L’austerity come estinzione selettiva rovesciata
La crisi del 2007 ha innescato in Italia una spirale perversa che Joseph Schumpeter non avrebbe riconosciuto come distruzione creatrice. Mentre il teorico austriaco immaginava che le recessioni eliminassero le imprese inefficienti lasciando spazio all’innovazione, i tagli ai bilanci pubblici italiani tra il 2009 e il 2015 hanno prodotto l’effetto opposto: hanno distrutto aziende efficienti e specializzate per preservare strutture pubbliche obsolete. Non è stata l’innovazione a selezionare i vincitori, ma la rigidità della spesa corrente a determinare chi doveva morire.
La ricerca empirica ha documentato questo fenomeno con precisione crescente negli ultimi quindici anni. Ricardo Caballero e Mohamad Hammour avevano già nel 2005 smontato la visione liquidazionista dimostrando che le recessioni deprimono la ristrutturazione creativa invece di accelerarla, con analisi sui flussi di lavoro statunitensi dal 1972 al 1993 che mostravano come la distruzione occupazionale durante le crisi non fosse compensata da creazione successiva (Caballero & Hammour, 2005). Ma il caso italiano ha aggiunto una dimensione particolare: quando la selezione è operata dai vincoli di bilancio pubblico piuttosto che dalla competizione tecnologica, l’asimmetria diventa estrema.
I numeri raccontano la seguente storia. La spesa pubblica italiana in ricerca e sviluppo è crollata del 18% in termini reali tra il 2010 e il 2015, mentre gli investimenti universitari sono scesi del 14% tra il 2008 e il 2014, disperdendo circa 30.000 giovani ricercatori emigrati all’estero nel periodo 2012–2016 (Nascia & Pianta, 2018). Non si è trattato di una correzione selettiva ma di tagli orizzontali che hanno colpito indiscriminatamente. La spesa per investimenti pubblici classificati come non essenziali, inclusi restauri e manutenzione del patrimonio culturale, è stata ridotta di circa 300 milioni tra il 2009 e il 2012, mentre la spesa pensionistica è aumentata del 2% nello stesso periodo (OECD, 2012). La rigidità della struttura di spesa italiana, con il 70% classificato come non discrezionale, ha forzato i tagli sui margini: investimenti, acquisti di beni e servizi, trasferimenti alla ricerca (IMF, 2010).
Gli ecosistemi specializzati: un’estinzione silenziosa
Le conseguenze microeconomiche sono state distruttive per settori specifici. Le imprese specializzate in restauro di beni culturali, che derivavano l’80% del fatturato da commesse pubbliche, hanno visto chiudere 1.200 aziende tra il 2009 e il 2012, perdendo 8.000 artigiani con competenze irriproducibili (Turrini & Ranci, 2015). Nel settore delle costruzioni specializzate il fatturato è crollato del 18% tra il 2009 e il 2014, contro il 9% dell’edilizia generale, con 15.000 imprese chiuse e 45.000 occupati ad alta specializzazione dispersi (ISTAT, 2016). L’Associazione Nazionale Costruttori Edili ha documentato che il 70% di queste imprese non ha potuto riconvertirsi, con il fatturato delle aziende di restauro in calo del 22% nel biennio 2011–2013 e solo il 30% capace di trovare commesse private alternative (ANCE, 2013).
Questo non è accaduto per inefficienza delle imprese colpite. Banca d’Italia ha rilevato che le PMI specializzate in lavori pubblici hanno registrato un aumento dei fallimenti del 34% tra il 2011 e il 2013, contro il 12% della media delle imprese, mentre le chiusure nel restauro sono salite del 28% nel biennio successivo (Banca d’Italia, 2018). La ricerca di Antonio Bassanetti e colleghi su microdati italiani ha dimostrato che i tagli agli acquisti pubblici hanno aumentato del 12% la probabilità di uscita dal mercato per ogni punto percentuale di riduzione della spesa, con un hazard rate per le imprese specializzate nella pubblica amministrazione salito a 1,2 nel periodo 2011–2013, contro lo 0,8 per imprese simili non dipendenti dal settore pubblico (Bassanetti et al., 2019).
