Oltre 60 anni fa, il film “Per un pugno di dollari” reinventò letteralmente il genere western, che sembrava avviato a un inesorabile declino. In una scena-chiave della pellicola uno dei protagonisti, Ramon Rojo, impersonato da Gian Maria Volontè, cita quello che definisce un proverbio messicano, consegnandolo alla storia della cinematografia: “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quello con la pistola è un uomo morto”. Questo concetto di fondo piuttosto intuitivo – in un duello individuale come in un conflitto interstatuale, chi detiene l’arma più potente ha sempre la meglio – è ritornato di attualità durante la recente “guerra dei 12 giorni” tra Iran e Israele. Quest’ultimo paese, infatti, ha potuto prevalere nettamente, oltre che per una forza militare convenzionale molto più efficiente e addestrata e per l’aiuto determinante degli Stati Uniti, grazie al possesso di un’arma decisiva – la bomba atomica – su cui si basa la sua deterrenza di ultima istanza. Al contrario, l’Iran ha dovuto soccombere soprattutto per la mancanza di tale arma, i cui tentativi reiterati negli ultimi decenni di entrarne in possesso sono stati la causa scatenante del breve ma durissimo conflitto.
Si è ripetuto così ancora una volta un copione ormai ben collaudato dall’inizio dell’era atomica: un paese dotato di un’arma nucleare è in grado di prevalere sempre in uno scontro militare con un altro paese che ne sia privo anche senza ricorrere al suo impiego. E questo grazie all’accennato potere di deterrenza: se il possesso di armi nucleari non è stato sufficiente a dissuadere da un conflitto convenzionale un paese sprovvisto di armi atomiche, sarà il terrore (concetto su cui è basato il termine deterrenza) di vedersi annientato dalla minaccia del loro uso come rappresaglia a indurre il più debole a sottomettersi, de jure o de facto. Nel caso di Israele, l’arsenale posseduto è ormai imponente: secondo la Nuclear Threat Initiative, uno dei più autorevoli think-tank statunitensi del settore, il paese possiede 90 testate e il plutonio sufficiente a costruirne altre 187-277, benché non abbia mai confermato il possesso di tale arsenale, adottando, con il tacito avallo occidentale, la cosiddetta politica della “ambiguità deliberata”, cioè non ammettere e non negare di avere la bomba.
L’Iran è solo l’ultimo di una lunga serie di esempi di paesi che dopo la II Guerra mondiale hanno cercato di dotarsi di armi nucleari per evitare ogni ipotesi di ricatto e la conseguente sottomissione nei confronti di chi le possiede: a parte le cosiddette “grandi potenze nucleari ufficiali” (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia), che schierano ciascuna centinaia o addirittura migliaia di testate atomiche e i relativi vettori di lancio (missili o aerei), India, Pakistan e Corea del Nord – oltre a Israele – sono riusciti a dotarsi di arsenali sufficientemente numerosi (e quindi d’impiego credibile) – benché, come vedremo subito, illegittimi per il diritto internazionale – da potersi ritenere ormai immuni da qualsiasi minaccia. Ciò spiega anche perché da un lato varie altre piccole e medie potenze abbiano cercato di procurarsi tali armi (Brasile, Sudafrica, Libia e Siria, oltre all’Iran), mentre il numero di ulteriori potenziali aspiranti possessori si può stimare in almeno una quindicina, e perché, dall’altro lato, si sia costituito un club di auto-definitisi possessori “legali” di queste armi, di fatto i paesi che avevano fatto esplodere una testata atomica entro il 1° gennaio 1967. Tali paesi, attraverso il “Trattato di non proliferazione nucleare”, firmato il 1° luglio 1968, intendono impedire che altri si dotino di arsenali atomici in cambio del loro impegno, previsto nel preambolo del trattato stesso, a “cessare la costruzione di armi atomiche e ad eliminare gli arsenali esistenti”. Da oltre mezzo secolo non c’è ovviamente il minimo sentore del rispetto di tali obblighi, fatto che induce chi può, sul piano economico, tecnologico e geo-politico, a dotarsi in qualunque modo di un’arma atomica, aumentando così in modo esponenziale l’insicurezza globale.

Questa lunga premessa si è resa necessaria per delineare (almeno per sommi capi) una possibilità che da molti decenni aleggia sul processo di unificazione europea, ritornata in tempi recenti un tema di dibattito politico-strategico cruciale a fronte del conflitto pluriennale in atto in Ucraina, della crescente percezione di una minaccia russa verso il Vecchio Continente e, di riflesso, delle residue capacità (o velleità?) dell’Europa di assumere un ruolo da grande potenza globale: il fantasma della sua deterrenza atomica. Date le considerazioni iniziali, l’Europa si trova nella singolare situazione di avere due paesi – Francia e Gran Bretagna – possessori di armi atomiche “legali”, ma a titolo individuale e non in nome e per conto dell’Unione europea. Il secondo di questi paesi, poi, il 31 gennaio 2020 è uscito dalla Ue ed è quindi estraneo, anche sul piano formale, alle deboli e fumose dottrine strategiche comunitarie elaborate finora, tutte appiattite sull’appartenenza della quasi totalità dei suoi 27 paesi membri alla Nato, l’alleanza militare a guida statunitense cui è stata completamente delegata – tra gli altri numerosi compiti geo-politici – la gestione della deterrenza nucleare del Vecchio continente.
