Ė ormai chiaro come il conflitto russo-ucraino, che dura da oltre due anni e mezzo, e quello in Medio Oriente, in atto da quasi un anno, non siano scoppiati per caso: appaiono sempre più i frutti avvelenati del progressivo deterioramento delle relazioni internazionali in corso da almeno un ventennio. Il mondo, secondo l'ultima edizione del Global peace index, pubblicata nel giugno scorso, sta infatti attraversando il periodo più conflittuale dalla fine della Seconda Guerra mondiale, con 56 guerre in atto. Era quindi pressoché inevitabile che questa dilagante ostilità generalizzata producesse due effetti di enorme rilievo sul piano strategico-militare planetario:
- La rapida crescita dei livelli di armamenti e delle spese militari globali (2.443 miliardi di dollari nel 2023, +6,8% sull’anno precedente e + 49,8% rispetto al 2010).
- L’aumento, per la prima volta dopo 40 anni di costanti riduzioni - come testimoniano i dati del Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) -, del numero delle armi nucleari di pronto impiego, con 9.585 testate globalmente disponibili all’inizio del 2024 (+9 rispetto al 2023).
Ė soprattutto quest’ultimo aspetto, malgrado l’esiguità dell’incremento, a generare la massima inquietudine perché s’innesta sul diffuso timore suscitato dal progressivo abbandono o denuncia dei principali trattati di controllo e riduzione degli armamenti, in primis atomici, avviato da diversi anni da Russia e Stati Uniti. In quest’ottica spiccano la sospensione, dal febbraio 2023, dell’adesione di Mosca al trattato New Start (senza tuttavia abbandonarlo definitivamente), il quale dal 2010 fino al febbraio 2026 regola al livello più basso mai raggiunto dagli anni ’50 il numero delle armi nucleari strategiche russe e statunitensi. A ciò si aggiunge l’annuncio, nel luglio scorso, del dispiegamento – per ora solo in Germania, a partire dal 2026 – di missili da crociera americani Tomahawk e di nuove armi ipersoniche, che sono in fase di sviluppo e risultano «significativamente più potenti di quelle al momento posizionate nelle basi europee». A questa mossa, che riapre di fatto la corsa allo schieramento di missili intermedi (i cosiddetti “euromissili”) che funestò l’Europa negli anni ‘80 del secolo scorso, il Cremlino ha annunciato «una risposta militare … per parare la nuova minaccia», finora non meglio specificata.
L’accennata, progressiva denuncia dei trattati di disarmo e la corsa al riarmo atomico ha creato un clima di crescente permissività e laissez-faire in cui l’uso di un’arma atomica non è più relegato a un’ipotesi remota e disperata, di ultima istanza, ma è sempre più spesso considerato come un passo verosimile nell’evoluzione di un conflitto convenzionale, con i prevedibili effetti di un’escalation senza controllo, fino a uno scontro finale a livello planetario. Ė l’intero concetto di deterrenza nucleare, che da una settantina di anni sorregge le relazioni internazionali – pur con tutti i suoi limiti, essendo costruito di fatto sulla “distruzione reciproca assicurata” (Mad, nell’acronimo inglese), cioè sul cosiddetto “equilibrio del terrore” – che rischia di saltare, senza peraltro che si sia finora elaborato null’altro di più efficace in grado di sostituirlo. La deterrenza nucleare è infatti la capacità di ritorsione con armi atomiche strategiche contro un avversario che minacci o effettui un attacco agli interessi vitali di uno Stato, imponendo costi così elevati che supererebbero largamente qualsiasi potenziale guadagno da un uso preventivo della forza.
A dare impulso alla pericolosa spirale è stato il notevole aumento (fino a 500 testate, di cui 200 schierate in Europa), nell’arsenale atomico statunitense, delle armi low yield (a bassa potenza, tra 5 e 10 kilotoni, pari a 5-10 mila tonnellate di tritolo equivalenti: per dare un senso a questa unità di misura va ricordato che l’arma che distrusse Hiroshima aveva una potenza stimata in 15 kilotoni), fortemente volute dall’amministrazione Trump a partire dal 2017 e di fatto avallate da quella di Joe Biden, che pure aveva inizialmente osteggiato l’iniziativa.
