Come cambia l’architettura con l’irruzione della pandemia? Cosa si può fare per riadattare lo spazio alle esigenze imposte dalle nuove condizioni di vita e di socialità? E che cosa può fare chi ha le competenze specifiche del progetto degli spazi? Nella discussione sul futuro del mondo post virus gli architetti non hanno fatto mancare la loro voce.

Ogni rivista, scuola, dipartimento dedicato all’architettura ha ospitato riflessioni e proposte, adottando approcci che hanno variato da un più immediato problem solving (memorabili i pannelli in policarbonato con cui a maggio si propose di alvearizzare la balneazione delle spiagge nazionali) a considerazioni di scenario (come quelle proposte dal Comune in Milano2020 Strategia di adattamento, sul futuro della città a misura di contagio).

Autorevoli piattaforme dedicate all’architettura, sfruttando la riflessività indotta dal lockdown globale, hanno lanciato inchieste in cui architetti e scienziati sociali hanno discusso sulle nuove forme dello spazio (si vedano, su scala globale, newcities.org che ha promosso “When pandemic goes viral”, e, su scala nazionale, ilgiornaledellarchitettura.com, che ha ospitato una trentina di contributi nella rubrica “La casa e la città al tempo della Coronavirus”).

La tassonomia delle promesse

Da questo insieme di considerazioni eterogenee (raccolte per conto del Politecnico di Torino da Luciana Mastrolia in una ricca bibliografia ragionata dei contributi usciti tra il febbraio e maggio scorso; lo si può recuperare cliccando qui) emerge una possibile tassonomia delle promesse del progetto di architettura di fronte all’emergenza virus.

La prima promessa riguarda la trasformazione dello spazio in conseguenza diretta degli obblighi attuali di protezione dal virus e del distanziamento sociale. Qui gli architetti hanno potuto svolgere in piena legittimità quello che è il loro compito tradizionale: tradurre in forme le istanze emergenti dalla società. A questa prima promessa possiamo annoverare gli studi sulla possibilità di uso emergenziale degli edifici  pubblici (come le scuole, la cui abitabilità è stata misurate in relazione alla prossemica del contagio) o degli edifici usati collettivamente (come i locali commerciali, ridefiniti nei confini di pertinenza tra interno ed esterno), così come le considerazioni sulle preferenze del mercato immobiliare (con le abitazioni dotate di giardino  in crescita, e i centri urbani mono funzionalmente dedicati a uffici in caduta libera).

Accanto a questa prima promessa sulla trasformazione delle forme dello spazio in risposta a un preciso e contingente obbligo sociale e normativo, se ne può riconoscere una seconda. Una promessa che non considera tanto ciò che il virus ha provocato nel tempo del contagio (e che presumibilmente tornerà ad essere come prima una volta che il rischio sarà superato) ma piuttosto quanto il virus ha reso evidente di un fenomeno che va oltre l’occasione. L’affermarsi del telelavoro, che presumibilmente non si esaurirà con la fine del virus, ha permesso agli architetti di lanciare promesse sulle dimensioni delle abitazioni (che avranno bisogno di un ambiente specifico per ospitare il telelavoro), sulla fortuna della riqualificazione dei centri urbani non congestionati, sulla rinascita dei borghi abbandonati.

L’affermarsi della didattica a distanza ha permesso di immaginare le università come luoghi della socializzazione e del learning by doing piuttosto che di trasmissione unilaterale di pacchetti informativi. Più in generale l’affermarsi degli scambi a distanza ha promosso proposte di riduzione della mobilità e conseguenti ripensamenti del sistema infrastrutturale, così come il ridimensionamento del turismo ha suggerito un ridisegno del sistema dell’offerta di servizi di ristorazione e alberghieri a scala locale.

Dalla forma della paura alla formula della speranza

La capacità di raccontare il futuro di un pezzo di mondo fa parte della dotazione di qualsiasi progettista, e questo spiega l’attivismo degli architetti nel cimentarsi con entusiasmo nella prova. Ma oltre alla promessa del primo tipo sulla collocazione dei muri, dei confini, dell’offerta edilizia (cioè su quanto di pertinenza degli architetti) e della seconda, che coinvolge gli usi e le funzioni (cioè su quanto riguarda il mondo su cui l’architetto può solo incidere indirettamente), esiste anche un terzo tipo di promessa, che riguarda direttamente lo stato futuro del mondo (su cui l’architetto non possiede una specifica competenza, se non quella insita nella pulsione al progetto). Quali nuove burocrazie, quali nuovi confini, quali nuovi oggetti socio tecnici, ci proteggeranno dal virus e renderanno migliore la nostra vita? Se c’è un aspetto che la pandemia ha potuto mostrare nei termini più evidenti e terribili, è che non è vero che le cose debbano andare per forza nel modo previsto. Non è detto che la nostra vita debba essere interamente ambientata in un teatro che altri prima di noi hanno eretto. L’evento del virus ha infatti riattivato una considerazione (che può assumere la forma della paura, ma anche quella della speranza) verso la possibilità del cambiamento.

Il cambiamento è possibile ed è – a dispetto di tutte le scienze della previsione – largamente imprevedibile. Questa imprevedibilità non comporta però necessariamente che esso non possa essere progettato.

Il progetto del cambiamento, se inteso come combinazione di calcolo (del prevedibile) e invenzione (dell’imprevedibile), è la forma specifica con cui l’architetto guarda al futuro, costruendolo. Questo è il terzo tipo di promessa degli architetti: il progetto è un lancio che definisce uno spazio e un tempo finiti. Un lancio che, quando funziona, cioè quando mette d’accordo le istanze che prende in considerazione, e le orienta grazie a una promessa, costruisce la realtà futura. Di questa costruzione,  e di questi lanci, il virus ha evidenziato il bisogno.