Sergio Pininfarina era nato l'8 settembre 1926. È scomparso poco più di dieci anni fa, il 3 luglio 2012. Oggi, nella ricorrenza, viene ricordato all'Unione industriali di Torino, con una iniziativa voluta dal figlio Paolo, attuale presidente del Gruppo Pininfarina, che ha raccolto in un volume alcuni degli scritti più significativi del padre. Ingegnere meccanico, imprenditore, designer, cavaliere del Lavoro, presidente di Confindustria dal 1988 al 1992: Sergio Pininfarina venne eletto al Parlamento europeo - per due legislature, a partire dal 1979 - tra le fila del Partito liberale italiano (Pli), con spirito autentico di civil servant. Nel 2005 fu nominato senatore a vita (insieme a Giorgio Napolitano) dall'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. A seguire pubblichiamo un ampio stralcio dell'appassionato ricordo di Pininfarina politico a Bruxelles che Beppe Facchetti - attuale presidente del Centro Einaudi e che lo sostenne in quell'avventura riuscita - pronuncerà questa sera. (F.Ant.)

Sergio Pininfarina con i tre figli. Da sinistra, Andrea, Lorenza e Paolo

Se vogliamo individuare un atteggiamento che colga la sostanza del rapporto di Sergio Pininfarina con la politica, utilizzerei il termine rispetto. Innanzitutto, era un modo che apparteneva al suo carattere. Verso gli altri poteva essere diffidente, o meglio prudente, perché voleva sempre misurare bene chi aveva davanti. Ma il rispetto non mancava mai.

Rispetto è una parola importante, in politica. C’è un rapporto diretto tra il valore della politica e il comportamento nei suoi confronti. Oggi siamo ai minimi storici, ed è uno delle forme più acute della crisi. La democrazia si fonda su minimi denominatori che, se saltano, portano all’equivoco retorico dell’uno vale uno che mette tutti sullo stesso piano. Ne possono venire solo guai. Dunque, Sergio Pininfarina rispettava la politica, che vedeva da lontano e non apprezzava per le logiche complicate che la guidano. Ma cercava pazientemente di capirla.

Il filo del ricordo

Ricordo un episodio di una delle prime sere trascorse con lui nei corridoi del Parlamento Europeo. C’era un capannello di parlamentari italiani, c’erano Emilio Colombo e Giulio Andreotti. Lo chiamarono tra loro e si avvicinò con atteggiamento per l’appunto rispettoso. Li vedeva un po' come mostri sacri, cui si rivolse dando del lei, quasi in punta di piedi. Fu una delle prime volte in cui mi permisi di criticarlo: «Ingegnere, non deve fare così. A guardar bene, lei è più importante di loro. Anche lasciando stare il suo curriculum di imprenditore, ricordi di aver preso in proporzione più preferenze di loro». Volevo che capisse che in quel modo l’unità di misura cambiava. Altro che mostri sacri. E, in effetti, di preferenze Sergio Pininfarina ne aveva conquistate davvero tante. In un partito che era arrivato a 1,2 milioni di voti, da solo ne aveva conquistati più di 250 mila in una sola circoscrizione.

I valori

Quanto invece ai confini ideali della sua visione politica, erano segnati a destra da un calcio in bocca, così ricordava, ricevuto da un gerarca fascista, che lo aveva vaccinato per sempre, e a sinistra dalla constatazione pragmatica di quanto il comunismo fosse inadatto ad una società moderna, prima ancora che ad una società libera. Andammo insieme a Berlino per il Parlamento europeo, lo “costrinsi” a visitare Berlino Est e la sua desolazione lo confermò in questa convinzione. Andammo anche a Mosca per una preveggente Fiera delle auto di lusso, e gli fece pena constatare che i simboli del capitalismo piacessero tanto a quei visitatori estasiati, ridotti a smontare e rubacchiare accessori e catarifrangenti dalle Ferrari esposte.

Alla politica in prima persona arrivò quasi per caso, affascinato come tanti da un grande appuntamento ideale, le prime elezioni a suffragio diretto del Parlamento europeo. Una svolta storica, a cui volle partecipare, con la speranza che tutti avevamo: mettere direttamente in collegamento il popolo europeo con le istituzioni comunitarie. Avrebbe fatto la differenza, dando una bella spinta al federalismo.

Per un uomo, un industriale che aveva la testa nel mondo era quasi il minimo sindacale, un’occasione da non perdere.

Era l’altra parte bella del suo carattere: accettare le sfide anche sulla base di una convinzione emotiva, senza far troppi calcoli di convenienza. Si trattava, tra l’altro, di salire a bordo non di una dream car, ma su una utilitaria molto familiare, un piccolo partito, anzi il più piccolo, che quello stesso anno, poco prima, era stato ben sotto il 3% dei voti totali.

