È di pochi giorni fa l’annuncio che il Kazakhstan, l’enorme repubblica post-sovietica nel cuore dell’Asia, ha sottoscritto gli Accordi di Abramo. Si può essere sorpresi: cosa c’entra il Kazakhstan con il Medioriente, Israele, gli stati arabi? Niente. Aveva già relazioni diplomatiche con Tel Aviv dagli anni ’90 e non era mai stato in conflitto, men che meno che in guerra, con lo stato ebraico. Come ha invece sottolineato il vicepresidente americano JD Vance, questa mossa serve a riaccendere interesse e attenzione verso gli Accordi. Ci possiamo chiedere il perché di questa urgenza.
Gli Accordi di Abramo sono una serie di intese bilaterali tra Israele ed alcuni stati arabi: in primis Emirati, poi Bahrein, Sudan, Marocco. Siglati in rapida successione nell’arco del 2020, sono stati progettati dalla prima amministrazione Trump e sostenuti poi anche da quella Biden. Anche nell’America polarizzata di questi tempi rappresentano quindi un progetto che risponde agli interessi statunitensi al di là del colore politico dell’amministrazione di turno. Gli Accordi comportano il riconoscimento diplomatico e la normalizzazione dei rapporti (politici, economici, culturali, etc.) tra Israele e gli stati menzionati. L’intento dichiarato è quello di porre fine al conflitto arabo-israeliano, in tal modo risolvendo anche il problema palestinese. Dopo la pace tra Israele ed Egitto del 1979 e quella tra Israele e Giordania del 1994, infatti, non vi erano stati paesi arabi che avessero riconosciuto ufficialmente lo stato ebraico.
Gli Accordi furono accolti nel 2020 come un grande successo diplomatico. Si intravedeva la possibilità di trasformarli in un trionfo qualora l’Arabia Saudita vi avesse aderito. Avendo questa già rapporti informali con Israele, sembrava solo questione di tempo. Quanto non traspariva dai comunicati ufficiali erano però altre linee guida che avevano portato ad una convergenza tra USA, Israele, e stati arabi del Golfo.
Paesi arabi con relazioni diplomatiche con Israele

Ne possiamo evidenziare tre.
Primo, il contenimento dell’Iran. Secondo, la messa da parte del problema palestinese. Terzo, un diverso approccio americano nella gestione della politica estera. Quanto messo in moto dal massacro del 7 Ottobre 2023 ha complicato questi piani; tuttavia, non ha dissuaso gli attori coinvolti dal perseguirli, come il caso del Kazakhstan sta ad indicare. Ma andiamo con ordine.
L’Iran è stato percepito come una minaccia dalle monarchie del Golfo sin dalla rivoluzione del 1979 (l’eccezione è il Qatar, che infatti non è mai stato menzionato come possibile segnatario degli Accordi). La retorica della ‘Mezzaluna Sciita,’ una visione dove i tentacoli di Teheran si allargavano sull’intera regione tramite attori e milizie afferenti all’Iran (si pensi al decaduto regime baathista in Siria, agli Hezbollah in Libano, agli Houthi in Yemen, alle Unità di Mobilitazione Popolare in Iraq), fece quanto mai presa sulle preoccupazioni securitarie su chi si trova sull’altra sponda del Golfo Persico (o Arabo, appunto: la toponomastica pure ci ricorda il conflitto). Le dimensioni (reali) dell’Iran, le sue (presunte) mire espansionistiche, e le sue (sovrastimate) capacità belliche avvicinarono le élite alla guida degli stati del Golfo ad Israele. Anche i decisori di Tel Aviv individuavano – a torto o ragione – nel regime islamista di Teheran il nemico principale, addirittura descrivendolo quale minaccia esistenziale.
