Ai giovani in ingresso nel mondo del lavoro, il periodo iniziale è spesso descritto come “gavetta”, una realtà necessaria per acquisire esperienza e, con il tempo, avanzare nella carriera. Negli ultimi anni, però, si è aperta una frattura nella narrazione di questo percorso. Da un lato troviamo le vecchie generazioni che considerano tale fase un passaggio obbligato e che spesso trovano il supporto dei media tradizionali nel dipingere i giovani come pigri, svogliati e poco inclini a “fare gavetta”. Dall’altro ci sono i giovani stessi, che vivono questa transizione in prima persona e percepiscono un netto peggioramento rispetto alla generazione dei loro genitori: quella che viene letta come svogliatezza è, in realtà, avversione verso lavori mal pagati, senza tutele e non allineati con il percorso formativo seguito.
In Italia il dibattito su questo tema è particolarmente acceso, ma qual è la reale dimensione di un fenomeno di cui spesso si faticano a stimare magnitudo ed effetti per la mancanza di dati affidabili? In una sua concezione ideale, la gavetta rappresenterebbe un passaggio vantaggioso sia per il datore di lavoro che per il giovane agli inizi della sua vita professionale. Il primo può contare su forme contrattuali più flessibili e meno vincolanti, utili a soddisfare esigenze occupazionali di breve periodo, con la possibilità di valorizzare i giovani più promettenti trasformando un contratto atipico in uno stabile. Il secondo ha l’occasione di arricchirsi attraverso esperienze sul campo e, in teoria, di vedere riconosciuto il proprio impegno con una stabilizzazione della propria posizione. Tuttavia, come sottolinea la letteratura di economia del lavoro, i contratti a tempo determinato raramente sono “stepping stones” - trampolini di lancio - verso la stabilità: più spesso costituiscono un collo di bottiglia, diventando uno dei principali meccanismi di riproduzione del precariato.
Le forme della gavetta
Questo tipo di contratti si declina in forme e regolamentazioni differenti, che però condividono la scarsa attrattività delle condizioni di lavoro, soprattutto rispetto agli standard europei. Tra questi il più comune e conosciuto è il contratto a tempo determinato, con cui, secondo i dati di Indagine di Forza di Lavoro Eurostat, il 38% dei giovani tra i 15 e i 29 anni in Italia viene assunto. Al confronto, la media Ue è del 12% sull’intera popolazione lavorativa. Questo divario dimostra come il lavoro a termine sia diventato una componente strutturale dell’esperienza lavorativa delle nuove generazioni, più che una fase transitoria legata all’ingresso nel mondo del lavoro. Lo dimostra la maggiore ricorrenza con cui viene impiegata questa forma di contratto: secondo dati Ocse nel 1983 solo l’11,8% dei giovani lavoratori tra i 15 e i 24 anni era assunto con un contratto a tempo determinato. Quarant’anni dopo, nel 2023, questa quota è salita al 57,3%.
Tra le altre forme di lavoro atipiche si trovano il contratto di apprendistato, il tirocinio, il contratto a chiamata (il cosiddetto Co.co.co), e l’utilizzo della partita Iva, spesso in condizioni che mascherano rapporti di lavoro subordinato.
Il tirocinio non si configura come un vero e proprio rapporto di lavoro, ma come un periodo di formazione e orientamento finalizzato a facilitare il primo ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Esistono due principali tipologie: i tirocini curriculari, rivolti a studenti inseriti in un percorso di istruzione o formazione; e i tirocini extracurriculari, pensati per chi intende acquisire esperienza pratica e orientamento professionale. Nel primo caso data la natura eccezionale della convenzione, che non include un vero contratto di lavoro, non è prevista alcuna forma di retribuzione, nonostante la durata possa arrivare a 12 mesi. Per i tirocini extracurriculari, invece, è stabilita un’indennità minima obbligatoria di 300 euro mensili (introdotta dalla Legge di Bilancio 2022), che può variare in base alle normative regionali. In questo caso, la durata massima è generalmente fissata a 6 mesi.