Politica e classe dirigente

Ma il Pli torinese era quello di tanti amici che appartenevano alla classe dirigente, alla sua cerchia di imprenditori, era quello che a partire proprio da quegli anni avrebbe influito in modo più che proporzionale sugli equilibri della città, fino a portare Valerio Zanone a sindaco. Era uno strumento agile, maneggevole, con cui trovare buona sintonia. Il partito, in quel 1979, era sopravvissuto alla stagione del compromesso storico opponendovisi senza ideologismi, e aveva saputo riscattare un’immagine netta, che altri, ad esempio i cugini repubblicani, avevano impegnato in un disegno poi sconfitto.

Mi occupai direttamente di quella candidatura, che era partire come per l’ignoto, con un collegio elettorale sterminato, che andava da Sanremo a Desenzano, da Aosta a La Spezia, con tre grandi capoluoghi, elettori abituati a candidati molto locali, perché allora si usava così, nessuno veniva paracadutato fuori casa. Sergio Pininfarina era conosciuto ovunque, è vero, tutti avevano idea di chi fosse e di quali fossero le sue qualità, ma questo poteva anche essere un limite, perché c’era il problema di far capire cosa potesse fare in Europa un carrozziere, un imprenditore bravo nel suo mestiere, ma forse inadatto ai grandi giochi della politica. Il Made in Italy non era ancora un valore così caratterizzante e trasversale.

Sergio Pininfarina industriale: in questo filmato del 2006 il racconto del suo rapporto con Enzo Ferrari

L'asse dell'attenzione

Il suo spin doctor prese pertanto la decisione chiave, quella di spostare l’asse dell’attenzione dal prestigio del nome – senza ovviamente sminuirlo – alla serietà dell’impegno sociale assunto come presidente degli industriali torinesi. Confindustria cominciava a godere i vantaggi della democratizzazione interna, di una maggiore apertura alla società che era uscita dalla riforma nata nelle stanze del Centro Einaudi. Andò bene. Riuscimmo a far capire che l’esperienza associativa era fondamentale per completare il profilo di un perfetto rappresentante degli interessi italiani in Europa.

Pininfarina era uscito dalla fabbrica, si era messo direttamente nel bel mezzo dei conflitti sociali, e quali conflitti, perché nel 1979 tutto ribolliva in Italia e specialmente a Torino. Nel 1978 c’era stato l’omicidio di Aldo Moro, nel 1980 sarebbe arrivata la Marcia dei 40 mila.

Occorreva visione, capacità di rappresentanza, autorevolezza nelle relazioni, e avere molto coraggio, quello che non tutta la classe dirigente, anche a Torino, mostrava di avere. Spesso era forte il sentimento di solitudine, l’istinto di riflettere prima di reagire. Come quella sera, eravamo ancora in tempi di terrorismo, in cui all’auto blindata di Pininfarina arrivarono tre scariche di fucile. Un attentato? Un avvertimento? Il Prefetto mi chiese di non dare notizia del fatto, per non innescare fenomeni emulativi, e dovetti fare il giro delle chiese giornalistiche di Torino per riuscire nell’intento. Alla Gazzetta del Popolo parlai con Ezio Mauro, che non cancellò la notizia, ma la nascose bene.

Insomma, fu complessivamente una esperienza forte, aspra, sempre in allerta, non una semplice rappresentanza, e dunque una grande scuola di esperienza politica. Fino all’autunno del 1980, con la Marcia dei 40mila. Tutti ricordano il vigoroso e intelligente lavoro di Cesare Romiti, Cesare Annibaldi e Carlo Callieri, ma non è altrettanto noto lo sforzo, totalmente politico, che facemmo a tavolino, tra le quinte di Via Fanti (sede dell'Unione Industriale di Torino), per allacciare un rapporto di solidarietà con le varie categorie economiche torinesi, in un momento cruciale di isolamento dell’industria. Fu uno snodo decisivo e strategico, non meno di quello gestito dal leader dei quadri, Arisio. Fiat teneva duro, sotto la guida dei manager, con la famiglia defilata, ma la città era ferma, pagavano il conto categorie come il commercio e l’artigianato che avevano i cassetti vuoti.

Guai se l’industria fosse rimasta sola, e facemmo con Pininfarina una fatica immensa per raccordare le associazioni, per rianimare rapporti tesi, per preparare il clima dei cancelli da riaprire.

