Lo chiamano “secondo acconto”, ma il lessico gentile non riesce a mitigarne gli effetti. Per una partita IVA forfettaria come il sottoscritto, novembre, è il mese dell’incubo fiscale. Ogni anno con un agile gioco di rimozione che scatta con il pagamento dell’ultimo F24 relativo all’anno fiscale precedente tiro un sospiro di sollievo e mi ripeto: «Anche quest’anno ce l’ho fatta. Ho pagato tutto senza ritardi e senza indebitarmi». E mi do anche una compiaciuta pacca sulla spalla.

Povero illuso. Giovedì scorso è arrivato l’F24 con il “secondo acconto”. Il primo mi era già stato spalmato insieme a quanto dovuto a Fisco e Inps in relazione al 2022. Questa attenzione del commercialista mi aveva regalato ulteriore fallace illusione. Anche perché – a me – “pagare il dovuto” piace. Mi fa sentire con la coscienza tranquilla, mi sembra di dare il mio piccolo contributo perché la sanità (o ciò che ne resta) sia di tutti e per tutti e così la scuola, e via dicendo. Ma pagando il dovuto, appunto, non ciò che ancora non è nelle mie disponibilità.

Lo so, lo so che disse l’ex ministro dell’Economia e delle Finanze Tommaso Padoa-Schioppa: tasse da pagare cosa bellissima. Lo so e lo condivido anche. Tuttavia.

È stato un “secondo acconto” da far saltare il banco e adesso, invece di pensare a cosa regale a chi, per Natale, devo rompere il salvadanaio e chiedere a mia moglie un prestito. Che per fortuna può farlo, evitando che mi indebiti con le banche, gesto che sarebbe la pietra tombale su ogni mia aspirazione alla serenità.

Ha senso? Il commercialista è stato laconico: «Nel 2022 hai guadagnato di più. Sei stato bravo». Come no, sono stato un pirla, altro che storie.

Ricapitolando: visto che ho fatto bene il mio lavoro succedono due cose che quel lavoro, invece di sostenerlo, lo ammazzano:

  1. Pago le tasse e i contributi dovuti sul fatturato denunciato. Giusto, più che giusto.
  2. Pago un congruo anticipo sul fatturato futuro ipotetico calcolato sulla base della mia ultima dichiarazione.
E così, puntuale, arriva la slavina. Non necessariamente di neve.

Chi è il genio che ha partorito cotanta norma? Chi fornisce la garanzia che il mio fatturato futuro sarà pari o superiore a quello presente? Siete il Fisco, l’Inps o la reincarnazione di Nostradamus?

La beffa si fa ancora più dolorosa se penso che la stragrande maggioranza di quanto verso è dovuta all’Inps. Non ho idea nè di quando, nè se andrò davvero in pensione. Quei soldi versati, che sarebbero proprio miei, accantonati per il mio magro assegno pensionistico, non ho alcuna certezza di rivederli, nè tutti, nè in parte.

Mi pare che i decisori pubblici col tema pensionistico stiano giocando serenamente con il fuoco. Non mi stupirei se riuscissero a segare le gambe della sedia già traballante sulla quale è seduta l’Inps. L’ente di previdenza ha sempre le casse più vuote. Mettiamola così, molto grossolanamente: 80 (in diminuzione) raccoglie e 120 distribuisce. E quel disavanzo diventa debito pubblico, tanto per restare in tema di ipoteca sul futuro.

Il sistema reggerà ancora dieci anni quando, forse, toccherà a me diventare un pensionato? Ne dubito. Lo so, sulla carta è quasi impossibile. Lo erano anche la pandemia e una guerra in Europa. Sarà un bellissimo Natale. Anche se non bisogna mai perdere la speranza.