Ieri, mercoledì 18 giugno, il leader supremo dell’Iran Ali Khamenei ha risposto «no» all’ultimatum del presidente statunitense Donald Trump che aveva chiesto all’Iran una «resa incondizionata». Una risposta ovvia, per chi conosce l’Iran.
Un paese complesso, un popolo dapprima sorpreso, dopodiché impaurito e ora arrabbiato perché dallo scorso venerdì 13 giugno l’aviazione di Israele sta bombardando non soltanto i siti nucleari, ma anche i quartieri residenziali delle città, le case, i civili. Fino alla richiesta di evacuazione della capitale Teheran in vista di «qualcosa di grosso», che gli iraniani temono sia un bombardamento a tappeto oppure addirittura il nucleare tattico.
Così facendo, Israele è paradossalmente riuscito a compattare buona parte della popolazione iraniana, e anche della diaspora che – con qualche eccezione - dice no ai bombardamenti come strumento per arrivare al cambio di regime.

Dal 1989 il Capo di Stato della Repubblica islamica dell’Iran è il leader supremo Khamenei: è lui ad avere l’ultima parola sulle questioni militari, la politica estera, il nucleare. Nei giorni scorsi alcuni analisti davano per scontato che l’ayatollah Khamenei scappasse a Mosca, come aveva fatto a dicembre il presidente siriano Bashar al-Assad. Ma Khamenei non è Assad, l’Iran non è la Siria. L’ayatollah Khamenei resta a Teheran – assai probabilmente in un bunker, lontano dai droni israeliani - e dice «no» al compromesso anche per mandare un messaggio forte ai pasdaran e ai militari, demoralizzati dall’essere stati colti di sorpresa dall’attacco dell’aviazione dello Stato ebraico, dalle infiltrazioni del Mossad e dagli omicidi mirati dei loro capi, uccisi venerdì scorso nei loro letti, nelle loro abitazioni, con i loro famigliari.
Khamenei dice «no» all’ultimatum del presidente statunitense Donald Trump perché il leader supremo è il Capo di Stato di una nazione che ha una storia millenaria e una forte identità. Il popolo iraniano è composto da gruppi etnici diversi, i cui tratti comuni sono due: 1) un forte nazionalismo e 2) la religione musulmana sciita che mette l’accento sul sacrificio di fronte alle ingiustizie. Nel discorso di mercoledì 18 giugno, sull’emittente televisiva di Stato, il leader supremo ha parlato di jang-e tahmili, ovvero di guerra imposta, proprio come quella – devastante - scatenata da Saddam Hussein nel 1980 che in Iran aveva fatto un milione di morti. Ora, l’obiettivo di Khamenei è tenere in vita – a tutti i costi - la Repubblica islamica.

Da parte iraniana non c’è la resa incondizionata voluta da Trump, ma nel medio e lungo periodo l’Iran non ha nessuna possibilità di resistere alla potenza di fuoco di Israele e degli Stati Uniti. L’unica soluzione è quindi quella diplomatica. Di conseguenza, in questi giorni la diplomazia di Teheran lavora in collaborazione con l’Oman, che accusa Israele di avere sabotato i negoziati che avrebbero portato a breve a un nuovo accordo nucleare con Teheran e a una normalizzazione dei rapporti tra l’Iran, Washington e il resto dell’Occidente. Una normalizzazione dei rapporti con l’Occidente passa però – necessariamente – da un cambio di rotta nel linguaggio: l’Iran dovrà in ogni caso mettere fine agli slogan contro gli Stati Uniti e contro Israele.
Detto questo, oltre all’Oman, anche gli altri cinque paesi arabi del Consiglio di Cooperazione del Golfo hanno condannato l’attacco di Israele all’Iran, perché un allargamento del conflitto li coinvolgerebbe in una guerra che non vogliono (il Qatar, per esempio, condivide con l’Iran il giacimento di gas più importante al mondo, quello che gli iraniani chiamano South Pars, bombardato nei giorni scorsi dall’aviazione militare israeliana). Molto probabilmente le monarchie del Golfo sono consapevoli che l’Iran è stato attaccato da Israele non per il nucleare ma perché gli Stati Uniti vogliono controllare le vie marittime.
Come aveva dichiarato al New York Times Steve Bannon - capo stratega della Casa Bianca nei primi sette mesi del primo mandato di Trump - «dal Canale di Panama alla Groenlandia, è solo una strategia navale. Trump vuole assicurarsi il Canale di Panama affinché la Marina militare della Cina e la Marina militare della Federazione Russa non possano collegarsi nei Caraibi».

Presenza militare degli USA in Medio Oriente

Fonte: The Telegraph

Alla luce di queste considerazioni, mettere fuori gioco l’Iran vorrebbe dire appropriarsi del controllo dello stretto di Hormuz, da cui transita il 30 percento della produzione mondiale e più di un quarto del commercio internazionale di gas naturale liquefatto. E vorrebbe anche dire mettere le mani su Bab el-Mandeb, ovvero di quel braccio di mare da cui passa il 9% del petrolio commerciato via mare e che è attualmente controllato dagli Huthi filoiraniani. Se vi fosse un cambio di regime a Teheran, difficilmente nel medio lungo periodo gli Huthi riuscirebbero a contrastare la potenza di fuoco degli Stati Uniti.

Tornando alle minacce del presidente statunitense Donald Trump di affiancare Israele e attaccare l’Iran, non bisogna sottovalutare un fattore: il presidente statunitense non può bombardare l’Iran senza aver chiesto preventivamente al Congresso di autorizzare l'uso della forza militare, in base alla costituzione. Un attacco americano non provocato sull'Iran non sarebbe infatti un'operazione militare speciale: sarebbe una guerra. Ad affermarlo è il board editoriale del New York Times , precisando che le decisioni in materia di entrata in guerra sono spesso difficili e sempre importanti. Per queste ragioni, la costituzione statunitense non le attribuisce a una sola persona.
Last but not least, l'attacco «preventivo» scatenato da Israele nelle prime ore di venerdì 13 giugno contro Teheran è stato spiegato dalle autorità di Tel Aviv con la necessità di fermare il programma nucleare iraniano, che gli israeliani reputano improntato (e vicino) alla creazione di armi atomiche. Secondo i media americani, tuttavia, gli USA non avevano informazioni che provassero una corsa iraniana all'arma nucleare. Al contrario, nel mese di marzo la direttrice dell'Intelligence nazionale nominata dal presidente Donald Trump, Tulsi Gabbard, aveva testimoniato davanti al Congresso come, secondo la comunità di intelligence statunitense, l'Iran non stesse costruendo un'arma nucleare. Gabbard aveva anche sottolineato che, secondo le informazioni raccolte dagli 007 americani, «la Guida Suprema Khamenei non ha autorizzato la ripresa di un programma di armi nucleari, sospeso nel 2003».

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