Se la realpolitik e la situazione geopolitica internazionale degli ultimi decenni confermano che solo chi possiede armi nucleari è sostanzialmente immune da ricatti e pressioni esterne inaccettabili, ecco che – nell’ottica sia del probabile, crescente disimpegno militare americano dal continente europeo, messo in chiaro dal presidente Trump con i suoi espliciti dubbi sulla reale applicabilità dell’articolo 5 del trattato Nato in materia di difesa collettiva, per concentrarsi sul confronto con la Cina e sia di una tensione persistente con la Russia, con la quale sono decaduti quasi tutti gli accordi di controllo degli armamenti convenzionali e strategici – la creazione di un arsenale europeo autonomo diventa per la Ue una necessità imperativa. Peraltro percepita fin dagli albori dell’unificazione europea, se è vero che Francia, Italia e Germania alla fine degli anni ’50 del secolo scorso cercarono di creare un arsenale atomico comune, progetto poi abbandonato per le fortissime pressioni di Washington, ostile a ogni ipotesi di un’autonomia europea in materia di armamento nucleare. La Francia proseguì da sola sulla strada della fabbricazione di una bomba atomica, riuscendo a collaudarne il primo esemplare il 13 febbraio 1960, pietra miliare nello sviluppo della “force de frappe” (forza d’urto) e colonna portante della strategia militare della V repubblica formulata dal generale Charles de Gaulle. Essa – è bene ricordarlo – nacque con un dispiegamento “tout azimut”, cioè con una proiezione a 360°: quindi, teoricamente, schierabile anche contro gli stessi alleati americani, preconizzando una totale autonomia europea in fatto di deterrenza nucleare.
Dopo anni di ostilità politica reciproca, alimentata dal totale rifiuto della Francia gollista di cooperare con Londra, percepita come il “cavallo di Troia” di Washington pronto a sottomettere l’Europa, la fine del gollismo mutò rapidamente le prospettive aprendo, con l’ingresso britannico nel 1973 nell’allora Comunità europea, anche all’ipotesi di una cooperazione nucleare bilaterale. La Francia, infatti, si convinse presto (fin dai tempi della presidenza di Valery Giscard d’Estaing, 1974-81) che la “force di frappe” costituiva uno sforzo economico e strategico troppo gravoso da sostenere da sola e propose di estendere al resto dell’Europa la sua capacità di deterrenza, con la speranza d’indurre Londra a fare altrettanto. L’offerta fu costantemente ripetuta da tutti i capi di Stato francesi successivi, fino (come vedremo tra poco) all’attuale presidente Emmanuel Macron. Sempre però invano, anche perché restavano pressoché insolubili, dal punto di vista delle istituzioni europee, alcuni problemi-chiave, come l’integrazione di due forze nucleari simili, l’altissima dipendenza di quella britannica dalla tecnologia e dalle forniture Usa e il permanere della volontà congiunta di Parigi e Londra di mantenere un residuo potere di parziale controllo a difesa dei propri interessi nazionali ultimi. Ma restava soprattutto da chiarire a chi sarebbe spettata la decisione ultima di premere il fatidico pulsante di utilizzo degli armamenti atomici e in risposta a quale minaccia. Senza scordare, inoltre, la questione (vitale sotto il profilo politico-diplomatico) di un’unica rappresentanza europea al Consiglio di Sicurezza dell’Onu: né Parigi né Londra in questi decenni si sono mai dette disposte a rinunciare al proprio seggio permanente.
Tuttavia ciò che non poté la politica, poté l’economia. All’inizio degli anni ’90, per ridurre i costi gestionali (globalmente superiore a oltre 10 miliardi di dollari) delle rispettive flotte di sottomarini nucleari (Londra e Parigi dispongono tuttora di quattro unità lanciamissili balistici ciascuno, ognuna dotata di 16 vettori, con a bordo circa il 90% della capacità di ritorsione, o di secondo colpo, pari a 290 testate per la Francia e a 225 per la Gran Bretagna), furono decisi pattugliamenti coordinati che mantenevano in mare alternativamente un paio di unità di un solo paese, affidando così a turno la propria deterrenza al paese alleato. Questa cooperazione di fatto sfociò nel 1995 nel cosiddetto “accordo dei Chequers”, il quale, pur mantenendo l’indipendenza formale delle rispettive forze atomiche, stabilì il primo vincolo strategico reciproco, affermando che "non si può immaginare una situazione in cui gli interessi vitali di uno dei due Paesi possano essere minacciati senza che lo siano anche gli interessi vitali dell'altro".
