Sono passati 33 anni prima che la Conferenza delle Parti (COP) tornasse in Brasile, dove tutto era iniziato. Nel 1992, infatti, il Summit della Terra di Rio de Janeiro, sotto il nome ufficiale di Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo, adottò la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Proprio quella Convenzione aveva istituito la Conferenza delle Parti come suo supremo organo decisionale, che si sarebbe riunito, salvo eccezioni, a cadenza annuale. Ma cosa prevedeva il trattato del ’92, testo spartiacque nella storia delle convenzioni internazionali sul clima?

Il testo, giuridicamente non vincolante, delinea l’obiettivo di «stabilizzare» le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera, di modo da impedire «qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico»[1]. Si affermava, pertanto, che i gas serra sono il risultato di attività antropiche, in larga misura dovute, almeno «attualmente», ai paesi  «sviluppati». Per questo, il trattato obbligava formalmente le parti ad adottare politiche nazionali per mitigare i cambiamenti climatici, nel riconoscimento dell’importanza del ripristino, «entro la fine del presente decennio», dei precedenti livelli di emissioni. Precedenti, insomma, alla «Grande Accelerazione»[2] dell’impatto delle attività, specie dei paesi a uno stadio avanzato di industrializzazione, sull’ambiente. Di conseguenza, il trattato stabiliva che i paesi «sviluppati» avrebbero dovuto fornire risorse finanziarie «nuove e aggiuntive», così come «tecnologie, prassi e processi», ai paesi «in via di sviluppo». Questo allo scopo di coprire i costi sostenuti da tali paesi per la realizzazione di inventari, report e programmi nazionali per il conseguimento degli obiettivi del trattato. Veniva così riconosciuto che, con queste premesse, le economie dei paesi «in via di sviluppo» risultavano particolarmente vulnerabili «agli effetti negativi dell’attuazione di provvedimenti adottati per far fronte ai cambiamenti climatici». Fino a qui tutto bene?

Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio. Vale a dire: che cosa stava affermando, in maniera implicita, la Convenzione? In primo luogo che, certo, i paesi industrializzati (mai definiti come tali) sono i maggiori responsabili delle emissioni, ma che queste ultime sono necessariamente destinate ad aumentare, per via del soddisfacimento, da parte dei paesi «in via di sviluppo», delle relative «esigenze sociali e di sviluppo». In secondo luogo, che proprio coloro che sono causa del problema, avrebbero fornito la soluzione, poiché garanti dei finanziamenti verso quei paesi di cui bisognava ora ammortizzare il costo ambientale di un’industrializzazione capillare, che si profilava come l’unico orizzonte possibile. Desiderabile, realizzabile. Non viene mai, cioè, messo in discussione il modello socio-economico, il modello di «sviluppo», che pure si riconosce essere all’origine del problema. E non può che essere così. Senza questa pretensione, infatti, come potrebbero i paesi egemonici della Convezione presentarsi allo stesso tempo come problema e come risoluzione? Deus ex machina. Insomma, il testo dice ai paesi «in via di sviluppo»: io vi chiedo di essere come me, però non potete essere come me, perché c’è crisi! E qual è la ragione di questo apparente paradosso? Il rapporto di forza, di tipo imperialistico e coloniale, che intercorre tra i paesi del Nord globale e quelli del Sud, nella misura in cui i primi hanno costruito storicamente la propria ricchezza e status grazie alla spoliazione sistematica delle risorse naturali e della forza lavoro dei secondi.

Cúpula dos Povo, Belem - foto Regard Brut

Che cosa rimane di questo orizzonte discorsivo e materiale alla COP dell’Amazzonia brasiliana?

Sembra esserci qualcosa di più rispetto alle premesse del secolo scorso. O, forse, ne vediamo all’opera la consequenzialità nel tempo. Nelle prime pagine dell’Appello di Belém per il clima si legge infatti che «lo sviluppo di quei paesi che oggi sono ricchi è avvenuto in un contesto in cui non vi erano né le odierne conoscenze sul cambiamento climatico né l’attuale preoccupazione per la sostenibilità»[3]. Nonostante diverse ricerche dimostrino la fallacia di questo discorso, sia per quanto riguarda la presunta novità della questione ecologica, sia in relazione alla coscienza, da parte dei responsabili dell’inquinamento, di quanto stavano e di quanto continuano a fare, 33 anni dopo il Summit della Terra il tono è assolutorio. «Signore, perdonali, perché non sanno quello che fanno»[4]. La semantica, però, è quella dell’emergenza, «occorre affrontare con urgenza diverse criticità». Accompagnata dal lessico della concessione: «adattare l’architettura finanziaria […] per incorporare i costi dell’inazione climatica». Che è una maniera di dilazionare. Assomiglia al biblico katechon questo discorso che trattiene l’Apocalisse senza eliminarla. Ne è una funzione e la conferma.

