La prima cosa che colpisce, atterrando a Bogotà, è il verde, rigoglioso ed esteso, che segna il confine ovest della capitale colombiana. Sono le pendici della Sierra Occidentale, uno dei tre rami della Cordigliera andina che solcano il paese da sud a nord. Una megalopoli da oltre dieci milioni di abitanti che si estende altrimenti (a nord, a sud, a est) senza limiti su un vasto altopiano detto ‘savana.’ Molto diverso dal nostro immaginario di steppa africana, è invece una fertile regione d’alta quota. La seconda cosa infatti che colpisce è l’aria o, meglio, la mancanza d’aria: Bogotà sta a circa 2600 metri di altezza, e non vi è città al mondo che sia ad un tempo più elevata e più grande.
La combinazione di altitudine e vicinanza all’equatore fanno sì che a Bogotà non ci siano stagioni vere e proprie. La temperatura è tutto l’anno tra i 10 e i 20 gradi. Ci sono solo periodi di piogge intense, e pressoché giornaliere, da metà febbraio a fine maggio, e poi da settembre a dicembre. L’umidità costante contribuisce, come detto, alla vegetazione rigogliosa della città: dove non si è costruito, gli spazi verdi sono un tripudio di flora. Questa si arrampica sulle pendici del Cerro Monserrat, sulla cui sommità, a 3200 metri, si trova una chiesa che domina su tutta l’area urbana, punto di riferimento per i bogotani (nell'immagine di copertina).
Un’area urbana in continua espansione, che risponde ad alcuni stereotipi sull’America Latina. Stereotipi che hanno, comunque, un fondo di verità: ai quartieri a ridosso del Cerro Monserrat, fatti di grattacieli, eleganti centri residenziali, uffici di grandi corporazioni e banche, fanno da contraltare i barrios che si estendono specie a sud. Sono favelas dove vivono in milioni, esempi di un processo di urbanizzazione ancora in atto; ed esempi pure di un sistema al momento incapace di creare benessere veramente diffuso.
La geografia della Colombia, che ci accoglie in modo così evidente a Bogotà, caratterizza il paese in maniera profonda, come e più che altrove, proprio in quanto varia e complessa. Unico paese dell’America del Sud ad avere affaccio sia sull’Oceano Pacifico che su quello Atlantico (via il Mar dei Caraibi), vanta grandi diversità: la popolosa costa nord, con i grandi centri di Barranquilla, Santa Marta e Cartagena, un tempo avamposti dei colonizzatori spagnoli, fondati all’inizio del XVI secolo, è ora meta turistica specie per nordamericani. Dalla costa ci si addentra, verso sud, nelle pianure alluvionali dei corsi d’acqua che scendono dalle Ande. Le valli e gli altopiani che separano le tre cordigliere accolgono, sempre ad alta quota, le città di Medellin e Cali. Superata poi la Cordigliera Orientale, si apre verso nord il bacino dell’Orinoco, grande fiume che fluisce verso il Venezuela; e verso sud l’enorme spazio della foresta amazzonica, che occupa un terzo in un paese grande quattro volte l’Italia.
Nelle valli ed altopiani, lontani dal clima insalubre delle quote più basse, si concentrano insediamenti dediti all’agricoltura, croce e delizia del paese: se da un lato le varie ‘zone cafetere’ lo hanno reso celebre per la qualità del suo caffè, lo stesso clima permette la coltivazione su larga scala di coca, che ha fatto per decenni della Colombia il primo produttore (e noto esportatore) di cocaina nel mondo.
È, quella della cocaina, un’industria che ha segnato in maniera invero peculiare il paese. Il narcotraffico ha rappresentato certamente un malaffare di proporzioni enormi, che ha permesso l’arricchimento dei temuti ‘cartelli,’ come quello di Medellin, guidato dal famigerato Pablo Escobar. Ma al tempo stesso, è stato anche percepito da ampi strati della popolazione come via di riscatto possibile per i milioni di campesinos (contadini poveri) alla mercé di un sistema agricolo latifondista, iniquo e ingiusto. Gli stessi cartelli re-investivano in opere pubbliche (come strade o edilizia popolare) i vasti proventi del narcotraffico: Escobar stesso è tuttora considerato da molti un benefattore, un Robin Hood contro una classe politica corrotta che ha dominato il paese. In un ulteriore, ironico se il personaggio non fosse tragico, sviluppo, ecco Escobar comparire su magliette, cartoline, magneti per frigorifero: souvenir per i turisti che dal 2016 hanno riscoperto questo meraviglioso angolo di America.
