periodi relativamente brevi. Questi lavoratori risultano occupati nell’azienda che li fornisce e non in quella nella quale effettivamente lavorano. Utilizzando questo tipo di occupazione, le imprese possono rispondere all’iniziale incremento nella domanda senza dover assumere stabilmente nuovi lavoratori, correndo il rischio di dover sostenere poi alti costi di licenziamento qualora l’incremento della domanda si rivelasse solo temporaneo. L’aspetto competitivo di questa modalità di occupazione risiede, inoltre, nel fatto che l’impresa che fornisce i lavoratori, stipulando contratti di breve durata, può utilizzare la medesima persona in più lavori, anche in un periodo di tempo relativamente breve. Nel complesso, è quindi chiaro come questo meccanismo riduca in modo considerevole l’assunzione di nuove persone. La Figura 7 mostra l’importanza del fenomeno in tutte le riprese, quella del 2009 in particolare. Ancora un volta stupisce come a fronte di un dato negativo sull’occupazione durante le jobless recoveries, il dato ristretto all’occupazione temporanea risulti in tutti i casi positivo.

Infine, un terzo aspetto da considerare riguarda l’occupazione part-time. A differenza delle prime due modalità di occupazione, questa non ha effetti diretti sulla carenza di nuovi occupati – i lavoratori part-time sono comunque inseriti nelle statistiche sull’occupazione. Gli effetti in questo caso sono indiretti e sono essenzialmente due: (i) da una parte il meccanismo del part-time permette all’impresa di licenziare più facilmente in momenti di recessione, in quanto se poi si verificasse un aumento improvviso della domanda e avesse quindi di nuovo bisogno del lavoratore, potrebbe assumerlo come part-time, ad un costo ridotto quindi. Se tale meccanismo non fosse disponibile, il costo di dover assumere nuovamente un lavoratore full-time sarebbe maggiore e il datore di lavoro potrebbe quindi essere più restio nel licenziare. (ii) Il secondo aspetto riguarda un incremento nella produttività: potendo impiegare un lavoratore solo nelle ore in cui è necessario fa sì che la produttività del lavoro aumenti e con essa diminuisca la necessità di dover assumere altri lavoratori. In questo caso è interessante osservare un confronto fra i trend dei lavoratori full-time e part-time, durante le riprese (Figura 8 e Figura 9). Nel caso del part-time anche i dati sulle tre jobless recoveries sono una media): essi, oltre ad avere andamenti opposti rispetto ai cicli passati, mettono nuovamente in luce un chiaro processo di sostituzione fra lavoratori a tempo pieno e just-in-time employees.

Benché non ci sia ancora un modello comunemente accettato per spiegare il fenomeno, le dinamiche all’interno del mercato del lavoro possono fornirci alcune delle risposte che cerchiamo. Sia l’aumento delle ore di straordinario che l’utilizzo del temporary employment, a differenza del part-time che abbiamo visto avere solo effetti indiretti, incidono infatti positivamente sul Pil – la produzione aumenta – e negativamente sull’occupazione.