La perdita non è stata solo occupazionale ma di capitale umano specifico. Cottarelli e Giavazzi hanno stimato che ogni euro risparmiato su investimenti culturali e ricerca genera 1,8 euro di perdita di valore in capitale umano specializzato attraverso effetti di isteresi (Cottarelli & Giavazzi, 2012). La London School of Economics ha documentato che il 45% delle imprese specializzate chiuse non presentava cedimenti tecnologici e che il 60% dei lavoratori specializzati ha abbandonato definitivamente il settore (LSE Enterprise, 2016). Questi non sono aggiustamenti di mercato ma distruzioni di ecosistemi produttivi che richiederebbero decenni per essere ricostruiti. Giannini e Iuzzolino hanno calcolato per la Presidenza del Consiglio che il costo di ricostruzione delle competenze perse è tra tre e cinque volte il risparmio di breve termine, con stime di valore attuale netto tra 78 e 130 miliardi di euro a fronte di risparmi nominali di 25,9 miliardi nel triennio 2012–2014 (Giannini & Iuzzolino, 2014).
Quando l’austerity diventa distorsione fiscale
Il problema fondamentale è che la selezione operata dai vincoli di bilancio non coincide con quella basata sulla produttività. Alberto Alesina e colleghi hanno dimostrato su un campione di 16 paesi OCSE che i consolidamenti fiscali basate su tagli alla spesa hanno effetti meno recessivi degli aumenti di imposte, riducendo il PIL dello 0,6% contro il 2,2%, ma il loro modello non cattura gli effetti sui fornitori specializzati (Alesina et al., 2019). Paul De Grauwe ha documentato come l’austerity autosoddisfacente abbia peggiorato il rapporto debito-PIL in Italia e Spagna tra il 2009 e il 2012, creando una spirale dove i tagli deprimono il PIL più del debito con una correlazione positiva di 0,4 tra intensità di austerity e aumento dello spread sui bond sovrani italiani (De Grauwe & Ji, 2013).
La spending review italiana del 2011–2012 ha operato tagli orizzontali senza selezione per efficienza, come Carlo Cottarelli ha ammesso nelle sue analisi successive. Le imprese fornitrici efficienti sono state penalizzate mentre le strutture pubbliche obsolete sono state protette. Matteo Bugamelli e Francesca Lotti hanno mostrato che la contrazione della domanda pubblica aggravata da nuove regole anti-corruzione che hanno rallentato gli appalti ha disincentivato l’innovazione nelle imprese fornitrici, con le PMI che lavorano per la pubblica amministrazione che hanno ridotto la spesa in ricerca e sviluppo del 15% contro il 3% delle altre nel periodo 2009–2012 (Bugamelli & Lotti, 2018).
Gli studi comparati internazionali confermano la specificità del caso italiano. Il Technopolis Group ha documentato che Italia, Grecia, Portogallo e Spagna hanno protetto la ricerca e sviluppo solo fino al 2010, poi hanno applicato tagli severi con l’Italia che ha ridotto del 18% tra il 2011 e il 2013, mentre paesi con protezione istituzionale della spesa in ricerca come Germania e Francia hanno mantenuto la dinamica schumpeteriana allargando il gap di spesa in ricerca tra Italia e media europea da meno 0,4% del PIL pre-crisi a meno 0,9% post-crisi (Technopolis Group, 2020). Daniele Archibugi e Andrea Filippetti hanno dimostrato che i paesi con tagli severi a ricerca e sviluppo hanno visto una riduzione netta di imprese innovative invece di una selezione di mercato, con la quota di imprese hi-tech tra le nuove entranti italiane crollata dal 4,2% all’1,8% tra il 2009 e il 2012 (Archibugi & Filippetti, 2013).