L’apprendistato è invece un contratto a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione giovanile. Ne esistono tre tipologie. La prima è destinata ai giovani tra i 15 e i 25 anni e consente di ottenere in un ambiente di lavoro una qualificazione tra il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore o il certificato di specializzazione tecnica superiore. Le altre due forme sono rivolte ai giovani tra i 18 e 29 anni: l’apprendistato professionalizzante, per incentivare ad apprendere un mestiere o a conseguire una qualifica professionale, e l’apprendistato di alta formazione e ricerca. Quest’ultimo ha come obiettivo il conseguimento di titoli di studio universitari e dell’alta formazione, compresi i dottorati, oltre che diplomi di istituti tecnici superiori.
I numeri della gavetta
Nel 2022 si sono registrati in Italia oltre 312 mila tirocini e circa 569 mila rapporti di apprendistato tra i giovani nella fascia 15-29 anni. Lo strumento dell’apprendistato mostra una maggiore efficacia rispetto al tirocinio: secondo un’analisi Inapp nel 2022, oltre 114.000 apprendisti sono stati stabilizzati con un contratto a tempo indeterminato, e l’88% risultava occupato a quattro anni dall’assunzione. Al contrario, i tirocini spesso non sfociano in un’assunzione: dopo sei mesi, solo il 56% degli ex tirocinanti ha un lavoro, mentre il 35% resta senza occupazione e il 9% segue un nuovo tirocinio. Le probabilità di assunzione aumentano con il livello di competenza: 65% di inserimento per tirocini ad alta competenza, 34% per quelli a bassa.
Il contratto di collaborazione coordinata e continuativa, secondo il rapporto INPS del 2024, coinvolge invece oltre 190.000 individui sotto i 29 anni, pari al 21% dei titolari di un contratto co.co.co. I In quanto forma di lavoro parasubordinato, a metà tra lavoro dipendente e autonomo, questo tipo di contratto prevede tutele limitate e garanzie previdenziali ridotte, con assenza di ferie e TFR e solo parziali correttivi introdotti negli ultimi anni.
Negli ultimi anni, infine, una forma sempre più diffusa di gavetta ed è rappresentata dalle “false” partite IVA: lavoratori formalmente autonomi che, nella realtà, operano per un solo committente. Un caso emblematico è quello dei medici gettonisti, un fenomeno in forte espansione nel settore sanitario. Secondo l’ultima relazione dell’Anac, il valore dei contratti legati ad accordi quadro (appalti con cui le aziende sanitarie acquistano turni e prestazioni da cooperative esterne, convenzioni per i medici e accordi con professionisti esterni ) è passato da 9,6 milioni di euro nel 2019 a 42,3 milioni nel 2023. Sempre più spesso, questi incarichi vengono ricoperti da giovani neolaureati, che scelgono la via delle partite Iva, con minori tutele previdenziali, per compensare la bassa remunerazione delle borse di specializzazione.
La molteplicità di forme contrattuali che non permettono la stabilità economica e lavorativa di una larga parte dei giovani italiani si inserisce in un quadro storico in cui l’attuale generazione è più povera delle precedenti. Secondo elaborazioni della Banca d’Italia su dati Ocse, la percentuale di under 35 collocata nella parte bassa della distribuzione del reddito (con reddito inferiore alla mediana) è più che raddoppiata dalla fine degli anni ’70. Oggi oltre 1 giovane su 4 vive al di sotto della soglia di povertà relativa (convenzionalmente definita inferiore al 60% del reddito mediano). Al contrario, il peggioramento è molto più contenuto tra gli adulti e quasi assente tra gli anziani. In sintesi, con il tempo la povertà si è spostata verso le generazioni più giovani.
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Secondo i dati Ocse, nel 2002 i giovani (15-24 anni) guadagnavano in media il 29% in meno rispetto agli adulti nella fase centrale della vita lavorativa (25-54 anni). In sostanza, nel 2018 un giovane lavoratore full-time guadagnava, in media, il 25% in meno di un collega adulto. La differenza salariale si è dunque ridotta nel tempo, e rimane inferiore a quello di altri Paesi come la Germania, (-40,4%), il Regno Unito (-41,1%) Francia (-33,1%) e la Spagna (-34.7%).