Di cosa si tratta? Dell’idea che una parte dei vettori che normalmente portano armi atomiche strategiche (da 100 kilotoni a oltre un megatone, equivalente a un milione di tonnellate di tritolo), specie sottomarini, siano riarmati con testate tattiche, cioè di potenza ridotta. Ciò accresce l’incertezza di chi sta per essere colpito circa la reale pericolosità dell’attacco in arrivo e quindi, in teoria, crea indecisione sul tipo di risposta da adottare. Ciò, tuttavia, aumenta ancor più il rischio che la ritorsione all’attacco, nel dubbio, avvenga comunque con un’arma nucleare assai più potente, avviando così un’escalation con l’uso di armi strategiche che altrimenti non si sarebbe mai innescata.
In coerenza con questi sviluppi, la National Defense Strategy, adottata nell’ottobre 2022 dall’amministrazione Biden quasi certamente in seguito all’attacco russo all’Ucraina, ha previsto l’abbandono di uno dei caposaldi strategici statunitensi, la regola del “no first use” per l’arma atomica. Secondo questa revisione dottrinale, tale arma potrebbe essere usata per prima dagli Stati Uniti anche in "circostanze estreme", nel caso in cui la Russia o la Cina, pur non ricorrendo ad armamenti atomici ma solo a quelli convenzionali, biologici, chimici o ad attacchi cyber, ponessero gli Stati Uniti nel pericolo di essere rovinosamente sconfitti in un conflitto regionale o comunque circoscritto, ma tale da provocare danni strategici o politico-economici su scala assai più ampia.
Ma quant’è concreta la possibilità che gli Usa usino per primi un’arma atomica in un conflitto iniziato sul piano convenzionale? Per ora probabilmente è molto bassa, sia per il complesso sistema di “filtri” che adotta la Casa Bianca, in accordo con il Pentagono, circa l’opzione di ricorrere a questo tipo di armi, la cui decisione d’impiego non è mai decentralizzata a comandi locali, sia soprattutto per l’alta improbabilità che nel prossimo futuro gli Usa possano perdere in modo disastroso un conflitto localizzato. Il vero tarlo che corrode il delicato equilibrio del terrore è tuttavia l’idea stessa che il ricorso a un’arma tattica (del potenziale eguale o poco superiore alle armi low yield, ma sempre analogo a quello che distrusse Hiroshima) possa risolvere una situazione compromessa su un campo di battaglia convenzionale senza necessariamente implicare l’avvio di un’escalation fuori controllo, che si trasformi in ultima istanza nell’olocausto atomico generale.
L’aspetto politico più rilevante è comunque una sorta di concordanza bipartisan che negli Stati Uniti si è creata sul fatto che l’arsenale atomico attuale vada massicciamente rafforzato. La svolta è costituita dal varo nel 2009, all’inizio della presidenza Obama, di un piano trentennale per modernizzare tutte le testate Usa e i relativi sistemi di lancio, del costo stimato all’origine in 1.250/1.460 miliardi di dollari. Si tratta di un’iniziativa singolare per un capo di Stato che nello stesso anno fu insignito del premio Nobel per la pace e che si era fatto promotore degli ultimi accordi per la riduzione di questo tipo di armamenti (il già citato trattato New Start, firmato a Praga nell’aprile 2010) e che propugnava, benché in un orizzonte temporale assai remoto, un mondo finalmente libero da tali armi. L’iniziativa di Barak Obama è comunque diventata una pietra miliare per i suoi successori. Se Donald Trump ha aumentato del 50% gli stanziamenti in materia, l’attuale presidenza Biden ha assegnato 70 miliardi per l’anno fiscale 2025 (+22% sul 2023) al settore nucleare militare, cui occorre aggiungere la richiesta di altri 30 miliardi per i programmi di difesa missilistica, molti dei quali saranno destinati a sistemi d’arma allo studio per intercettare i missili a lungo raggio dotati di armi nucleari.