Il 2016 è infatti la data in cui la guerra civile tra governo centrale e le FARC, le Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane, termina dopo circa 50 anni. Le FARC sono state un gruppo marxista emerso, come in molti altri contesti nel Terzo Mondo (si pensi alla Cina o al Vietnam), come movimento contadino, non operaio: l’enorme potenziale agricolo della Colombia era in mano a pochi, grandi proprietari, in controllo quindi pure delle leve politiche del paese e che tendevano ovviamente a marginalizzare la maggior parte della popolazione. Le FARC avevano individuato nella lotta armata e nella rivoluzione comunista la soluzione a questo problema. La risposta dello stato fu brutale, con polizia ed esercito che operavano al di fuori di ogni limite legale: per mostrare risultati rispetto all’azione repressiva nei confronti di FARC e altri gruppi militanti di sinistra, non esitavano ad uccidere contadini innocenti e farli apparire come ‘terroristi’ nella cruda contabilità del ministero degli interni. Questo non faceva che facilitare il reclutamento delle FARC, che andava ad ingrossare i ranghi proprio in virtù dell’azione repressiva dello stato. Il quale sponsorizzò, parallelamente, formazioni paramilitari di destra, veri e proprio squadroni della morte che operavano anche nei centri urbani, non solo nelle campagne. Nel curatissimo ed elegante Museo Botero nel centro di Bogotà, donato dall’artista di Medellin alla capitale, vi sono istallazioni permanenti che ‘memorializzano’ (termine usato per descrivere queste operazioni), specie tramite fotografie, i periodi più bui della guerra civile, specie negli anni ’80. Una foto, in particolare, colpisce: un gruppo di cinque paramilitari, armati di fucili d’assalto e coperti dal passamontagna, che guarda da una collina il centro di Medellin. Rappresentazione plastica della violenza che incombeva, all’epoca, su tutto il paese.

Proprio il concetto di ‘memorializzare’ – registrare, comprendere e quindi diffondere consapevolezza – è un concetto chiave nella Colombia odierna: se il paese non vuole essere associato in modo automatico al narcotraffico, o ad una violenza politica che ha fatto quasi mezzo milione di morti, ecco che il passato non deve essere nascosto o ignorato, ma diventare parte di una memoria collettiva.
Nei maggiori centri del paese, a partire da Bogotà, ogni domenica si apre la ‘ciclovia’. Le maggiori arterie cittadine vengono chiuse al traffico. Centinaia di migliaia di bogotani le invadono correndo, camminando, pedalando, pattinando. Il tutto contornato da un’atmosfera di festa: l’onnipresente salsa, colonna sonora del paese, corsi di ballo, ginnastica e yoga aperti al pubblico, stand con bibite, frutta e bevande. Percorrendo la Carrera Septima, che va parallela al Cerro Monserrat e unisce il centro della città, con la sua Piazza Bolivar e il pittoresco quartiere della Candelaria al ricco sobborgo del Chapinero, ci si imbatte in un manifesto che rappresenta appunto la memorializzazione. Poliziotti, esercito, campesinos, ma anche paramilitari delle FARC che stanno gli uni accanto agli altri, con una scritta che recita: “La nostra scelta è la Colombia.” Testimonianza di un complesso, controverso processo di pace che vuole riconoscere le ragioni degli uni e degli altri senza per questo giustificarle.
In questa tensione per abbandonare un passato tanto sconvolgente senza volerlo nascondere o rimuovere la Colombia odierna si gioca tutto. Una tensione che si manifesta nelle forze di sicurezza armate che pattugliano, con grossi cani rottweiler, il quartiere dell’Università delle Ande, tra le più prestigiose del Sudamerica, dove si forma la classe dirigente del paese. Ricchi studenti la cui sicurezza deve essere garantita mentre, per giungere in aula, attraversano piazzali e parchi abitati dall’altra parte del paese, senzatetto tossicodipendenti: la cocaina rimane a buon mercato perché abbondante.
Mentre il cielo di Bogotà rimane sempre plumbeo per tutta la primavera, pronto a far scendere pioggia in ogni momento, il contrasto con il colore dei graffiti e murales che adornano i muri della città non potrebbe essere più stridente. Sono murales che meritano una visita dedicata, e la crescente industria del turismo cittadino ha imbastito vari tour per ammirarli. Un tema ricorrente: il colore, la vitalità, la fantasia, un ‘realismo magico’ nelle rappresentazioni di esseri umani che diventano animali, o piante, o creature immaginarie – chiunque abbia letto un romanzo di Gabriel Garcia Marquez, il padre della patria letterario, la cui effige compare sui pesos colombiani, vi si ritroverà immediatamente.

Un altro tema: la lotta contro il potere costituito, una sorta di ‘resistenza’ permanente, richiami al ‘popolo’ come forza primigenia del paese, ai diseredati di varia natura come latori di una Colombia diversa. Alle celebrazioni del Primo Maggio – rumorose, ballate, colorate, tambureggiate lungo tutta la Carrera Septima – quest’anima che in Italia potremmo definire antagonista si manifestava in organizzazioni sindacali, ONG contro la brutalità della polizia, centri per la gioventù, e poi ancora rappresentanze dei gruppi nativi indios, circoli di campesinos, comunità LGBTQ. Infine, attacchi all’America di Trump e moltissime bandiere palestinesi: in Colombia, come in buona parte del resto del cosiddetto Sud Globale, il riferimento a tutti immediatamente accessibile per comunicare un rifiuto di un sistema percepito come iniquo.
È di qualche settimana fa il tentato omicidio di Miguel Uribe Turbay, senatore e candidato alla presidenza nelle prossime elezioni. Il brivido che ha percorso il paese è più che comprensibile data la sua storia. La violenza politica ne è parte come e più che in altri contesti. L’energia, chiara e visibile, di un paese come la Colombia si articola sempre come una tensione, forse irrisolta, ma proprio per questa anche propositiva.
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