Insomma, proprio perché si sarebbe finalmente capito, dopo tanti anni, che abbiamo un problema, i paesi ricchi «devono impegnarsi ad aiutare gli altri a svilupparsi in modo sostenibile e meno dannoso per il pianeta». In questo modo, però, non solo vengono confermati i presupposti del ’92, ma l’accento cade esplicitamente sulla faccenda dello «sviluppo» dei paesi del Sud globale, come se la maggiore minaccia per il clima venisse proprio da loro. Il problema non è, dunque, l’attuale modello politico, economico e sociale, imposto su scala globale, ma il fatto che non tutti ne traggono beneficio allo stesso modo. Questo beneficio generalizzato, che esiste solo virtualmente, è proprio ciò che questo discorso, di fatto, mira a escludere. Nel documento si parla di «istituire e potenziare piattaforme di assistenza tecnica e capacity building per sostenere i paesi in via di sviluppo nell’attuazione delle misure di azione per il clima». Il paradigma è, cioè, più apertamente paternalista e subordinante rispetto al ’92: io pagherò per il vostro sviluppo, ma questo voi continuerete a pagarlo caro con la subalternità, nonostante voi siate (e proprio perché lo siete) coloro che meno contribuiscono al problema. Ma che più ne soffrono. Eppure, «il futuro è ancestrale», scrive il pensatore indigeno Ailton Krenak[5]. Questo concetto si ritrova nei murales della capitale paraense e nei discorsi di coloro che resistono al modello dominante di desenvolvimento. Modello che, date le sue premesse, non poteva che continuare a riprodurre se stesso, come si vede dai risultati della COP30.

Nessun passo in avanti, nonostante i proclami in merito, sull’abbandono delle energie fossili. Più di 1600 i lobbisti dell’industria fossile presenti alla Conferenza. Tradotto in termini di potere decisionale, questo vuol dire che «uno su 25 degli accreditati alla COP30 rappresenta gli interessi dell’industria fossile, vale a dire la principale responsabile del riscaldamento globale»[6]. Tanto che la Colombia, con la «Dichiarazione di Belém» del 21 novembre, ha convocato per il prossimo aprile il primo incontro internazionale, che si terrà a Santa Marta, per l’uscita dalle fossili. Tra i nove paesi dello spazio europeo firmatari della Dichiarazione non figura l’Italia. Nessun passo in avanti per agire concretamente contro la deforestazione, e contro tutto ciò che questo implica in termini di riscaldamento globale, perdita di biodiversità, minaccia alle forme di vita e di società di questo bioma.
All’alba del 14 novembre, il popolo indigeno Munduruku ha bloccato le porte del padiglione delle negoziazioni – la zona azzurra della COP30 – fino al momento in cui il Presidente André Corrêa do Lago non li ha ricevuti. Chiedevano, però, un’udienza con il Presidente Lula, per dire la loro su ciò che durante la COP si andava decidendo proprio sui loro territori, il bacino del fiume Tapajós di quello stesso Stato del Pará. Per denunciare quanto l’agribusiness, con la connivenza del governo, aveva già, negli anni, deciso senza il loro consenso libero, preventivo e informato (FPIC). In Brasile, la superficie di monocultura di soja è infatti aumentata, tra il 2000 e il 2023, del 225%[7] provocando deforestazione, vale a dire accaparramento di terra, conflitti agrari, intesa contaminazione delle acque, dei suoli e delle persone per via dei pesticidi impiegati. A Mojuí dos Campos (Pará), ogni abitante assume in media 37,3 litri di pesticidi l’anno, mentre la media federale è di 4,5 l’anno[8]. Non a caso, i territori del Pará e del confinante Stato del Maranhão sono stati quelli a essere maggiormente attraversati, negli ultimi 10 anni, dai conflitti per la terra[9]. L’agribusiness, però, insieme ai relativi progetti logistici quali l’apertura di nuove vie navigabili, porti e ferrovie, non si ferma, come dimostra la sospensione, voluta dal Consiglio amministrativo di difesa economica brasiliano, della moratoria sulla soja, incoraggiandone l’avanzata aggressiva. Tutto questo, in larga parte, per l’esportazione verso il Nord del mondo.

