Se Umberto Boccioni fosse ancora tra noi, chiuso dal lockdown nel suo studio, dipingerebbe ancora “La Città che Sale”, opera tra le maggiormente simboliche del futurismo italiano?
Probabilmente, come molti, si chiederebbe se la città continuerà a essere il fulcro della società moderna anche dopo il Covid. Oppure, se essa verrà ridotta dal distanziamento sociale, da un ritrovato gusto per gli spazi aperti, e dallo spostamento radicale verso l’interazione online, esse sociali, lavorativa o didattica.
In questi mesi sono apparsi diversi contributi in merito, tra i quali l’articolo di Giovanni Durbiano apparso su questa testata, e del qual condivido in pieno la chiusura: se il futuro non può essere previsto, può essere progettato. Se mi si permette, direi piuttosto che “deve” essere progettato. Lo dobbiamo alle nuove generazioni, che erediteranno trent’anni sciagurati di declino economico, e un paio di anni sfortunati di guerra al virus. Ritengo questa riflessione assai importante per il nostro Paese perché, a breve, si verrà chiamati alle urne per eleggere i nuovi sindaci di cinque tra le più importanti città italiane: Torino, Milano, Bologna, Roma e Napoli. Città che, insieme alle rispettive aree metropolitane, “cubano” il 21% degli abitanti e il 28% del PIL del Paese. Città che potranno essere determinanti per il nostro futuro, fungendo da motore, oppure da zavorra.
Il disperato bisogno di innovazione
Come più volte indicato da diversi autori (ne scelgo uno tra tutti per la sua verve divulgativa, cioè Nicola Rossi) il nostro Paese ha un disperato bisogno di cambiamento e innovazione. Sono questi gli ingredienti che servono a riportare la crescita della produttività a ritmi almeno “europei”, così da ridurre il gap che ci divide dai Paesi vicini, rendere meno insostenibile la montagna del debito pubblico e, soprattutto, restituire alle nuove generazioni l’opportunità di una vita prospera. Ma dove potrà avvenire tutto ciò?
È da tempo noto, ed è quasi diventato un luogo comune, che le città siano sempre state “luoghi dell’innovazione”, catalizzando in uno spazio geografico e sociale ristretto, e generando economie di agglomerazione, i molteplici attori (le “classi creative” di Richard Florida, o i “talenti” di Enrico Moretti) che, agendo individualmente e interagendo tra loro, generano “il nuovo”. E’ pur vero, come osservato da Richard Shearmur, che l’innovazione non è esclusiva delle città, ma è comunque innegabile che è nelle città che vengono a “collidere” anche gli elementi di innovazione generati altrove. Thomas Edison aveva sì il suo laboratorio di R&S nel New Jersey, ma i suoi finanziatori, così come i primi clienti, privati e pubblici, li trovò a New York.
Il dinamismo che deve recuperare l'Italia
Ora, tutto ciò potrebbe anche cambiare, nell’era di Zoom e di Teams, ma con una precondizione: che chi interagisce “in remoto” sia legato da una comune cultura dell’innovazione e da un comune dinamismo. Pertanto, mentre negli Usa è probabile che continui la diaspora di startupper dalla Bay Area a città che garantiscono una vita migliore e meno cara, sarebbe un errore capitale auspicare lo stesso processo in Italia, dove ciò che manca e va coltivato è proprio questo milieu culturale. Seguendo la tesi del premio Nobel Edmund Phelps, l’Italia potrà invertire il suo declino solo tornando a curare questo “dinamismo” a tutti livelli e in tutti gli ambiti, pubblici come privati, ed è evidente che questo potrà avvenire in modo privilegiato negli spazi urbani, grazie all’interazione stretta che in tali luoghi avviene anche informalmente, tacitamente, e su piani non-verbali.
I futuri sindaci di queste nostre cinque città avranno pertanto una sfida epocale: quella di facilitare l’evoluzione dei territori da loro amministrati in luoghi del dinamismo, del cambiamento, della trasformazione, luoghi che Phelps definirebbe “fiorenti”. Luoghi capaci di attrarre chi vuole far parte di una cultura orientata al domani e non al passato, condividendo le necessarie competenze: creative, per inventare cose nuove; imprenditoriali, per elaborarle in modo da renderle fruibili; tecniche e manageriali, per farle crescere; finanziarie, per discernere su cosa investire.
Questa visione strategica va però curata con il giusto equilibrio: come un fiore delicato, essa rischia di non realizzarsi se le future amministrazioni dovessero trascurarla. Ma, paradossalmente, potrebbe anche sfumare se dovessero esagerare con le cure, confondendola con un obiettivo operativo, e commettendo tre errori.
Tre errori da evitare
Il primo errore è il dirigismo: il pensare che tutto ciò debba e possa essere guidato, e non invece facilitato dall’amministrazione pubblica (il che è già abbastanza difficile!). Edison poté portare l’elettricità nelle case perché riuscì, peraltro non senza difficoltà, a ottenere dal sindaco di New York il permesso di costruire una centrale e di interrare i cavi. Immaginate tempi ed esiti, se fosse invece prevalsa l’idea di far guidare e finanziare il progetto dal “pubblico”, previo regolamentare bando e conseguenti ricorsi al Tar da parte degli esclusi.
Il secondo errore è quello di privilegiare il più attraente tema dell’innovazione, trascurando invece “i fondamentali” più visibili: assicurare il decoro urbano, curare l’asfaltatura delle strade e del verde pubblico, rendere presente la polizia municipale, e far funzionare l’anagrafe. Senza tutto ciò, è illusorio immaginare di poter attrarre e ritenere una classe creativa, mobile, ma anche esigente: chi di noi non si alzerebbe dal tavolo del ristorante, se dovesse vedere che le posate e i bicchieri sono luridi?
Il terzo errore è quello di delegare (o forse “scaricare”) la regia agli Atenei. Le azioni delle Università nella ricerca, nella didattica, e nella cosiddetta “terza missione” sono fondamentali per creare un sistema di innovazione fiorente, ma ciò non basta.
Un sistema “fiorente” nasce se l’intero milieu territoriale è orientato all’innovazione: non solo il mondo accademico, ma anche le imprese, la pubblica amministrazione e la società civile. E qui il compito diventa squisitamente politico, perché implica la necessità di lavorare in modo “ambidestro”.
Con una mano, favorire l’emergere dei “vincitori” dell’innovazione e del cambiamento. Con l’altra, saper gestire senza strappi e, anzi, accompagnandolo, il tessuto sociale che da questa stessa innovazione, e da questo cambiamento, potrebbero venire spiazzati.
E questo è sicuramente il compito più arduo.
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