Anatol Lieven, analista e giornalista inglese grande esperto di Pakistan, così definiva il Paese in un libro pubblicato nel 2010. Un Paese difficile. Un mosaico di etnie, nato dalla sanguinosa partizione con l’India nel 1947, concepito come santuario dei musulmani del subcontinente. I suoi confini orientali e occidentali ancora portano il nome dei due ufficiali inglesi che li tracciarono (la linea Durand con l’Afghanistan e la linea Radcliffe con l’India), memento dell’artificialità del suo territorio, un tempo ancor più geograficamente scriteriato in quanto separato in due tronconi – il Pakistan occidentale e quello orientale, l’attuale Bangladesh, separati da duemila chilometri di territorio indiano. Ci proponiamo qui di presentare il Paese in due diverse puntate, sottolineandone la sua complessità e cercando di renderla intelligibile.

L’occasione è fornita dall’ultima tornata elettorale, questione che serve ad affrontare le vicende domestiche, inevitabilmente anche sul piano economico. Successivamente, discuteremo del contesto internazionale di un paese definito, negli anni in cui Lieven scriveva il suo libro, ‘il paese più pericoloso al mondò dal solitamente compassato The Economist. Sensazionalismo, certo: ma che andava, e va, a evidenziare la centralità del paese negli equilibri internazionali.

Invero, alla fine degli anni 2000 il Pakistan preoccupava proprio per un movimento islamista di cui si temevano sia i propositi rivoluzionari, sia i legami con vari gruppi terroristi, primi tra tutti Al-Qaeda. Era alle prese con l’insorgenza talebana nelle Provincia del Nord Ovest al confine con l’Afghanistan; con una crescita demografica che esercitava continua pressione sulle infrastrutture; con una costante minaccia di default finanziario; e con una casta militare sempre in grado di indirizzare la politica del – al di là dei governi civili che, più o meno democraticamente, venivano eletti. Allo stesso tempo, un Paese che è tuttora una potenza nucleare con uno degli eserciti più grandi al mondo; vanta distretti industriali di tutto rispetto, specie nel Punjab; esprime una borghesia cittadina, nei grandi centri come Lahore, Karachi e Rawalpindi, benestante, istruita e anglofona, con università di eccellenza nel contesto asiatico; e sebbene fondamentali libertà di espressione, religione ed associazione conoscano costanti sfide, non sono mai fino in fondo scomparse nemmeno durante i frequenti periodi di dittatura militare.

Le elezioni di febbraio

Ad oltre un decennio di distanza, tale quadro rimane quanto mai attuale. Il Pakistan, quinto paese al mondo per popolazione con oltre 230 milioni di abitanti, ha tenuto elezioni politiche per il rinnovo del parlamento di Islamabad lo scorso 8 febbraio. Dopo mesi di rinvii, le elezioni confermano la crescente polarizzazione politica interna.

La vicenda dell’ex primo ministro Imran Khan, al potere per 4 anni dal 2018 al 2022, è sintomatica. Ex-capitano della nazionale di cricket campione del mondo nel 1992, si pone alla guida di un partito da lui fondato, il Pakistan Tehreek-e Insaf (PTI, Movimento Pakistano per la Giustizia). Riesce a formare un governo nel 2018, fondamentalmente sconfiggendo i due partiti dinastici che da trent’anni dominano la scena politica del paese: il Partito Popolare Pakistano (PPP) dei Bhutto; e la Lega Musulmana della famiglia Sharif (PML-N) – con tutti i distinguo del caso, rappresentanti rispettivamente il centro-sinistra e il centro-destra. Il PTI è dunque l’anti-sistema. E si impone con l’aiuto dell’esercito, che vedeva in esso uno strumento per gestire il malcontento popolare (il carisma populista di Khan in questo senso aiutava) e relegare in posizione subalterna PPP e PML-N, accusati di inefficienza e corruzione. Ma la parabola del PTI ricalca quella dei suoi rivali: dopo una luna di miele con i militari, infatti, i partiti pakistani non possono che riconoscerne la posizione di preminenza nel paese e cercare quindi di sovvertirla, se non vogliono rimanere perennemente subordinati ai diktat dei vertici delle forze armate. Successe negli anni 70 con Zulfiqar Ali Bhutto, fondatore del PPP ed estromesso da un golpe militare (e poi giustiziato). Successe a Nawaz Sharif, leader del PML-N (lettera che indica proprio il suo nome), partito inizialmente sponsorizzato dai militari in funzione anti PPP e poi anch’egli rimosso nel 1999 dal general Musharraf.