L’intesa franco-britannica fece un ulteriore salto di qualità il 3 novembre 2010, quando il presidente francese Nicolas Sarkozy e il premier britannico David Cameron firmarono il cosiddetto “Trattato di Londra” (Lancaster House Treaties per i britannici), un‘intesa cinquantennale che, insieme a vari altri accordi militari, istituiva una stretta collaborazione tra scienziati dei due paesi nella ricerca e sviluppo di una nuova generazione di sottomarini nucleari e dei relativi vettori (campi in cui Londra è quasi totalmente dipendente dagli Usa, a causa della special relationship che, dalla fine della II Guerra Mondiale, lega fortemente Londra a Washington). Un centro di ricerca e sviluppo comune è stato creato ad Aldermaston, presso Londra, mentre a Valduc, dov’è concentrata la ricerca e produzione di armi atomiche francesi, è stato realizzato un centro di simulazione in cui condurre sperimentazioni sulle armi nucleari.
L’ultimo passo, forse il più significativo tra quelli finora tentati in fatto di deterrenza nucleare europea, è stato compiuto a Northwood l’11 luglio 2025 durante una visita di Emmanuel Macron al premier britannico Keir Starmer. In quell’occasione è stato firmato un accordo in cui si prevede che i rispettivi arsenali, che per ora restano indipendenti, “possono essere coordinati”. Nel documento si afferma che "non esiste una minaccia estrema per l'Europa che non susciterebbe una risposta da entrambi i Paesi", senza peraltro specificare la natura di tale risposta. “Un attacco atomico contro un Paese europeo scatenerebbe un’uguale reazione da parte di francesi e britannici”. La sovranità nazionale circa la decisione di lanciare armi nucleari rimane intatta, ma "qualsiasi avversario che minacci gli interessi vitali del Regno Unito o della Francia potrebbe essere affrontato con la piena potenza delle forze nucleari di entrambe le nazioni". Macron ha inoltre dichiarato che "un gruppo di supervisione nucleare", co-presieduto dall'Eliseo e dal Cabinet Office britannico, sarà responsabile del "coordinamento della crescente cooperazione in materia di politica, capacità e operazioni".
Ci stiamo dunque muovendo verso una deterrenza nucleare europea? Sembrerebbe proprio di sì, anche se la strada verso questo traguardo è ancora lunga e insidiosa. Il problema politico più delicato resta, come si è già accennato, l’ostilità americana al fatto che l’Europa avanzi verso un’autonoma volontà strategica, poiché per Washington, nei rapporti geo-politici con l’Europa, nulla è concepibile fuori dalla Nato. Qualunque ipotesi di una “gamba continentale” nella difesa strategica è giudicata un inutile doppione, costituendo uno spreco di risorse. O addirittura un pericolo. Mentre l’Unione, alle prese con una vigorosa ripresa del nazionalismo e del populismo in molti tra i suoi paesi membri, sembra timorosa di prendere una vigorosa iniziativa per il rilancio di una politica estera e militare realmente comune. Inoltre il fatto che gran parte degli armamenti nucleari britannici sia “made in Usa” fa temere che, prima o poi, Washington imponga a Londra un divieto ad approfondire ogni discorso di deterrenza comune europea. Senza dimenticare che la disponibilità di Starmer può rapidamente svanire, data la debolezza politica del suo attuale governo, la grande freddezza in materia del partito conservatore e l’aperta ostilità degli indipendentisti di Nigel Farage.
L’Europa, in questo campo, sembra preda della sindrome del “vorrei, ma non posso”, eredità – forse – del trauma ancora non superato del fallimento, 70 anni fa, della Comunità europea della difesa (Ced). Eppure la Ue ha tutto l’interesse a perseguire questo obiettivo. Una deterrenza credibile, ad esempio, ridimensiona notevolmente la necessità di spese di riarmo convenzionale gigantesche, quali sono state prospettate nei mesi scorsi in sede Nato ed europea. Inoltre una forza atomica comune allontana la tentazione di alcuni paesi (Polonia, Germania e Svezia su tutti) di farsi una bomba propria, con tutti gli intuibili pericoli di una proliferazione continentale incontrollabile. Anche l’obiezione che le due forze atomiche europee (piuttosto simili per consistenza e dottrina d’impiego) siano doppioni costosi nonché poco temibili in realtà ha scarso fondamento. Come rispose de Gaulle a chi gli chiese quale fosse la reale credibilità della piccola “force de frappe” iniziale della Francia contro l’enorme arsenale atomico sovietico, “non abbiamo bisogno di un’enorme quantità di testate atomiche come i nostri avversari. Ciò che conta è possedere la capacità d’infliggere un colpo inaccettabile a chiunque ci minacci”. Che è proprio quanto deve garantire una forza di deterrenza. Cosa che è in grado di fare già ora, anche da sola, una forza tuttora non possente come quella francese. La quale è scevra da ogni possibilità di ricatto tecnologico americano data la sua totale indipendenza. L’offerta di Macron questa volta andrebbe esaminata con ben altra attenzione rispetto al passato.
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