La rinnovata conflittualità internazionale (da qualcuno gia ribattezzata Guerra Fredda 2.0), che contrappone gli Stati Uniti a Russia e Cina, è destinata a combattersi non tanto sulle grandi pianure ucraine, sulle montagne dell’Himalaya o nelle acque dello stretto di Formosa quanto sotto i mari. Accanto ai più visibili investimenti in aerei da combattimento di V generazione, in missili da crociera ipersonici e nel diffuso ammodernamento degli arsenali nucleari, da anni è in atto una silenziosa ma generalizzata politica di riarmo subacqueo che ha portato i Paesi più ricchi e potenti a dotarsi di mezzi con prestazioni sempre migliori. E tutti gli altri, appena i bilanci lo consentono, a schierare almeno uno o più sottomarini (spesso residuati delle marine più dotate) che, oltre a dar prestigio, testimonino la volontà quanto meno di partecipare agli sforzi diffusi di controllo e dominio delle profondità oceaniche.
Le cifre in ballo
Si tratta di un trend confermato dalle cifre: dei 160 paesi che si affacciano sui mari mondiali, ben 43 sono dotati di sottomarini, il cui numero totale , secondo i calcoli più recenti, ammonta attualmente a 512, ai quali occorre aggiungere almeno una trentina di unità nord-coreane obsolete, ufficialmente ancora in linea ma di fatto usate solo per l’addestramento. Di questi mezzi, ben 154 (il 30% del totale) sono a propulsione nucleare, a loro volta suddivisi in 94 d’attacco e in 60 lanciamissili balistici, alcuni dei quali posti in riserva per gli elevati costi gestionali o perché il loro numero eccede quanto previsto dal trattato “New Start” sulla riduzione delle armi atomiche firmato nel 2010 da Stati Uniti e Russia.
Atomi negli abissi
L’anno scorso su queste pagine era stato esaminato il cruciale problema dello spionaggio subacqueo e la connessa sorveglianza dell’enorme rete di cavi sottomarini (oltre 1,2 milioni di chilometri), lungo la quale corre oltre il 95% delle informazioni vitali che governano le moderne economie informatizzate. La corsa al controllo degli abissi, però, non ha soltanto quest’obiettivo. Da quando, a metà degli anni ’60, è risultato chiaro che lo schieramento delle armi nucleari di dissuasione dislocate a terra di Stati Uniti e Unione Sovietica era reciprocamente ben noto alle rispettive Forze armate, secondo la logica dell’ “equilibrio del terrore” è stato gioco-forza per entrambi i campi contrapposti cercare di nascondere negli abissi sufficienti forze di ritorsione (la cosiddetta “capacità di secondo colpo”, cioè di rispondere con una rappresaglia devastante a un improvviso attacco che mirasse a distruggere l’intera forza avversaria) che della dottrina MAD (Mutual Assured Distruction) erano il pilastro logico portante.
Arsenali nelle profondità
La possibilità di occultare centinaia di missili sempre più potenti e precisi, muovendoli con tale rapidità e imprevedibilità da rendere assai difficile la loro esatta localizzazione, è stata dunque la molla che ha portato a disperdere nelle prondità marine la gran parte degli arsenali atomici mondiali. I 5 principali paesi dotati di tali armamenti hanno abbracciato interamente tale scelta: gli Stati Uniti possono installare sui loro 14 sottomarini, dotati di 434 missili Trident di vario tipo, fino a 2.688 testate, mentre il totale di quelle effettivamente schierabili, a causa delle limitazioni concordate con il trattato New Start attualmente in vigore, è di appena 1.650.
I 12 sottomarini messi in linea dalla Russia, armati di 192 missili, sono in grado di lanciare 1.584 testate: si tratta della quasi totalità delle armi che Mosca può legittimamente detenere.
Dalla Grande Muraglia al Pakistan
Discorso analogo vale per la Cina, i cui 5 sottomarini, provvisti di 72 missili complessivi, possono lanciare 252 testate, sul totale di 350 del cui possesso Pechino è accreditata. Gran Bretagna e Francia, poi, dalla fine del secolo scorso hanno deciso - per ragioni sia strategiche sia economiche - di eliminare ogni capacità di lancio da terra e dall’aria e basano il loro deterrente solo sui quattro sottomarini con 64 missili complessivi di cui ciascuna è dotata. Essi possono lanciare fino a 512 e 640 testate rispettivamente, sulle 225 e 290 armi complessivamente possedute.