Un’idea – quella di un “ombrello” di missili anti-missile – che piace da sempre soprattutto al partito repubblicano, che con Ronald Reagan, nel 1984, lanciò il faraonico progetto della Strategic Defense Initiative, meglio nota in Italia come “Guerre Stellari”, del costo allora stimato di 44 miliardi di dollari, cancellato dopo un decennio perché rivelatosi di fatto inattuabile sul piano tecnico e un vero “buco nero” per i bilanci del Pentagono. Si tratta, tuttavia, di una scelta che mina alla base il già citato concetto di deterrenza nucleare, basato sul fatto che nessuna potenza che sferri il primo attacco sia immune dalla capacità di ritorsione dell’aggredito di lanciare un contrattacco che non possa essere respinto dall’assalitore. L’Ufficio del Bilancio del Congresso, per parte sua, ritiene che i programmi per le armi atomiche attualmente pianificati costeranno 750 miliardi di dollari nel prossimo decennio (2023-2032). Una stima che proietta il costo globale finale dell’intero piano Obama ben oltre i duemila miliardi di dollari.
Questo scenario potrebbe tuttavia rivelarsi addirittura minimalista se alla Casa Bianca tornasse Donald Trump. Nei mesi scorsi la Heritage Foundation, uno dei maggiori centri di ricerca della destra radicale americana, ha coordinato il lavoro di oltre un centinaio di think-tank conservatori che ha portato alla formulazione delle linee-guida di una nuova presidenza repubblicana condensate nel “Progetto 2025”, un vero e proprio programma di governo quadriennale composto di oltre 900 pagine che indica gli obiettivi da raggiungere per ogni dicastero. La parte militare, curata dall’ultimo ministro della Difesa di Trump, Christopher Miller, prevede di “espandere e modernizzare la forza nucleare degli Stati Uniti affinché abbia dimensioni, sofisticatezza e personalizzazione tali da scoraggiare simultaneamente Russia, Cina e Iran … comprese nuove capacità a livello di teatro (testate tattiche e low yield) per garantire che non vi siano circostanze in cui l'America sia esposta a una grave coercizione nucleare”.
Alcuni dei punti principali chiariscono bene gli obiettivi dei piani atomici militari del Partito repubblicano:
-Accelerare lo sviluppo e la produzione di ogni tipo di arma nucleare, dando priorità a questi programmi rispetto ad altri settori legati alla sicurezza.
-Potenziare i finanziamenti per lo sviluppo e la produzione di testate nucleari nuove e modernizzate.
-Aumentare il numero di armi nucleari oltre gli attuali limiti dei trattati e gli obiettivi del programma, tra cui l’acquisto di più missili balistici intercontinentali (ICBM) di quanto attualmente previsto (il progetto “Sentinel”, destinato a sostituire a breve i 400 vecchi vettori Minuteman III basati a terra, del costo stimato in 260 miliardi di dollari per l’intera vita operativa 2030-2075, contro i 96 inizialmente previsti); la costruzione di 12 sottomarini lanciamissili della nuova classe Columbia, del costo di 120/140 miliardi, mentre ogni esemplare dei nuovi 100/150 bombardieri nucleari/convenzionali B-21 Raider costerebbe 700 milioni.
-Aumentare la capacità di produrre testate della National Nuclear Security Administration, compresa una forte crescita degli stanziamenti a ciò dedicati.
-Allestire la ripresa della sperimentazione di nuove armi nucleari, anche se gli Stati Uniti hanno firmato il Trattato di messa al bando totale dei test atomici e non effettuano un’esplosione nucleare su larga scala dal 1992.
-Abbandonare gli attuali trattati sul controllo degli armamenti, giudicati “contrari all’obiettivo di rafforzare la deterrenza nucleare” e “prepararsi a competere al fine di garantire gli interessi degli Stati Uniti se gli sforzi di controllo degli armamenti continuasse a fallire”.