E ora Khan, tuttora molto popolare in gran parte del paese. Un voto di sfiducia nel febbraio 2022 lo ha destituito dalla carica di primo ministro. È stato poi estromesso dalla competizione elettorale con accuse di corruzione; infine condannato a 10 anni di carcere. All’indomani della condanna, i suoi sostenitori hanno attaccato caserme e stazioni di polizia (oltre ad atti di vandalismo vari contro la proprietà pubblica), riconoscendo nell’esercito il responsabile della caduta di Khan. Per tutta risposta, per via giudiziaria, i militari hanno arrestato la maggioranza dei quadri del PTI e fondamentalmente sciolto il partito (impedendogli, per esempio, di usare il proprio simbolo, la mazza da cricket: in un paese dove la metà della popolazione è analfabeta, una mossa durissima per il partito). L’8 febbraio, dunque, ha visto l’improbabile coalizione del Movimento Democratico, che unisce gli antichi rivali di PPP e PML-N, formare una maggioranza, che ha eletto lo scorso 3 marzo Shahbaz Sharif, fratello di Nawaz. Il PTI ha partecipato tramite quel che rimaneva del partito, più candidati indipendenti ad esso affiliati, conquistando sì la pluralità dei seggi (149 su 336), ma non abbastanza per formare un governo: agli 82 seggi del PML-N e 54 del PPP si sono affiancati vari partiti minori. Il PTI ha accusato i militari di avere interferito con le elezioni, sospetti avanzati anche da osservatori indipendenti.

Lo scenario economico

La situazione che il nuovo Primo Ministro deve affrontare è molto seria. Il Pakistan è in perenne deficit primario. Spende più di quel che incassa. Inoltre, è strutturalmente in deficit di bilancia commerciale. Importa più di quanto esporti. Il primo problema comporta l’incapacità di indirizzare la spesa pubblica verso settori come educazione e infrastrutture che possano rappresentare investimenti per lo sviluppo. Impossibile, in particolare, tagliare le spese miliari. Vi sono poi i sussidi a beni primari (come carburanti, elettricità, riso e pane), necessari per mantenere un livello minimo di consenso e pace sociale (sempre precari peraltro). In secondo luogo, il rapporto tasse/PIL è intorno al 10%, uno dei più bassi al mondo. Importanti settori economici (come per esempio i grandi latifondisti) non pagano alcuna tassa e l’economia informale è stimata intorno al 40% del PIL.

La soluzione per finanziare il deficit è stata, in mancanza d’altro, la stampa di moneta. La quale induce spirali inflative, particolarmente dolorose quando il deficit è pure di bilancia commerciale. Un parziale aiuto arriva dalle rimesse degli emigrati (specie nei paesi del Golfo). Ma dovendo importare energia (importa l’80% del petrolio), derrate alimentari e beni di consumo ad alto valore aggiunto, il Paese si trova sempre pericolosamente sull’orlo della bancarotta.
Le riserve in dollari erano di circa 4 miliardi lo scorso giugno, sufficienti per finanziare un mese di importazioni (per un confronto: il Bangladesh, la parte orientale del paese persa nel 1971, ne ha oltre 50; l’India quasi 600). La soluzione è chiedere prestiti per sostenere la rupia: sia da paesi amici (come Arabia Saudita, Emirati e Cina), o da istituzioni come il Fondo Monetario.

Fonte: State Bank of Pakistan / Reuters

 A giugno 2023, il debito estero era di 129 miliardi di dollari, di cui 100 erano della banca centrale o imprese statali. Il deficit debito totale/PIL è del 72%: se in Italia faremmo carte false per un rapporto del genere, va ricordato che la reputazione creditizia del Pakistan non gli permette facile accesso ai mercati del credito. Il FMI rimane spesso la soluzione di ultima istanza: Shahbaz Sharif ha infatti appena ottenuto un prestito di 3 miliardi di dollari (il 23esimo dal 1958: il Pakistan è uno dei più assidui frequentatori dell’istituzione fondata a Bretton Woods), dopo che Khan ne aveva ottenuto uno di 6 nel 2019.

Prestiti che, come noto, arrivano con condizioni. In primo luogo, si rammenta di tassare di più e meglio, scontentando però potenti gruppi di interesse, per esempio, come accennato, i latifondisti. In secondo luogo, liberalizzare elettricità, carburanti, beni alimentari, scontentando però la vasta maggioranza povera della popolazione. Avvenuta infatti la rimozione di tali sussidi, l’inflazione ha raggiunto il 30% su base annua. In ultimo, il Pakistan ha per anni mantenuto un tasso di cambio artificiosamente alto per la rupia, finanziandolo appunto con le proprie risorse valutarie. Ciò permetteva di mantenere i prezzi dei beni di consumo relativamente bassi; ma rendendo necessariamente l’export (specie il tessile) meno competitivo. Il FMI ha quindi richiesto di eliminare tale supporto alla moneta nazionale, cosa che ha comportato una perdita di valore rispetto al dollaro del 50% . Ciò potrebbe comportare nel medio periodo un incremento dell’export e dunque di rimpinguare le casse dello stato, ma nel breve periodo ha contribuito all’inflazione di cui sopra, generando malcontento e malessere sociale dovuti alla contrazione dei consumi (l'import è calato del 27%), alla disoccupazione, e a tassi di interesse ormai oltre il 20%. 

Un quadro certo non confortante. In cui manca il contesto internazionale, sempre decisivo per capire, da un lato, come non vi sia vera soluzione di continuità tra sfide domestiche ed estere; dall'altro per comprendere, invero, la sorprendente resilienza del Pakistan. Una fotografia a senso unico del Pakistan come ‘stato fallito,’ avvertiva infatti Lieven, non renderebbe possibile apprezzarne la complessità.