Gli Accordi maturano appunto grazie a questa convergenza. E furono una reazione anche al “Joint Comprehensive Plan of Action”, l’intesa sul programma nucleare iraniano siglato dall’amministrazione Obama nel 2015 e quindi prontamente ripudiata da quella Trump nel 2018. L’Iran in quest’ottica non rappresenta un potenziale interlocutore: ma solo un rivale, quando non un nemico. E contro tale nemico Israele può fornire quella copertura militare e securitaria che invece gli stati del Golfo sentono di non potersi garantire da sé (nonostante budget miliardari per la difesa: gli Emirati spendono poco meno dell’Italia pur avendo un sesto della popolazione). Nel solo 2021, per esempio, il Bahrain e gli Emirati hanno acquistato armi per 853 milioni da Israele. Con le successive rimozioni di dazi e tariffe al commercio contenute negli Accordi, gli Emirati hanno stanziato poi dieci miliardi di investimenti in alcuni dei settori chiave dell’economia israeliana: oltre alla difesa, anche energia, manifattura e sanità.
Affinché gli Accordi potessero vedere la luce, due elementi dovevano essere presenti. In primo luogo, gli USA intendevano cambiare la propria presenza nella regione (come vedremo qui sotto): da fornitori di prima istanza di garanzie securitarie (si pensi solo ai 500.000 marines dispiegati in Arabia Saudita all’epoca dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990) preferiscono ora ‘subappaltare’ ad alleati regionali (in questo caso, Israele) la gestione di determinati quadranti. In secondo luogo, una nuova generazione di leader nelle varie famiglie regnanti (come i Maktoum negli Emirati, i Khalifa in Bahrein) deve essere pronta a stringere accordi con Israele. Non è questione da poco: il sentimento nazionalista arabo e anti-israeliano impediva alle generazioni al potere nella seconda metà del ventesimo secolo di scendere a patti con lo stato ebraico. Le monarchie del Golfo, a differenza di Egitto, Siria e Giordania, non hanno mai combattuto militarmente contro Israele; ma non era possibile comunque avvicinarsi troppo ad esso. In un contesto storico e culturale differente, le nuove élite del Golfo sono pronte a fare questo passo. Lo illustra con particolare chiarezza il caso dell’Arabia Saudita: il giovane (nato nel 1985) principe della corona, Muhammed Bin Salman, sarebbe disposto a firmare gli Accordi, pur avendo ribadito, durante il recente incontro con Trump alla Casa Bianca, la sua condizione che Israele debba indicare un percorso verso la creazione di uno stato palestinese. Ma sebbene a tutti gli effetti governi il paese, Bin Salman non ne è formalmente a capo e suo padre, Salam bin Abdulaziz, sovrano regnante, appartiene a quella generazione (nato nel 1935) che non ritenne mai di poter firmare un accordo con Israele.
Il 7 Ottobre e la risposta israeliana hanno poi allontanato la firma dei Sauditi, che in molti continuano a ritenere solo questione di tempo nel momento in cui vi sarà la successione al trono. Ma il 7 Ottobre ha anche evidenziato come gli Accordi non abbiano mai considerato il problema palestinese al di là delle dichiarazioni di facciata. Si voleva far passare l’idea che l’aver portato ‘pace’ tra paesi mai in guerra tra loro potesse essere un viatico per un accordo più ampio che includesse le istanze palestinesi. Nel fare questo, gli Accordi hanno abbandonato il principio della ‘terra in cambio di pace’ della risoluzione ONU 242 del 1967. Non si tratta, per una volta, di lettera morta: è il principio che ha permesso il riconoscimento di Israele da parte di Egitto e Giordania (stati che invece hanno combattuto più volte contro Israele). Ed è stato uno dei principi cardini del processo di pace che vedeva in uno stato palestinese uno dei suoi passaggi necessari.
Ora, non c’è in realtà indicazione alcuna negli Accordi su come il problema palestinese si possa risolvere. Non è nemmeno menzionato, men che meno delineato, il progetto di un futuro stato palestinese o di una qualsivoglia soluzione che non contempli il permanere dello status quo. In questo senso, assistiamo all’allineamento dei paesi firmatari con le posizioni di Tel Aviv, posizioni che negano l’autodeterminazione palestinese, con annessi diritti politici e civili. L’insistenza con cui i segnatari degli Accordi da parte araba, così come le due amministrazioni americane che li hanno coordinati, li hanno presentati come un passo avanti sulla questione palestinese è dunque quantomai sospetta.
