Una città lineare, lunga 170 chilometri, larga 200 metri e alta 500, con pareti a specchio sul deserto circostante, totalmente gestita e controllata dall’intelligenza artificiale, capace di ospitare fino a 9 milioni di abitanti: il biglietto da visita di ‘The Line’ - ‘La Linea’ racchiude l’idea di sviluppo della casa dei Saud. Nel quadro della ‘Visione 2030’, l’Arabia Saudita vuole radicalmente trasformare le basi della propria economia per renderla meno dipendente dagli idrocarburi. La volontà è di fare del paese un polo turistico di rilevanza mondiale, aumentarne la rilevanza a livello logistico e di trasporti, proporsi come sede per lo sviluppo dell’alta tecnologia. Un po’ quello che hanno fatto Emirati e Qatar: ma le dimensioni del progetto di Riad presenta appunto fattezze e ambizioni che non hanno scala comparabile.
The Line, in questo senso, è il principale polo di un piano più ampio, che prende il nome di ‘Neom’: combinazione di neo-nuovo, e m-, l’iniziale di mustaqbal, ovvero ‘futuro’ in arabo. Una ridefinizione, secondo lo stesso sito governativo che presenta il progetto al mondo, di cosa possa essere il vivere futuro, una proposta che vuole porre l’Arabia Saudita quale centro di innovazione della vita sociale stessa.
Neom comprende, oltre a The Line, una serie di altri progetti altrettanto futuristici se non altrettanto mastodontici. Prodotti e annunciati a ritmo vertiginoso, prendono nomi che sembrano usciti dalla saga di Guerre Stellari: Treyam, Epicon, Xaynor, Zardun, Mukaab, Qiddiya, Oxagon.
Ognuno di questi comporta la costruzione dal nulla di interi nuovi complessi residenziali, vacanzieri, porti commerciali e marine, poli sportivi (inclusa una stazione sciistica, Trojena). L’estetica stessa di questi complessi ne evidenzia due aspetti. In primo luogo, vi è l’iperfuturismo: un’accelerazione in avanti rispetto a come si possano concepire strutture artificiali avveniristiche integrandole al contempo con il paesaggio naturale in maniera armoniosa. La sottolineatura costante dello scarso impatto ambientale, dell’utilizzo di energia rinnovabile (solare, eolica), di attività turistiche che comprenderanno trekking, safari e immersione nella natura fanno parte del linguaggio usato per descrivere Neom nelle sue varie articolazioni. In secondo luogo, e in parallelo, vi è il rilegamento del passato storico e sociale in un ambito di arretratezza impossibile da redimere. Si deve (ri)partire da zero per creare, appunto, un ‘nuovo futuro’ su cui il passato non possa avere parola.
La Prospettiva dello Stato
L’iperfuturismo di Neom è particolarmente visibile appunto nel progetto di The Line, i cui lavori sono iniziati circa 3 anni fa. Finanziata per la maggior parte dal fondo sovrano saudita (Public Investment Fund, o PIF), The Line è stata completamente concepita all’interno dello stato saudita: essa risponde alla visione del futuro in particolare di Muhammad Bin Salman, il principe ereditario che, stante l’età avanzata del padre re Salman, di fatto gestisce il paese. Ma nonostante il suo ostentato e mirabolante futurismo, la concezione stessa di The Line – e Neom più in generale – rivela la ripetizione di un canovaccio già visto.
Non è la prima volta, ovviamente, che città pianificate dallo stato sorgono dal nulla. In particolare, capitali in vari paesi hanno proprio quest’origine: Washington, San Pietroburgo, Canberra, Islamabad, Abuja, fino al celeberrimo esempio di Brasilia. Pure l’Egitto sta costruendo una ‘Nuova Capitale Amministrativa’ (questo ancora il nome ufficiale) circa 40 chilometri a est del Cairo. Altri esempi, magari meno noti, di radicale pianificazione sociale si possono trovare per altro sparsi nei paesi del sud globale: a livello urbano, Chandigarh, città nell’India settentrionale a concezione razionalista disegnata da Le Corbusier; a livello industriale, il distretto di Korangi a Karachi, in Pakistan, volto a riorganizzare il settore manufatturiero della metropoli; a livello rurale, le comunità agricole ujamaa in Tanzania, dove pratiche indigene di coltivazione furono bandite e i contadini furono forzatamente ricollocati in centri di produzione gestiti dallo stato.