Cop30 Belém, zona verde, foto Regard Brut

Ma non è finita qui, poiché a questa predazione aggressiva delle risorse condotta con mezzi ed energie «tradizionali», si accompagna il discorso sulla «transizione». In linea con i principi del modello socio-economico alla base delle conferenze e dei trattati internazionali sul clima, e allo scopo di garantirne la riproduzione, la transizione non si dimostra altro che uno strumento ulteriore dei paesi e delle classi dominanti per chiamare con altro nome gli stessi meccanismi di spoliazione. Facciamo un esempio. La brasiliana Vale S.A. ha finanziato direttamente il Governo del Pará con un importo pari a 1,55 miliardi di reais per la realizzazione di infrastrutture legate alla CO30[10]. Lo stesso City Park, dove si sono tenuti gli eventi principali della Conferenza, è stato realizzato tramite le compensazioni ambientali di questo colosso mondiale dell’estrazione mineraria[11]. Questo ed altro può permettersi «l’eterna Vale», come viene chiamata nelle aule dell’Università Federale del Pará. Proprietaria della più grande miniera di ferro a cielo aperto del mondo, nel cuore della foresta, così come di tutto il complesso logistico per l’esportazione, la Vale è responsabile di numerosi crimini sociali e ambientali[12]. Ma l’azienda è inoltre implicata in prima persona nell’avvelenamento del rio Cateté, per via delle sue attività di estrazione del nichel[13]. Oggi, anche grazie alla retorica della transizione energetica, le operazioni minerarie proseguono, aggravando la minaccia che pesa sulla popolazione indigena che vive lungo il corso del fiume: Xikrin do Cateté. La domanda internazionale di minerali critici ha complessivamente favorito il fenomeno di estrazione illegale di minerali, come dimostrano i frequenti sequestri di navi cargo, contenenti rame e manganese, a pochi chilometri da Belém, nel porto di Barcarena[14]. Insomma, come può esservi transizione giusta se questa finisce per essere uno strumento aggiuntivo del sistema dominante per continuare con le sue attività? Il che vuol dire continuare ad aggravare il divario tra Nord e Sud: se la transizione verrà costruita a beneficio del Nord, questo significherà un’ulteriore rapina istituzionalizzata delle risorse e dei suoli del Sud. Senza, cioè, una messa in discussione dei fondamenti del modello di sviluppo imposto dal Nord globale al mondo intero, le comunità e gli ecosistemi del Sud continueranno ad essere la riserva per l’accumulazione capitalistica dei primi. I recentissimi accordi tra l’Unione Europea e la Vale per l’approvvigionamento di «idrogeno brasiliano a basso costo e minerale di ferro di alta qualità» non lasciano presagire niente di buono in merito[15].

Cúpula dos Povos, UFPA, udienza della presidenza della COP, foto Regard Brut

La Cúpula dos Povos

In risposta a questa gattopardesca COP30 («se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto diventi transizione»), la capitale del Nord del paese, Belém, ha ospitato un incontro internazionale di popoli che, come l’América Invertida di Joaquín Torres García[16], rovescia il discorso dominante, mostrandone il volto imperialistico. Dal 12 al 16 novembre, nel campus dell’Università Federale del Pará sono confluite più di 70.000 persone provenienti da tutto il mondo. Movimenti sociali e popolari, organizzazioni, coalizioni, collettivi, reti, forum, alleanze, popolazioni indigene e tradizionali, quilombolas, pescatori, lavoratori urbani e rurali, lavoratori precari, contadini, sindacalisti, senzatetto, donne, comunità LGBTQIAPN+, giovani e bambini, anziani, afro-discendenti, popoli della foresta, della campagna, delle periferie, dei mari, dei fiumi, dei laghi, delle mangrovie… Queste diverse componenti hanno dato vita alla Cúpula dos Povos, il Vertice dei Popoli, l’internazionale della società civile brasiliana e di tutto il mondo per la costruzione dal basso della Giustizia climatica. In quanto «spazio autonomo e indipendente»[17], le voci del Vertice hanno lavorato su sei assi di convergenza:

  1. Territori e «maritori» vivi, sovranità popolare e alimentare
  2. Giustizia riparativa, lotta contro il razzismo ambientale, le false soluzioni e il potere delle multinazionali
  3. Transizione giusta, popolare e inclusiva
  4. Contro le oppressioni, per la democrazia e l’internazionalismo popolare
  5. Città giuste e periferie urbane vive
  6. Femminismo popolare e resistenza delle donne nei territori