-Espandere e migliorare lo spiegamento di armi nucleari statunitensi nel mondo, anche pre-posizionando bombe e aerei in grado di trasportarle in Europa e in Asia. (Washington attualmente dispone di 100 testate in 5 basi europee della Nato).
L’aspetto più allarmante di questi piani è che anche le altre potenze nucleari hanno intrapreso progetti analoghi di riarmo atomico per non restare indietro rispetto alle iniziative statunitensi. La Russia, in particolare, ha avviato un piano decennale di ammodernamento del suo arsenale atomico militare (4.380 testate) e della triade di vettori di lancio (sottomarini, terrestri e aerei), simile a quello lanciato negli Usa da Barak Obama, che, secondo quanto annunciato dal presidente Putin nel febbraio 2024, sarebbe stato completato al 95%. In cosa sia realmente consistito tale ammodernamento – al di là del necessario aggiornamento periodico del materiale fissile di cui sono composte le testate – e quale sia stato il suo reale costo (da alcune fonti occidentali stimato in 35 miliardi di dollari circa) è poco chiaro. Soprattutto, non c’è evidenza che nel piano sia compreso lo sviluppo di armi che rasentano la fantascienza, come il velivolo ipersonico planare Avangard , di prossima adozione, montato su un missile intercontinentale che lo rende non intercettabile da alcun sistema di difesa aerea attualmente conosciuto; o come il missile da crociera a propulsione atomica Burevestnik e il siluro nucleare Poseidon, armato con una testata tra i 10 e i 100 megatoni (secondo diverse fonti) in grado di annientare intere metropoli costiere per un raggio di quasi 100 chilometri dal punto di esplosione. Queste due ultime armi, uniche nel loro genere in quanto mosse da motori atomici, avrebbero un’autonomia pressoché illimitata.
Ciò che genera maggiore inquietudine tra le mosse del Cremlino, oltre al recente schieramento di armi nucleari tattiche in Bielorussia, è tuttavia l’elaborazione di una nuova filosofia d’impiego del proprio arsenale atomico che, come nel caso americano, ne riduce la soglia d’impiego. Un primo passo è stata l’adozione (peraltro mai ufficializzata), durante lo scorso decennio, del principio dell’ “Escalate to de-escalate” – cioè l’intensificazione di un conflitto fino a un livello tale di violenza da indurre l’avversario a contenere le proprie operazioni militari – che prevedeva anche il ricorso ad armi atomiche tattiche (tipo quelle low-yield) per raggiungere il necessario livello di pressione in grado di ottenere la desistenza desiderata.
Un ulteriore passo, per ora solo annunciato, potrebbe essere vicino. Allo stato attuale, la dottrina nucleare della Russia, formulata nel giugno 2020, afferma infatti che il Paese si “riserva il diritto di usare armi nucleari in risposta all’uso di analoghe armi e di altri tipi di armamenti di distruzione di massa contro di essa e/o i suoi alleati, così come in caso di aggressione contro la Federazione russa mediante l’uso di armi convenzionali, quando l’esistenza stessa dello stato è minacciata”. Altre condizioni che potrebbero portare Mosca all’uso di armi nucleari sono “l’acquisizione d’informazioni affidabili sull’imminente lancio di missili balistici contro il territorio della Federazione e/o i suoi alleati”, così come “un attacco nemico a strutture statali o militari d’importanza critica”. Come non pensare, ad esempio, all’attacco a centrali elettro-nucleari civili come quella di Kursk, minacciata dalla recente incursione militare ucraina in territorio russo?