Esperienze nate in una precisa fase storica, quella della de-colonizzazione. Lo stato, finalmente indipendente, poteva non solo indicare, ma anche intervenire direttamente e in modo deciso nel processo di sviluppo. Concepiva così ex-novo progetti volti a riformare il paesaggio stesso entro cui comunità e persone lavoravano, socializzavano e vivevano. Ordine, razionalità, controllo nel nuovo piano del vivere sociale avrebbero generato ecosistemi non più afflitti da confusione, inefficienza, anarchia – tutto ciò che era associato a povertà e sottosviluppo. Il referente principale di questo modo di concepire l’azione statale rispetto alla società era chiaramente l’esperimento sovietico, il quale si adoperò ad ogni livello per guidare lo sviluppo del paese: urbanistico (si pensi alla celebre, o famigerata, architettura residenziale socialista), industriale (con la creazione dal nulla di enormi complessi industriali e minerari, come Magnitogorsk e Norilsk), e rurale, la collettivizzazione forzata del mondo agricolo nei kolkoz staliniani.
Eppure, ecco che nessuno di questi progetti riuscì davvero a promuovere sviluppo, ordine, crescita e, infine, un vivere sociale migliore. Brasilia è criticata per il senso di alienazione e anomia che induce. La topografia a scacchiera di Chandigarh è continuamente osteggiata e violata dai suoi abitanti, che tagliano in diagonale le sue linee perpendicolari nello spostarsi nello spazio urbano. Le nuove fattorie tanzaniane si rivelarono improduttive e dovettero essere abbandonate. Infine, e in maniera infinitamente più drammatica, l’esperimento sovietico oscillò tra fallimenti (quello di un’economia stagnante e non competitiva) e tragedie (la collettivizzazione comportò milioni di morti).
Cosa lega queste esperienze? Perché’ interventi statali volti a promuovere sviluppo, prosperità e un migliore vivere comune sono naufragati? Di fronte a questa domanda, James C. Scott, antropologo e politologo di Yale, scrisse nel 1999 un’opera che ebbe vasta risonanza, Seeing Like a State, ovvero ‘Vedere come uno Stato’. In essa, Scott esamina il particolare modo di osservare la società, il suo ordinamento e sviluppo, proprio degli apparati statali. Lo pone in contrapposizione alla prospettiva propria invece della società civile, delle comunità, degli individui. La prospettiva dello stato è quella di un osservatore privilegiato, dall’alto, capace di ‘mappare’ la società che vede dispiegarsi sotto di esso. Società civile che invece vede le cose dal basso, e sviluppa una sensibilità locale, particolare, magari meno ampia, ma più ricca e dettagliata, di come voglia gestire lo spazio e il vivere sociale. Immagine plastica di questa contrapposizione è quella di una pianta a scacchiera di una città pianificata con quella, apparentemente caotica, ma in realtà perfettamente navigabile da chi vi abita, di un nostro borgo medioevale, il cui articolarsi nessuno stato ha mai imposto dall’alto.
Scott non afferma che l’intervento dello stato, quale istituzione volta a garantire ordine e coordinazione, sia sempre negativo. Ma crede che vi siano condizioni entro le quali progetti concepiti dallo stato con l’intento di promuovere sviluppo e progresso falliscono miseramente. È il sottotitolo della sua opera: come alcuni progetti per migliorare la condizione umana sono falliti. Scott individua quattro condizioni, tutte necessarie.