PIL pro capite negli stati del Golfo
Come alcuni osservatori hanno invece rilevato, gli Accordi permettono agli stati del Golfo di accedere al mercato israeliano non solo per quanto riguarda le sue industrie sia della difesa in funzione anti-iraniana, ma anche della sicurezza interna: i metodi israeliani di sorveglianza, spionaggio, controllo e repressione dei palestinesi, all’avanguardia tecnologica, possono tornare utili a regimi che rimangono profondamente repressivi, illiberali e autoritari. Ricordiamo le misere condizioni per milioni di immigrati, specie provenienti da paesi del sud globale, che lì lavorano; la mancanza di un effettivo stato di diritto; la repressione del dissenso interno. A questo aggiungiamo che, dopo i moti delle primavere arabe, che hanno coinvolto pure stati come il Bahrein, le élite al potere sono consce di come politiche impopolari possono avere costi notevoli: non scambiamo infatti la loro disponibilità ad avvicinarsi ad Israele con un sentimento popolare che rimane invece, nel Golfo come nel resto del mondo arabo, fortemente anti-israeliano. È questo che spiega la mancanza di un’apertura verso Israele anche a livello sociale, culturale, accademico, turistico che accompagni anche l’aspetto securitario e affaristico.
Questa breve discussione sulla natura dei regimi del Golfo ci porta verso l’ultimo elemento degli Accordi di Abramo, e forse il più rilevante. Gli Accordi sono un prisma tramite cui possiamo carpire quella che sta divenendo, ormai da tempo, una scelta strategica statunitense per la gestione di un quadro internazionale sempre più complesso. Un quadro che non permette a Washington un impegno diretto in diverse aree. Richiede invece l’individuazione di alleati cui, come accennato in precedenza, si possa dare l’incarico di gestire una determinata regione. Israele in primis e i paesi del Golfo nel contesto degli Accordi dovevano appunto rappresentare una soluzione alla sovraestensione americana in Medioriente. Dovevano tenere a bada l’Iran (o chissà, altri attori forsanche più intraprendenti in futuro, come i Turchi), garantire un, per quanto precario, equilibrio regionale, e consentire così a Washington di dedicarsi ad altro. La retorica che presenta i paesi del Golfo come partner accettabili per un tale progetto ne sottolinea dunque la moderazione religiosa (contrapposta allo spettro dei movimenti islamisti, estremisti o meno che siano); la stabilità interna (contrapposta alle primavere arabe, sollevazioni popolari incontrollabili e dunque pericolose); il dinamismo economico (sorvolando appunto sulle condizioni di lavoro per la maggior parte dei residenti nei paesi del Golfo). Questo contribuisce a creare quell’immagine, patinata e seducente, fatta di grattacieli, ricchezza, apertura al mondo. Un modo per rendere regimi, altrimenti impresentabili, quali partner ideali per la sicurezza regionale e prosperità per il Medioriente. Non è, a ben vedere, un’operazione dissimile da quanto si faceva, mutatis mutandis, durante la Guerra Fredda. Quando non si trovavano stati propriamente liberali e democratici quali partner regionali per il contenimento del comunismo, ci si appoggiava a chiunque potesse comunque vantare credenziali in tal senso: dal Sudafrica dell’apartheid al Cile di Pinochet, dal Pakistan di Zia ul Haqq all’Indonesia di Suharto. I paesi del Golfo non rappresentano, in questa logica, alcuna discontinuità.
Assistiamo a processi in divenire, che spesso non si adeguano ai desideri e piani di decisori politici, fossero anche americani. La reazione israeliana al 7 Ottobre, in particolare, con la sua indiscriminata azione a Gaza, la decapitazione di Hezbollah, il bombardamento all’Iran e, infine, il clamoroso attacco ad uno dei paesi stessi del Golfo, il Qatar, nel settembre scorso, ha fatto maturare più di un dubbio a Riyad, Abu Dhabi e Manama su chi sia, effettivamente, più pericoloso per la stabilità regionale – se l’Iran o Israele.
N.B. L'immagine di copertina è stata realizzata con intelligenza artificiale e non si riferisce a fatti realmente accaduti.
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