C’è un traguardo che il mondo lo scorso anno ha tagliato in sordina, quasi si vergognasse di averlo raggiunto: quello dei duemila miliardi di dollari di spese militari. Saranno i calcoli di qualche contabile pignolo a rivelarci tra qualche mese la cifra esatta, ma i 1.981 miliardi di dollari raggiunti nel 2020 (ultimo anno per il quale sono disponibili cifre ufficiali), anche se si fosse mantenuto soltanto il tasso d’incremento del 2,3% registrato l’anno precedente, nel 2021 dovrebbero essere saliti a 2.030 miliardi.

È tuttavia possibile che il risultato sia stato anche superiore, considerata la “nuova Guerra Fredda” che si è instaurata tra Stati Uniti e alleati europei della Nato da un lato e Cina e Russia dall’altro: essa contribuisce in modo decisivo al generale rialzo della spesa bellica, allargando il riarmo al resto del mondo, America latina e Asia centrale per ora escluse.

Fonte: SIPRI

Analizzando i dati dei bilanci militari globali dell’ultimo trentennio raccolti dal Sipri (Stockholm International Peace Research Institute, il più autorevole ente indipendente internazionale di analisi militare), si può notare come il rilevante incremento seguito alla “crociata” planetaria contro il terrorismo (2002-2010), in cui è ricompresa gran parte dei costi delle invasioni statunitensi di Afghanistan e Iraq, valutati globalmente in 8.000 miliardi di dollari, ha portato il totale delle spese mondiali per armamenti da circa 1.100 a 1.800 miliardi.

La successiva stabilizzazione intorno a quota 1.700/1.750 è durata pochi anni (fino al 2017), poi è ripresa la salita agli attuali livelli a causa del riesplodere delle tensioni internazionali. E probabilmente il totale mondiale è destinato a gonfiarsi verso “quota tremila” entro la fine di questo decennio se la rinnovata contrapposizione Est-Ovest dovesse accentuarsi ulteriormente. 

Fonte: SIPRI

Non diversamente è andato il trend della produzione di armamenti - il vero termometro del riarmo generale - salita in valore dai 439 miliardi di dollari del 2011 ai 531 miliardi del 2020, con un aumento del 21%. Un altro segnale della globalizzazione tendenziale della fabbricazione di armamenti giunge dalla mappa dei costruttori: tra le prime 100 imprese operanti nel settore della difesa figurano 5 aziende cinesi (tutte fra le prime 20 e ben 3 fra le prime dieci), 5 giapponesi, 5 sud-coreane, 3 israeliane, 3 indiane e una turca.

Le esportazioni dei 10 maggiori paesi fabbricanti di armi nel periodo 2016-20 risultavano così distribuite: Usa 37%, Russia 20%, Francia 8,2%, Germania 5,5%, Cina, 5,2%, Regno Unito 3,3%, Spagna 3,2%, Israele 3%, Corea del Sud 2,7%, Italia 2,2%.

I maggiori paesi importatori sono stati invece Arabia Saudita (11%), India (9,5%), Egitto (5,8%), Australia (5,1%), Cina (4,7%), Corea del Sud (4,3%), Algeria (4,3%), Qatar (3,8%), Emirati Arabi Uniti (3%), Pakistan (2,7%). L’accresciuto ruolo del Medio Oriente è confermato dal confronto fra i due quinquenni: il 33% è stato acquistato nel periodo 2016-2020, contro il 26% nel precedente quinquennio 2011-2015.

È possibile spezzare la spirale nefasta?

Una cinquantina di premi Nobel e illustri scienziati nel dicembre 2021 ha provato a far sentire la propria voce (che ha prodotto un’eco piuttosto sommessa a livello internazionale, per la verità), firmando un appello rivolto a tutti i governi mondiali. In esso si chiede di creare un grande "dividendo globale per la pace", negoziando una riduzione equilibrata della spesa militare complessiva e mobilitando le risorse finanziarie così risparmiate per combattere le difficoltà più acute che affliggono l’umanità: squilibri ambientali e riscaldamento climatico, povertà estrema e ora una pandemia che appare sempre più difficile da contenere.

Secondo la proposta, i governi di tutti gli stati membri dell’Onu dovrebbero concordare per un quinquennio la riduzione comune del 2% annuo delle loro spese militari, trattenendo per i loro bilanci la metà delle risorse risparmiate e versando il resto in un fondo, sotto il controllo dell’Onu, destinato alle finalità predette.