Primo: un ordine amministrativo che si vuole imporre a natura e società tramite la semplificazione di sistemi complessi. Quando lo stato mappa un territorio, sia esso antropico o naturale, non ne può mai veramente cogliere – e quindi gestire – l’infinita complessità. La mappa è infatti, per definizione, una semplificazione del reale. A questo si deve aggiungere una specifica ideologia come secondo ingrediente: Scott la chiama ‘alto modernismo’. Una fede cieca, caratteristica della modernità, nelle leggi scientifiche e nella loro diretta applicazione nel campo dell’umano e del sociale. Ovvero, come crediamo di poter gestire la natura a nostro piacimento, così possiamo gestire una società. Questa ideologia fornisce il desiderio profondo di poter modificare il vivere sociale secondo piani prestabiliti in quanto scientifici – o supposti tali. Terzo: un potere statuale fondamentalmente coercitivo e autoritario, che non tenga conto delle istanze della società civile – uno stato illiberale e non democratico. Quarto e ultimo, una società civile appunto prostrata e incapace di opporre resistenza. La combinazione di questi elementi comporta inevitabilmente, secondo Scott, il fallimento del progetto statuale volto a migliorare la condizione umana.
Vedere come uno Stato: il ‘Nuovo Futuro’ che è già accaduto
Lo stato saudita non permette di visitare i cantieri di The Line. Non rilascia interviste, se non quando le domande sono approvate in precedenza. Non pubblica bilanci sui costi. Non vi è, in altre parole, trasparenza. Eppure, un progetto di tali dimensioni non può rimanere nascosto: foto satellitari mostrano il cantiere progredire, con fondazioni e scavi già ampiamente cominciati.
Ma è davvero possibile costruire una città come The Line entro il 2030, come annunciato? Il costo stimato si aggirava su una cifra di 320 miliardi di dollari: più o meno un settimo del PIL italiano. Persino troppo anche per un’economia come quella saudita, mai povera di liquidi. Secondo altre stime, il 20 per cento dell’intera produzione mondiale di acciaio avrebbe dovuto destinarsi a questo singolo cantiere. Per costruire 170 chilometri di grattacielo in circa 10 anni, i lavori avrebbero dovuto progredire ad una velocità di 15.000 volte superiore a quella di un normale cantiere.
Tra cambi di direzione, compagnie di costruzioni e finanziatori che si univano (come la nostra WeBuild) e poi si ritiravano e difficoltà di approvvigionamento dei materiali, il progetto è stato per ora ridimensionato a 2,4 chilometri rispetto ai 170 iniziali, con 300 mila abitanti per questa prima fase.
Ma ecco che quanto Scott proponeva venticinque anni fa sembra andare ad inficiare l’idea stessa fondante The Line e Neom nella sua totalità: ovvero, la possibilità di trasformare radicalmente il vivere comune attraverso un progetto calato dall’alto, da parte di uno stato illiberale e autoritario. Per The Line, il problema non è solo la carenza di fondi del PIF o le difficoltà ingegneristiche nel costruirla in una zona sismica: il problema è che non ci sono persone che vogliano viverci. Quella che agli occhi dei pianificatori poteva apparire come un miracolo di ordine e razionalità – una città lineare nata dal nulla controllata dall’intelligenza artificiale, senza caos, sovraffollamento, traffico e crimine – agli occhi del cittadino appare invece come una prigione monodimensionale sorvegliata 24 ore da un Grande Fratello. Uno spazio dove il vivere umano, tale proprio per la sua imprevedibilità, creatività, organicità, fondato sulla relazione con il passato e la tradizione di una comunità, era fondamentalmente negato. È notizia di questi giorni che i primi abitanti di The Line saranno infatti immigrati dal sudest asiatico, principalmente filippini, che a differenza dei ricchi – individuati inizialmente dal progetto come gli inquilini di The Line – non avevano altre opzioni.
Infine, la tragedia: The Line, nell’hybris distopica che l’ha concepita, non solo è Brasilia, uno spazio urbano controverso e discusso che non è amato da chi ci vive. È già una catastrofe di tipo sovietico: le popolazioni autoctone deportate per far posto al cantiere, e represse quando protestavano; e si parla di oltre 20.000 morti nei vari cantieri di Neom, immigrati dall’Asia Meridionale sacrificati sull’altare del progetto iperfuturista volto a migliorare la condizione umana.
Sapevamo già come andava a finire.
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