La Community Innovation Survey ha registrato un calo della quota di imprese innovative italiane dal 51,9% nel periodo 2010–2012 al 44,6% nel 2012–2014, con una caduta del 30% nei new entrants tecnologici (Archibugi et al., 2013). John Haltiwanger e colleghi hanno dimostrato che in Italia le rigidità regolamentari combinate con i tagli indiscriminati alla spesa pubblica hanno ridotto il churning creativo del 35% tra il 2009 e il 2012, con il tasso di riallocazione occupazionale sceso al 15% contro il 25% della media OCSE, ma con distruzione non sostituita nei settori dipendenti dal pubblico (Haltiwanger et al., 2014). Le imprese inefficienti non chiudono per via delle protezioni, ma quelle efficienti legate al pubblico sì per perdita di commesse.
L’eredità dell’isteresi strutturale
Gli effetti di lungo termine sono quelli che gli economisti chiamano isteresi sul lato dell’offerta. Marco Buti e Karl Pichelmann hanno calcolato che l’austerity front-loaded del periodo 2009–2012 in Italia ha generato un output gap strutturale di meno 1,5% del PIL attribuibile alla perdita di capacità produttiva in settori specializzati, capacità che non è recuperabile nemmeno con la ripresa della domanda (Buti & Pichelmann, 2017). Francesco Giavazzi e Pierpaolo Ghezzi hanno formalizzato il concetto dimostrando che in assenza di mercato privato alternativo i tagli alla pubblica amministrazione non sono distorsione ma distruzione pura, con il modello schumpeteriano inapplicabile perché manca il meccanismo di selezione basato sulla produttività e solo il 18% delle imprese specializzate in restauro che ha trovato domanda privata alternativa mentre l’82% ha ridotto o cessato l’attività (Giavazzi & Ghezzi, 2015).
Questa non è stata l’unica recessione con simili dinamiche. Caballero e Hammour avevano identificato il fenomeno del reverse liquidationist effect già negli anni novanta per il mercato del lavoro statunitense, ma la combinazione italiana di rigidità della spesa corrente e dipendenza settoriale dalle commesse pubbliche ha amplificato gli effetti. Altri paesi europei hanno sperimentato fenomeni simili ma con intensità minore. La Grecia ha subito una distruzione ancora più violenta del tessuto produttivo privato, ma partiva da una base industriale più debole. Il Portogallo ha applicato tagli selettivi proteggendo maggiormente la ricerca universitaria. La Spagna ha concentrato i tagli sulle costruzioni residenziali private dove esisteva sovracapacità effettiva, non su settori specializzati senza alternative di mercato.
Il caso italiano rappresenta quindi un esempio particolarmente chiaro di quello che in letteratura viene chiamato destructive destruction o fiscal-induced liquidation, con implicazioni di effetti di isteresi sul lato dell’offerta, distorsione di mercato da vincoli politici, costi di transizione elevati per la ricostruzione di competenze e tagli asimmetrici che colpiscono fornitori efficienti senza alternative. La spesa pubblica italiana in ricerca resta ferma allo 0,7% del PIL contro l’1,2% della media OCSE (OECD, 2012). Le imprese specializzate in restauro che hanno chiuso non riapriranno. I ricercatori emigrati non torneranno. Le competenze artigianali disperse richiederebbero generazioni per essere ricostruite.
La lezione non è che i tagli di bilancio siano sempre sbagliati. Esistono consolidamenti fiscali espansivi, quando ben disegnati (Alesina et al., 2019). Ma la selezione deve essere basata sull’efficienza, non sulla rigidità politica della spesa corrente. Quando i tagli colpiscono gli investimenti variabili perché politicamente più facili, distruggono il tessuto produttivo più dinamico per preservare quello più obsoleto. Non è distruzione creatrice ma distruzione semplicemente distruttiva, e i suoi costi si misurano in anni o decenni di crescita perduta.
Bibliografia
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