La seconda ondata pandemica è in corso. Questa volta si è avviata prima fuori dall’Italia, paese che sperimentò duramente per primo, senza poter capitalizzare sull’esperienza di altri, l’impatto della prima. La seconda ondata era prevedibile, a mano a mano che l’esperienza evidenziava che il virus non aveva attitudine ad autoestinguersi, come fu il virus della Sars nel 2002 che sparì nel 2004. Ma soprattutto considerando che a luglio il bollettino dell’Agenzia europea per le malattie infettive (Ecdc) segnalava che nessuna delle indagini di sieroprevalenza nazionali aveva indicato una percentuale di sieropositivi pari a superiore al 10%: troppo poco per conseguire l’immunità di gregge prima dell’inverno.

 

Mentre alcuni considerano fallimentare l’esperienza sulla seconda ondata in Italia, è invece probabile che non fosse evitabile e che averla ritardata sia un segnale di una buona prestazione dei servizi di igiene e di medicina territoriale.

L’allarme causato dalla seconda ondata deve tuttavia essere ponderato e, anche se la curva dei nuovi positivi giornalieri ha superato quella dei mesi peggiori di marzo e aprile, ci sono ragioni per valutare le diversità della seconda ondata. I dati che abbiamo usato come base del nostro ragionamento sono quelli diffusi dal sito della Organizzazione mondiale della Sanità.

Partiamo dai contagi, il numero dei nuovi positivi per 100 mila abitanti (Grafico 1, sopra, medie mobili di 7 giorni) serve a valutare l’intensità della seconda ondata. Per quanto la seconda ondata sembri in tutti i paesi mediamente più intensa della prima, tra la prima e la seconda ondata i sistemi nazionali hanno attivato o migliorato il contact tracing, che ha implicato una moltiplicazione dei tamponi effettuati ai casi sospetti o probabili. Tra la prima e la seconda ondata, quindi, c’è una variazione strutturale del testing, che era insufficiente nella prima ondata, ragione per cui nella seconda ondata si stanno individuando e rendendo visibili gli asintomatici, prevalentemente invisibili in primavera. Alcuni paesi, come la Spagna, sembrano aver superato il culmine della seconda ondata, tra i 15 e 20 contagi giornalieri per 100 mila abitanti. Altri, come la Francia e il Regno Unito (tra i 25 e 30 contagi giornalieri su 100 mila abitanti), sono ancora nella fase iperbolica. La Svezia sta controllando la situazione. Gli Stati Uniti sono alla terza ondata. L’Italia è nella fase di salita della curva e il suo livello (10) potrebbe potenzialmente andare sotto controllo prima di raddoppiare come potrebbe triplicare, sulla base dell’esperienza da precursori degli altri paesi: questo giustifica l’attenzione di queste settimane, per quanto si debba considerare normale, a tutti gli effetti, che la diffusione virale rilevata dai test, più massicci, della seconda ondata sia statisticamente più rilevante della prima.

L’impegno del servizio sanitario in una epidemia non dipende però solo dal picco dei contagi giornalieri, ma dalla durata con cui questa intensità di contagio si manifesta e dalla severità dei contagi. Sotto questo profilo, sembrano più rassicuranti i grafici 2 e 3. Nel grafico 2 sono espressi i tassi di letalità totale della malattia, sempre in rapporto a 100 mila abitanti.

Come si può osservare la buona notizia è che anche nei paesi che sono nel pieno della seconda ondata da ormai due mesi, come la Spagna e la Francia, una crescita della curva dei decessi (in rapporto a 100 mila abitanti) si è verificata ma è molto ridotta rispetto alla crescita dei decessi nella prima ondata. Durante la prima ondata, i decessi complessivi sono passati in Spagna da 0 a 40 (su 100 mila abitanti) in 60 giorni. Negli ultimi 60 giorni, per contro, in Spagna i decessi per Covid-19 sono passati da 52 a 60 (su 100 mila abitanti), il che indicherebbe come la letalità specifica si sia ridotta di 5 volte. Questo pare confermato leggendo tutte le curve di mortalità complessiva, ad eccezione di quella degli Stati Uniti, nei quali si può osservare una crescita lineare: probabile esito di una minore capacità di curare efficacemente sul territorio i malati, una volta conclamata la malattia. E, del resto, gli Stati Uniti sono il solo paese del gruppo che non possiede un sistema sanitario nazionale uniforme, omogeneo e fiscalmente finanziato.

Per evidenziare la dinamica della mortalità specifica abbiamo calcolato un indicatore nostro, rapportando i decessi per Covid-19 delle ultime due settimane alla somma dei nuovi positivi nelle due settimane precedenti (valori espressi in scala percentuale e logaritmica nel grafico 3).

Come si vede la mortalità specifica dei positivi è scesa in modo importante in tutti i sistemi sanitari (fatta eccezione che negli Stati Uniti, data la linea piatta negli ultimi 3 mesi) e la discesa non è stata da poco, poiché una discesa lineare su una scala logaritmica evidenzia una progressione geometrica (a ridursi) delle morti sugli infetti. In quasi tutti i paesi la curva sembra stabilizzata intorno all’1% dei rilevati positivi (il che significa che dovrebbe essere anche meno, considerando che non è davvero certo che i positivi siano rilevati proprio tutti e che una certa quota di asintomatici invisibile è quasi certamente residuata).

La discesa della curva di mortalità specifica è rassicurante. Sotto questa dinamica, con vario peso che è difficile valutare, dovrebbero esserci tre fenomeni: la riduzione dei suscettibili super-fragili, che si riformano, ma più lentamente; la progressiva aggressione del virus di soggetti meno suscettibili e meno fragili (è noto da mesi l’abbassamento dell’età dei contagi) e il miglioramento dei protocolli di cura, da associare alla precocità delle cure in funzione del maggior numero di tamponi effettuati.

Per tutte queste ragioni, nonostante i contagi giornalieri totali, mentre scriviamo, abbiano formalmente superato i massimi di aprile, ci troviamo in una situazione del tutto nuova e diversa di quella dei mesi del lockdown, ragione per cui mentre è corretta l’applicazione della prudenza nella vita quotidiana e lavorativa, è forse eccessivo il livello di allarme che si è diffuso.

Anche le strategie di difesa del sistema sanitario, economico e della vita delle persone dovrebbero essere diverse. Secondo i nostri calcoli, effettuati al Centro Einaudi, un giorno solo di lockdown durante la prima ondata costerà all’economia e alla società italiana 4,2 miliardi in due anni: ogni cinque giorni di fermo se ne è andato un punto percentuale di Pil del 2019. Invece, togliere al virus la possibilità di fare i danni peggiori, ossia proteggere i lavoratori fragili nelle zone più rischiose, attraverso l’indennità di malattia, costerebbe 162 milioni al giorno. Inoltre, siccome i lavoratori fragili sarebbero sostituiti da lavoratori temporanei, la spesa dei redditi di quest’ultimi ridurrebbe il costo netto per l’economia a 86 milioni.

Una somma quotidiana pari a 1/48 del costo del lockdown, ma che permetterebbe all’economia di affrontare la ripresa, anziché avvitarsi in una seconda, pericolosa, fermata.