Le buone intenzioni irrealizzate

L’iniziativa ovviamente appare ragionevole e opportuna, specie negli attuali frangenti pandemici, ma quasi certamente sarà destinata a essere presto archiviata nel grande libro delle buone intenzioni irrealizzate. Il perché è presto detto: un clima di generale sfiducia si è ormai sostituito alla speranza che la fine della prima Guerra Fredda, tra il 1990 e il 2008, aveva generato di una possibile pacificazione globale.

Durante quel ventennio la Cina era ancora un Paese in via di sviluppo (per quanto in fase di crescita tumultuosa) e senza ambizioni geopolitiche globali, mentre la Russia, ancora traumatizzata per la fine dell’Unione sovietica, guardava all’Occidente come a un credibile e affidabile partner politico-economico per ricostituire un’entità statuale solida e stabile, dopo la mutilazione di oltre il 20% della sua superficie e della metà dei suoi abitanti. Gli Stati Uniti, nel frattempo, progettavano invece di formalizzare la loro superiorità incontrastata instaurando una vera e propria egemonia planetaria: una “pax americana” destinata a regnare almeno per tutto il XXI secolo, attraverso la diffusione dei suoi strumenti d’azione elettivi - le democrazie liberali come forma di governo e il capitalismo come strumento di diffusione della ricchezza -, segnando una sorta di “fine della Storia” con il trionfo dei modelli occidentali di vita e gestione della società.

Nell’ultimo decennio si è tuttavia cancellata rapidamente ogni illusione irenistica fondata sull’egemonia statunitense. La realtà geopolitica internazionale è tornata a essere guidata dalla contrapposizione Est-Ovest, molto differente nella forma da quella che aveva dominato la seconda metà del secolo scorso (le ideologie che l’avevano animata sono di fatto sparite e gli eredi degli “imperi del male” - Russia e Cina -, per quanto visti come due facce della stessa medaglia autoritaria e anti-occidentale, non hanno ancora saldato in un’alleanza formale la loro crescente cooperazione politico-economica), ma nella sostanza forse ancor più profonda e preoccupante sotto l’aspetto geo-politico e strategico. Il perché è presto detto: la dissoluzione del mondo comunista ha indotto gli Stati Uniti (soprattutto durante le ultime presidenze repubblicane) a smantellare la rete di accordi internazionali che avevano contribuito a limitare prima e a ridurre poi i principali sistemi di armamenti che Washington e Mosca avevano ammassato nei rispettivi arsenali.

Trattati, accordi e arsenali nucleari 

I trattati contro le difese anti-missili (alla base della teoria della MAD, la mutua distruzione assicurata mediante le armi nucleari, su cui si è fondato il sistema di equilibri strategici globali durante la prima Guerra Fredda), contro la presenza di armi di distruzione di massa intermedie in Europa (INF), l’accordo sui cosiddetti “cieli aperti”, che consentiva ispezioni aeree reciproche tra Est e Ovest sui rispettivi territori per consolidare un clima di reciproca fiducia, sono stati tutti smantellati. Solo il trattato “New Start”, che nel 2010 ha stabilito la riduzione del 30% dei rispettivi arsenali nucleari, è stato prolungato per un quinquennio proprio alla vigilia della sua scadenza nel febbraio scorso, in attesa di trovare il modo di associarvi anche la Cina (che tuttavia da quest’orecchio non pare sentirci affatto, avendo di recente annunciato un programma di raddoppio del suo arsenale nucleare da 300 a 600 testate entro la fine del decennio)..

Fonte: Federation Of American Scientists

 

Il risultato di questa miope scelta è stato un messaggio preciso inviato al mondo: lo spirito di “coesistenza pacifica”, che nella seconda metà del secolo scorso ha consentito a sistemi antitetici di confrontarsi senza distruggersi, è sostanzialmente svanito. Gli Stati Uniti, attraverso l’attuale amministrazione Biden, si appellano alle ultime tracce di multilateralismo per salvare un minimo di convivenza e cooperazione internazionale. Ma resta purtroppo valido il messaggio inviato dalla presidenza Trump: gli accordi internazionali - specie quelli per limitare gli armamenti strategici - si fanno tra interlocutori di pari forze. Ogni segno di debolezza viene immediatamente sfruttato a spese del soccombente: se qualcuno resta indietro o mostra debolezza, peggio per lui.