Accanto ai cinque grandi paesi nucleari, che hanno concentrato sotto la superficie marina gran parte dei loro arsenali, anche gli altri in possesso di armi atomiche stanno cercando di dotarsi di una forza missilistica subacquea per conservare almeno in parte una capacità di rappresaglia in caso di attacco. L’India, ad esempio, ha realizzato una prima unità (di fatto sperimentale) a propulsione atomica chiamata “Arihant”, mentre una seconda (“Arighat”) è di prossima consegna e altre due, di tipo migliorato, seguiranno a metà decennio, ciascuna in grado di lanciare 4 missili dotati di testata singola fino a 3.500 chilometri di distanza. La Corea del Nord sta cercando anch’essa di realizzare un sottomarino convenzionale con 4 missili (ma con una portata molto limitata) a testata atomica e perfino la Corea del Sud (che pure ancora non possiede armi nucleari ma che potrebbe fabbricarne, se volesse, entro uno o due anni) lo scorso settembre ha sperimentato un missile lanciato da un sottomarino (per ora a propulsione convenzionale), mentre Israele ha quasi certamente intallato svariati missili da crociera a testata atomica ,con una portata di 1.500 chilometri, sui suoi 6 sottomarini della classe “Dolphin” (costruiti in Germania e assai simili alle sei unità italiane “tipo 212”). Soltanto il Pakistan, tra i paesi dotati di armi atomiche, non ha finora elaborato progetti per intallarle su sottomarini a causa, quasi certamente, dei costi troppo elevati che ciò richiederebbe.
Il Barracuda tra Francia e Australia
Un cenno meritano anche le quasi 100 unità d’attacco a propulsione nucleare: il loro enorme costo di costruzione (tra 1,5 e 2,5 miliardi di dollari per scafo, mentre quello delle unità lanciamissili è quasi il doppio) si giustifica con la capacità teorica di allungare fortemente i tempi di missione (svariati mesi, come nel caso delle unità lanciamissili, in genere però limitati a non più di due per evitare stress eccessivi agli equipaggi) e con prestazioni di profondità (oltre 400 metri, fino a 700/900 per alcuni modelli russi realizzati in titanio) e velocità raggiungibili (30 nodi) ineguagliabili dalle unità convenzionali. Proprio queste caratteristiche sono alla base, nel settembre scorso, della spettacolare rottura del contratto tra Francia e Australia per la fornitura a quest’ultima di 12 sottomarini convenzionali “Barracuda” (un accordo il cui valore in un quinquennio era lievitato da 34 a ben 56 miliardi di euro) a favore della costruzione su licenza di “almeno otto” unità a propulsione nucleare, per un importo finora non rivelato, di origine americana o britannica.
Novità convenzionali
L’aspirazione crescente al nucleare non ha impedito che le marine di alcune medie potenze, grazie anche alla diffusione di nuovi tipi di propulsori convenzionali, che non usano ossigeno atmosferico (Air Indipendent Propulsion), scelta effettuata da Germania, Italia, Svezia, Francia (per l’esportazione) e abbinata all’adozione di batterie a ioni di litio (su cui stanno puntando le marine di Giappone, Corea del Sud e nel prossimo futuro anche d’Italia), stiano conoscendo un vero e proprio boom costruttivo. I prezzi unitari sono più ridotti (si fa per dire: tra 400 e 650 milioni di dollari), ma le prestazioni restano rilevanti (spunti fino a 20 nodi di velocità subacquea e autonomia fino a 3 settimane senza contatto con l’atmosfera esterna), consentendo anche a chi non può permettersi la propulsione nucleare di disporre di mezzi dall’elevato rendimento e in genere meno rumorosi delle unità spinte dall’atomo, qualità di enorme rilievo per i mezzi d’attacco. Senza tener conto che Cina, Russia e Stati Uniti stanno studiando propulsori magneto-idrodinamici, che non richiedono parti meccaniche in movimento e sono quindi completamente silenziosi, i quali si adattano a ogni tipo di motore, nucleare o convenzionale.
Da mezzo secolo, dunque, “sottomarino è bello”. Anche per paesi che, come abbiamo già accennato, sono in grado di schierare solo una o due unità, spesso di seconda o terza mano, logorate da decenni d’immersioni e insicure per gli equipaggi che le utilizzano. Ma perché questa spasmodica ricerca di sottomarini d’attacco, possibilmente dotati di tecnologie sempre più avanzate? Al di là di ragioni di puro prestigio, il loro possesso permette, grazie all’intrinseca “furtività” della loro azione, di controllare la sicurezza delle vie marittime di approvvigionamento economico, attraverso cui passa oltre il 90% degli scambi commerciali mondiali.
Non a caso si registra un’elevata concentrazione di unità in mari contesi come il Mediterraneo.
... E anche nei mari contesi dell’Estremo Oriente.