Frutto delle giornate del Vertice è la Dichiarazione finale, declamata alla presenza della Presidenza della COP[18]. L’estrema destra, il fascismo e le guerre sono ritenute responsabili dell’aggravarsi tanto della crisi climatica quanto dello sfruttamento della natura e dei popoli. Si tratta, più ampiamente, di una crisi di civiltà provocata dai paesi del Nord del mondo, dalle multinazionali e dalle classi dirigenti. Si esige che questi attori si assumano la responsabilità del disastro: il Nord del mondo iniziando a «ripagare il debito accumulato attraverso secoli di pratiche imperialiste, colonialiste e razziste, l’appropriazione dei beni comuni e la violenza imposta a milioni di persone che sono state uccise e ridotte in schiavitù»; le multinazionali attraverso il «risarcimento equo e completo per le perdite e i danni inflitti ai popoli da progetti di investimento distruttivi»; i responsabili di crimini economici e socio-ambientali attraverso adeguati processi penali[19]. Detto altrimenti, per la Cúpula, non può darsi giustizia sociale e ambientale senza il riconoscimento della responsabilità del modo di produzione capitalistico come causa principale della crisi climatica. Le proteiformi trasformazioni di questo sistema egemonico, transizione inclusa, non solo non hanno ridotto le emissioni, ma hanno aperto «nuovi spazi» per l’accumulazione del capitale, per la «privatizzazione, la mercificazione e la finanziarizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici».

Di fronte al susseguirsi di crimini ambientali ed eventi meteorologici estremi, la Cúpula delinea una Transizione Giusta che mette al centro la partecipazione di coloro che subiscono maggiormente la violenza razzista, patriarcale e coloniale del sistema capitalista. Coloro, cioè, che meno sono responsabili della crisi e che più hanno contribuito, attraverso saperi e forme di vita differenti, all’instaurazione di un rapporto virtuoso con l’ecosistema. Per il Vertice, smentire le false promesse di «innumerevoli conferenze e incontri globali che promettevano di risolvere questi problemi», vuol dire difendere la vita, la cura, il lavoro di riproduzione delle donne e della natura, nella sua sbalorditiva diversità.  

 

Immagine di copertina: foto Regard Brut  (qui la versione originale)

 

Consigliati per te:

[1] Cfr. https://unfccc.int/files/essential_background/background_publications_htmlpdf/application/pdf/conveng.pdf
[2] W. Steffen et al., The Anthropocene: conceptual and historical perspectives, «Philos Trans A Math Phys Eng Sci», 13 March 2011, vol. 369 (1938), pp. 842-867.
[3] Cfr. https://cop30.br/en/news-about-cop30/call-of-belem-for-the-climate-urges-countries-to-respond-urgently-to-the-global-crisis
[4] Su queste questioni cfr. il capitolo IV di C. Bonneuil, J.-B. Fressoz, La Terra, la storia e noi, Treccani, Milano 2019.
[5] A. Krenak, Futuro ancestrale, Roma, Produzioni Nero 2025.
[6] https://apublica.org/2025/11/lobby-na-cop30-empresas-de-combustiveis-batem-recorde-em-belem/#_
[7] https://cptnacional.org.br/acervo/conflitos-no-campo/caderno-de-conflitos/
[8] Cfr. https://terradedireitos.org.br/noticias/noticias/tribunal-popular-em-santarem-pa-condena-estado-e-agronegocio-por-guerra-quimica-contra-povos-da-amazonia/24212
[9] https://cptnacional.org.br/painel/conflitos-por-terra-nos-ultimos-10-anos/
[10] https://cop30.br/en/brazilian-presidency/transparency 
[11] https://infoamazonia.org/en/2025/11/05/as-a-sponsor-of-cop30-vale-buys-carbon-credits-from-an-area-in-the-amazon-accused-of-irregularities-in-timber-management/
[12] https://insustentaveis.sumauma.com/vale-se-apossa-de-24-mil-hectares-de-terras-publicas-em-carajas/
[13] https://apublica.org/2017/12/quanto-vale-um-rio/
[14] https://infoamazonia.org/2021/06/09/demanda-internacional-por-manganes-ameaca-indigenas-kayapo-no-sudeste-do-para/
[15] https://international-partnerships.ec.europa.eu/policies/global-gateway/north-east-brazil-green-energy-parks-and-green-shipping-corridors_en
[16]
https://smarthistory.org/torres-garcia-inverted-america/
[17] https://cupuladospovoscop30.org/en/manifesto-2/
[18] Cfr. https://cupuladospovoscop30.org/en/final-declaration/
[19] Per la traduzione italiana della Dichiarazione cfr. https://asud.net/ultima/dichiarazione-cupula-dos-povos/