«Sul salario minimo si rischiano di generare aspettative eccessive. Da solo non potrà risolvere tutti i nodi del mondo del lavoro. E' uno strumento utile, ma va inserito in una strategia più ampia anche se si è rivelato un valido scudo per contenere l’impatto dell’inflazione sul potere d’acquisto dei lavoratori con retribuzioni basse». Andrea Garnero, economista del lavoro all'Ocse di Parigi, conosce bene la situazione dell'Italia. Come esperto l'ha studiata due anni fa quando il ministro del Lavoro Orlando gli aveva chiesto di preparare un dossier sul lavoro povero con l'obiettivo di assicurare minimi salariali adeguati.
Garnero, in quell'occasione, avevate proposto una sorta di terza via, suggerendo di avviare una sperimentazione sul salario minimo in alcuni settori specifici, per vedere l'effetto che fa. Prendendo come modello la Germania che nel 1997, quando ha introdotto lo strumento, lo ha fatto per gradi. Resta convinto che sia l'idea giusta?
«Sì, anche per uscire dal labirinto di un dibattito sclerotizzato tra pro e contro il salario minimo. La cosa migliore da fare è sperimentare, testare modelli diversi di salario minimo in alcuni comparti e trarne una valutazione. Anche se alla fine la scelta deve essere squisitamente politica. Ed è giusto che sia così».
Dunque neanche il Cnel invocato dalla premier Meloni riuscirà a risolvere il rebus del salario minimo?
«Il Cnel è un organismo costituzionale con un compito consultivo. Non può sostituirsi alla politica. E lo dico in senso positivo. Spetta a chi è eletto decidere come organizzare il mercato del lavoro, riflettere sul modello di società che vuole portare avanti e se uno strumento come il salario minimo sia necessario o no. Detto questo, per uscire dall'impasse tra partiti il Cnel potrebbe essere la carta giusta: ha già al suo interno parti sociali ed esperti, gli addetti ai lavori giusti per mettere in moto il meccanismo ed entrare nei tanti dettagli ancora da approfondire».
Si può fare a meno del salario minimo?
«Non è obbligatorio avere un salario minimo per legge. Non è qualcosa che ci ha ordinato il medico. In Austria o nei Paesi scandinavi non ce l'hanno e il mercato del lavoro funziona bene lo stesso grazie a una contrattazione forte. Aggiungo però che non serve solo nei Paesi in cui la contrattazione è debole: in Europa tre quarti degli stati ce l'hanno compresi Belgio, Francia, Germania, Spagna o Portogallo dove i contratti collettivi giocano ancora un ruolo importante».
Come definirebbe la paga di Stato?
«Uno strumento utile ma potenzialmente un'arma a doppio taglio. E' uno strumento semplice che può diventare operativo con una legge di un solo articolo e una riga di testo. Ma se sovraccaricato di troppe aspettative rischia anche di deludere chi si aspetta che rivoluzioni il mercato del lavoro italiano: non è la panacea che risolve tutti i nodi. Tuttavia potrebbe contribuire a rammendare un quadro che negli ultimi due decenni si è modificato sensibilmente. Fino all'inizio del nuovo secolo il salario minimo era sostanzialmente superfluo perché la stragrande maggioranza dei lavoratori aveva la protezione del contratto collettivo. Oggi non è più così, questa percentuale si è ridotta in modo significativo per via dei mancati rinnovi e del proliferare di contratti firmati da organizzazioni non rappresentative».
Quali sono i settori da cui si dovrebbe partite con la sperimentazione?
«Di sicuro il comparto dei servizi a basso valore aggiunto, una realtà molto frastagliata, dove il sindacato ha difficoltà ad avere un peso. Ma non starei a fare nomi e cognomi ora. Meglio darsi un metodo e, soprattutto, non partire dalla conclusione: la cifra da riconoscere. Bisogna creare regole del gioco che funzionino sempre anche quando ci si trova a dover fronteggiare l'inflazione come adesso o un periodo di stagnazione o crisi del lavoro».
Ecco, a proposito di cifre, come giudica i nove euro proposti dalle opposizioni?
"Come Ocse usiamo il salario mediano come riferimento per decidere quale sia la forchetta per il salario minimo perché ogni Paese ha un peso diverso. Nove euro in Italia non valgono lo stesso che in Germania o in Romania. Solitamente il range è compreso tra il 40 e il 60 per cento del salario mediano. A oggi nove euro rappresenterebbero il 75 per cento. Un valore ben al di sopra dell'intervallo europeo»
C'è chi come Pietro Ichino, esperto del lavoro, suggerisce un salario minimo differenziato in base alle aree regionali perché le differenze tra Nord e Sud incidono in modo sensibile. Che ne pensa?
«Riconosco che in Italia è un grande tema anche perché è per eccellenza il Paese più disomogeneo, almeno tra quelli più forti. Detto questo nessun Paese in Europa applica un salario minimo differenziato. Accade solo negli Stati Uniti, in Messico e in Giappone che decide l'importo in base alle province»
Quale sarebbe il rischio più grosso?
«Perdere la semplicità del salario minimo. Anche un immigrato appena arrivato deve poter capire subito qual è la paga minima a cui ha diritto, con un rapido conto. Se si complica questa immediatezza si perde anche parte dell'efficacia dello strumento».
Al di là del salario minimo l'Italia resta il Paese dell'Unione dove le paghe sono ferme da una vita. Concorda?
«Sicuramente è uno dei Paesi dove i salari sono cresciuti di meno. E anche dove i salari reali sono calati di più per effetto dell'inflazione. Ma c'è un altro fattore che pesa: la produttività. E' da metà anni '90 che questo Paese ha smesso di crescere a livello di Pil ed è un fardello notevole del quale non riusciamo a liberarci»
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