Il passaggio da questo “liberi tutti” sulle armi nucleari a quello riguardante gli armamenti convenzionali è stato pressoché automatico. Aggiungiamo a questo elemento la formidabile crescita politico-economica cinese, che ha drenato crescenti risorse da destinare al riarmo in ogni settore, e la sorprendente ripresa geopolitica e (in parte) economica della Russia (seppur legata a filo doppio all’oscillante andamento dei corsi energetici, che rappresentano il 30% del Pil e il 50% delle entrate statali di Mosca), che ha varato grandi programmi di ammodernamento del proprio apparato bellico pur potendo contare su stanziamenti assai ridotti rispetto a Stati Uniti e Cina, ed ecco pronti gli ingredienti della pozione magica che ha dato vita alla generale ripresa della corsa agli armamenti.

Tra Usa e Cina metà della spesa bellica mondiale

I dati del Sipri ci dicono anche che Washington e Pechino da sole rappresentano oltre la metà della spesa bellica mondiale. E se il ruolo degli Usa resta dominante su scala globale (39% del totale lo scorso anno), è pur vero che la Cina sta marciando a tappe forzate per raggiungerli. La sua spesa militare è cresciuta costantemente nell’ultimo quarto di secolo e la somma stimata dal Sipri nel 2020 (252 miliardi di dollari) è pari a quella dei 4 Paesi che la seguono nella classifica (India, Russia, Gran Bretagna e Arabia Saudita).

Ma non basta: la ramificazione degli interessi economici delle Forze armate nell’intera società cinese fa sì che risultino contabilizzate a parte, come spese civili, ingenti somme utilizzate per ricerche scientifiche e produzioni di tipo duale (di uso misto civile e militare), che farebbero lievitare il totale, secondo diversi analisti, a una somma oscillante tra 300 e 350 miliardi di dollari.

L'Italia, con 28,9 miliardi di dollari, si conferma in undicesima posizione, davanti ad Australia e Canada.

Fonte: visualcapitalist.com

È però su altri due elementi che si fonda il timore di un inasprimento della corsa alle spese militari. Da un lato vi è - come si è poc’anzi accennato - il galoppare della spesa militare cinese, cresciuta del 76% nel decennio 2011-20: si tratta dell’incremento più forte registrato tra i 30 Paesi con i budget militari più elevati. A questo trend corrisponde il simmetrico calo di oltre il 10% registrato dagli Usa, grazie al forte taglio dei bilanci avvenuto durante le due presidenze di Barak Obama: si tratta della maggior riduzione mondiale dopo quella dell’Iran (-23%).

Spese militari Usa, in milioni di dollari
Spese militari Usa, in milioni di dollari
Fonte: tradingeconomics.com

Dall’altro lato, l’elemento che genera i timori più gravi nell’Occidente è costituito dalle stime di crescita economica della Banca Mondiale, secondo cui il divario tra il proprio blocco (Usa, resto della Nato, Giappone e altri paesi asiatici “amici”) e quello antagonista (Cina, Russia e Iran) è destinato a ridursi costantemente nell’attuale decennio.

Secondo uno studio della Rand Corporation (“The Future of Warfare in 2030”) (fig. 5.2, pag 59), nel 2030 la crescita economica degli Stati Uniti e dei loro alleati scenderà al 49% del totale mondiale, rispetto al 58% del 2017. Per contro, la Cina e i suoi sodali saliranno dal 18% al 29%: logico che questo progresso si traduca per essi in uno sprone ad accrescere le loro spese militari, vedendo sempre più a portata di mano l’obiettivo di eguagliare la forza dei rivali. Per contro, la perdita prevista per il blocco occidentale facilmente si risolverà in uno sforzo ulteriore per non perdere la passata supremazia.

Orizzonti di guerra

In entrambi i casi, gli arsenali dovrebbero quindi riempirsi ancora di più. E si sa che la tentazione di usare le armi ricorre soprattutto quando esse abbondano. Orizzonti di guerra si stagliano nel nostro futuro. Quindi, oggi più che mai, torna attuale il proposito di una canzone di oltre mezzo secolo fa, di cui i 50 premi Nobel di fatto si sono stati promotori: mettete dei fiori nei vostri cannoni.