Intelligence e collaudi di droni
La missione elettiva dei moderni sommergibili, specie quelli convenzionali, è tuttavia l’attività d’intelligence, grazie a sensori in grado di captare i traffici delle comunicazioni elettroniche e di ottenere immagini all’infrarosso, tenendo sotto controllo “discreto” navi sospette, unità di superificie che fiancheggiano terroristi, fino allo sbarco sotto costa di squadre d’incursori per eseguire attacchi devastanti. Inoltre si ritiene che un’efficace caccia a un sottomarino richieda da tre a cinque unità di superficie, che vengono quindi sottratte ad altri compiti, fattore di grande importanza per paralizzare flotte non consistenti sul piano numerico e qualitativo.
Ma è al futuro che il mondo subacqueo guarda per rafforzare, se possibile, la sua importanza. Sono già in fase di collaudo droni subacquei (piccoli sommergibili senza equipaggio): ciò consentirà missioni realmente senza limiti di tempo e, soprattutto, di profondità raggiungibili, prefigurando inoltre un utilizzo “suicida” contro mezzi di superficie assai più costosi e paganti sotto il profilo strategico, così come già avviene per i droni aerei. In questo campo sono all’avanguardia Stati Uniti, Giappone, Gran Bretagna e Corea del Sud, mentre l’Europa appare in ritardo, a parte la Francia, dove Naval Group sta collaudando un drone totalmente autonomo, dotato di armamento (di tipo per ora non conosciuto) e in grado di autodistruggersi in caso di cattura nemica.
L’arma del giorno del giudizio?
In questo quadro sempre più avveniristico non poteva mancare un’arma che parebbe fantascientifica se non fosse anch’essa già in fase di collaudo e prossimo schieramento operativo. La Russia ha annunciato la scorsa primavera l’avvio delle prove del sottomarino “Belgorod” (un’ex unità classe Oscar II allungata fino a 184 metri, che ne fanno il mezzo subacqueo più lungo del mondo), in grado di trasportare fino a otto “Poseidon”, una via di mezzo tra un siluro e un drone, a propulsione atomica, dotato di una testata nucleare con una potenza variabile, secondo le stime, tra due e ben 100 megatoni.
L’esplosione di quest’arma - in grado di viaggiare alla velocità di almeno 100 nodi (185 chilometri orari), alla profondita di mille metri e per una distanza di 11mila chilometri, quindi fuori dalla portata di qualsiasi mezzo di contrasto occidentale esistente - può distruggere una grande metropoli marittima creando un enorme tsunami radioattivo, con onde alte fino a 500 metri, in grado di penetrare per molti chilometri all’interno della terraferma. Oltre a essere, come si è detto, un’arma senza possibilità di opposizione (prevedibilmente per un periodo di tempo piuttosto lungo), essa si colloca anche (almeno per ora) fuori da ogni trattato di limitazione degli armamenti e quindi, in teoria, potrà essere schierata da Mosca in un numero illimitato di esemplari.
C’è futuro per i sottomarini?
Come spesso accade in campo militare, questi spettacolari progressi potrebbero però avere gli …anni contati. Secondo uno studio pubblicato nel maggio 2020 dal National Security College dell’Australian National University, dal titolo “Transparent Ocean?”, è “probabile” (o forse addirittura “molto probabile”) che entro il 2050 i sottomarini (in particolare quelli lanciamissili strategici) divengano visibili alle tecnologie di ricerca, perdendo la loro caratteristica di furtività e quindi gran parte del loro valore bellico. Nell’ormai secolare competizione tra occultamento e scoperta dei sottomarini sarebbe quest’ultima a prevalere decisamente. Grazie anche ai progressi della tecnologia “Lidar” (radar laser), da un satellite sarebbe presto possibile individuare scafi immersi fino alla profondità di 500 metri. E in questo campo la Cina avrebbe acquisito un buon vantaggio rispetto all’Occidente.
Sottomarini destinati quindi a perdere una battaglia in cui sembravano aver accumulato un vantaggio decisivo? In realtà, mai dire mai.
In un recente seminario tenuto dalla Marina Militare italiana, che ha esaminato i futuri progressi previsti nel campo della “counter detection” (la contro-individuazione), si è accennato al prossimo ricorso alla costruzione di scafi con meta-materiali (realizzati artificialmente con proprietà elettromagnetiche uniche, in grado di occultare il mezzo di cui sono rivestiti) e all’invisibilità attiva (cioè la creazione di una rete di droni intorno al sottomarino che lo nasconda ai mezzi di ricerca avversari) o, addirittura, proiettandone una falsa immagine fisica là dove non si trova.
La sfida tra preda e predatore (ruoli peraltro sempre più fluidi, è il caso di dire, sotto i mari) è probabile che resti aperta ancora a lungo.
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