Anche se questo può sembrare un segnale positivo, in realtà, riflette il peggioramento generale delle retribuzioni in Italia, più che un miglioramento delle condizioni economiche dei giovani.
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In Italia, infatti, i salari reali — cioè corretti per l’inflazione — sono rimasti sostanzialmente invariati da inizio millennio. Questo significa che il divario salariale tra giovani e adulti in Italia è meno ampio non perché i giovani italiani guadagnino di più, ma perché negli altri Paesi le retribuzioni crescono significativamente di più nel corso della carriera. In Italia, invece, i giovani partono con salari più bassi e incontrano scarse opportunità di crescita, ritrovandosi con prospettive di reddito lungo l’intero arco della vita inferiori rispetto ai loro coetanei europei.
Infine, nonostante un mercato del lavoro sfavorevole, ci sono leggeri segnali di miglioramento in termini di soddisfazione dei giovani italiani occupati, che è aumentata negli ultimi vent’anni - anche rispetto a quella dei contenei europei, pur restando fortemente determinata dal livello di istruzione. Tra i laureati la quota di soddisfatti è passata dal 57% nel 2001 al 78% nel 2023, mentre tra chi ha solo il diploma è cresciuta dal 42 al 62%.
Qualche proposta di policy
Per questi motivi, rappresentativi del problema seppur non esaustivi, appare necessario rimodellare l’attuale panorama di ingresso nel mondo del lavoro affinché i giovani abbiano l’opportunità di fare esperienze adeguate alla loro educazione, in ottica di crescita professionale nel proprio ambito. La gavetta deve quindi diventare qualificata attraverso la revisione del modo di utilizzo dei tirocini e delle attività che vengono svolte all’interno di questa cornice.
Imitando anche i modelli di alcuni paesi europei, va incentivata la creazione di percorsi di ingresso basati su competenze misurabili, con il riconoscimento formale delle esperienze acquisite, anche attraverso micro-certificazioni o crediti formativi. Ad esempio, in Austria, alla fine del periodo di apprendistato, è previsto un esame finale pratico e teorico (Lehrabschlussprüfung, LAP) che ha lo scopo di verificare che le competenze previste siano state effettivamente acquisite. Nel 2013 inoltre è stata inoltre lanciata un'iniziativa sulla gestione della qualità durante il periodo di apprendistato (Qualitätsmanagement Lehrlingsausbildung, QML) che definisce un set di indicatori che vengono verificati annualmente.
In Francia, invece, la legge del 2018 che riforma l’apprendistato ha assegnato a un nuovo organismo denominato France compétences le funzioni di raccolta dell’offerta educativa esistente e di aggiornamento della stessa per tenere conto delle innovazioni del sistema e dell’organizzazione del lavoro. Questa realtà è dotata di una specifica Commissione per la certificazione professionale composta in modo paritario da rappresentanti dell’Amministrazione centrale e delle Parti sociali.
Queste esperienze internazionali dimostrano che è possibile e auspicabile una maggior integrazione dell’apprendistato nei sistemi formativi, insieme alla presenza di specifici indicatori di qualità per monitorare la crescita dei lavoratori, nell’ottica di sostenere i giovani in un percorso verso la realizzazione e soddisfazione professionale, allontanandosi dalla soglia di povertà relativa.
La qualità della gavetta dipende infine dal contesto economico e contrattuale in cui si inserisce, e potrebbe dunque trarre benefici da un suo miglioramento. A questo proposito, la presenza di un salario minimo legale potrebbe garantire una soglia di dignità economica che unita a delle politiche attive che si focalizzino al lavoro giovanile ridarebbe valore alle prime esperienze professionali. In particolare, si afferma come prioritaria la necessità di soluzioni alla discrepanza tra le competenze possedute dal lavoratore e quelle richieste nel mercato del lavoro, sia in termini di sotto-qualificazione che di eccesso di titoli di studio. A questa si aggiungono la possibilità di percorsi di inserimento, tutoraggio e orientamento anche successivi all’inizio di un primo contratto.
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