L’evoluzione del conflitto con l’Ucraina – con il continuo intensificarsi in qualità e numero degli aiuti militari occidentali a Kyiv e il loro impiego sempre più audace contro il territorio russo – sta comunque spingendo il Cremlino a studiare una riformulazione della propria dottrina strategica che induca i paesi della Nato a giudicare più credibili e stringenti le ripetute “linee rosse” poste dal Cremlino nel tentativo di limitare il loro sostegno all’Ucraina. Il vice ministro degli Esteri, Sergei Ryabkov, il 1° settembre scorso ha dichiarato che Mosca è in procinto di modificare la propria dottrina nucleare “a causa del coinvolgimento dell’Occidente nell’ “escalation” della guerra in Ucraina”. “C’è una chiara direzione per apportare aggiustamenti, che sono anche condizionati dallo studio e dall’analisi … dello sviluppo del conflitto negli ultimi anni, incluso ... tutto ciò che riguarda l’escalation dei nostri oppositori occidentali in relazione all’operazione militare speciale” (così Mosca definisce ufficialmente l’invasione dell’Ucraina). Facile ipotizzare che la nuova dottrina preveda un ulteriore abbassamento della soglia d’impiego dell’arma atomica, anche se non fino al punto da renderla troppo spendibile o quasi automatica.
In ogni caso la strada dell’inferno nucleare appare sempre più lastricata d’intenzioni bellicose. Oltre ai preoccupanti propositi di Usa e Russia, occorre infatti tener conto dell’intenzione della Cina di triplicare entro il 2035 le sue attuali 500 testate, unitamente allo sviluppo di una nuova generazione di missili intercontinentali JL3 montati su sottomarini atomici e di vettori basati a terra, di portata intermedia e lunga. Mentre la Francia fatica a mantenere il suo attuale arsenale di 290 testate per il costo sempre crescente dell’intero apparato (i 4 sottomarini atomici lanciamissili in primis), valutato in oltre 6 miliardi di euro l’anno, la Gran Bretagna ha deciso di aumentare da 180 a 260 le sue testate entro il prossimo biennio ed è alle prese con la sostituzione ormai imminente dei 4 sottomarini lanciamissili della classe Vanguard con altrettante unità della classe Dreadnought, che costeranno globalmente 31 miliardi di sterline. Anche il Pakistan e soprattutto l’India, (circa 170 armi ciascuno) stanno rafforzando i loro rispettivi apparati nucleari. Anche se soltanto l’India possiede un paio di sottomarini lanciamissili in grado d’imbarcare 4 vettori con una portata di 4mila chilometri circa. La Corea del Nord da tempo ha riavviato il proprio programma nucleare e missilistico, nella convinzione che avere un adeguato e moderno arsenale atomico (30/40 testate circa, di cui alcune termonucleari, e poche decine di missili intercontinentali in grado di colpire gli Stati Uniti) sia una polizza di assicurazione per la sopravvivenza dell’attuale regime al potere, retto dalla dinastia Kim. Resta invece incerto il continuo incremento qualitativo l’arsenale atomico di Israele, che non ha mai confermato ma neppure smentito di possederlo, attuando una deliberata “ambiguità strategica” che serve al paese per mantenere un livello di deterrenza nucleare con il minimo costo politico possibile. Il numero delle sue testate oscilla tra 90 e 200, secondo diverse stime, ed esse sono dislocate sia su aerei, sia su sottomarini (capacità di “secondo colpo”) sia, soprattutto, sui missili Jericho 3, della portata di 5/6.000 chilometri, mentre una versione totalmente intercontinentale (almeno 11.500 chilometri di raggio) è in avanzato sviluppo. Un cenno merita anche la controversa questione del possibile armamento atomico dell’Iran, che sembra ormai prossimo a dotarsi di 5-10 testate. Sulla falsa riga della linea politico-strategica adottata da Israele, Teheran avrebbe accumulato il materiale fissile necessario, scegliendo però, con tutta probabilità, di non assemblarlo in forma di armi vere proprie fino a quando un’impellente necessità strategica l’indurrà a farlo in tempi molto brevi. Cosa che causerebbe una reazione israeliana durissima, tale da portare il Medio Oriente e quindi il mondo oltre la soglia dell’olocausto nucleare.
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