Politica, politica pura. Non, dunque, il carrozziere ammirato in tutto il mondo, ma il punto di riferimento di uno sforzo collettivo, per far emergere l’Italia migliore e non farla travolgere dal clima plumbeo del terrorismo e della lotta di classe nella sua forma più primitiva, ottocentesca, con degenerazioni accettate da una opinione pubblica e una classe dirigente anche culturale molto rassegnate, quando non addirittura complice.

Nel 1979, partecipando a quelle elezioni, c’erano state tante avvisaglie e si era già capito che quella di Pininfarina non sarebbe stata una presidenza vetrina, ma di sostanza appunto politica.

Questo, fin da quando Sergio Pininfarina – da tempo ai vertici associativi per dovere di rappresentanza ma lontano dall’idea di diversi mettere personalmente tanto in gioco – aveva dovuto accettare di risolvere con il proprio nome quella che, nel 1977, fu una vera crisi interna al sistema associativo torinese. Era emersa una frattura inedita perché non più sotterranea tra il massimo socio di riferimento Fiat e la miriade dei piccoli e medi imprenditori riuniti in associazione in quella Torino ancora molto monoculturale.

Il gruppo Giovani e la Piccola Industria, utilizzando il potere statutario reso disponibile dalla citata riforma Pirelli, si ergevano a protagonisti della vita associativa e delle sue dinamiche di ricambio (si era all’indomani della rottura tra Carlo De Benedetti e la Famiglia Agnelli) e le presidenze di via Fanti diventavamo contendibili. Un fenomeno simile e opposto a quello che si sarebbe manifestato decenni dopo con lo strappo di Sergio Marchionne, in un contesto molto cambiato, al culmine di un processo di trasformazione industriale che avrebbe trasformato la città e la sua proposta anche culturale, di cui le olimpiadi invernali sarebbero diventate la consacrazione, per l’ennesima volta nella sua storia secolare.

Sergio Pininfarina era il presidente del comitato dei saggi e pensava di essere sostanzialmente e non solo statutariamente fuori dal “pericolo” di essere indicato come presidente.

 

Le vicende associative degli industriali

Si trattò di una complessa vicenda interna, che vide testimone involontario più che protagonista lo stesso avvocato Agnelli. Produsse un impasse sulla candidatura gradita al socio maggiore, e toccò proprio al Presidente dei saggi, spogliarsi da questa carica e assumere con unanime consenso quella di presidente dell’associazione. Da una vicenda concitata e da una crisi interna iniziò cosi un quadriennio di grande prestigio, e fu una grande fortuna per tutti – la città, l’economia, lo stesso sindacato – che a rappresentare l’industria ci fosse una guida autorevole e forte.

Era l’epoca della grande crisi della città paralizzata dallo sciopero nel 1980, la montagna di licenziamenti e di messa in cassa integrazione, Berlinguer che sembrava incoraggiare l’occupazione della fabbrica – e che fabbrica – ai cancelli di Mirafiori. Via Fanti era un presidio, un punto di riferimento. La mattina, non potendo entrare fisicamente in ufficio alla Fiat, Cesare Romiti era ospite al secondo piano di un ufficio a fianco del mio, e il clima non era davvero il migliore.

Il contesto

Incombeva il terrorismo, all’interno dei reparti di Mirafiori si celavano cellule incontrollabili, una sorta di Comune tardo ottocentesca aveva costruito una sorta di mondo autoreferenziale dal quale lo stesso potentissimo sindacato era sostanzialmente escluso. Pci e terrorismo, pur appartenendo allo stesso album di famiglia, non si capivano e avrebbero finito. con merito storico del partito – per essere antagonisti. Ci fu un grande travaglio nell’opinione pubblica, presa tra paure profonde, connivenze, ma soprattutto molta rassegnazione. Torino, la sera era deserta, spoglia, spettrale. Fino alla marcia del 1980, che si concluse a ombrellate sotto la pioggia contro capi sindacali di grande prestigio (in campo c’erano personaggi come Lama, Carniti, Benvenuto) e una rapida firma serale a Roma, con un Governo che non aveva saputo gestire una situazione totalmente affidata alle pulsioni dei protagonisti sulla piazza.

È a cavallo di questi avvenimenti che Sergio Pininfarina diventa deputato europeo, al termine di una campagna elettorale che gestimmo in modo inedito, allora si diceva all’americana, perché inedite erano le dimensioni della platea elettorale. Non c’erano i social ma cominciavano ad emergere le TV locali e le radio, che sfruttammo al massimo, ma prevaleva il contatto diretto, personale. Andammo ovunque, persino a casa di Claudia Cardinale a Roma, perché lei ci aveva chiesto di poter dare una mano a Pininfarina con un suo intervento fianco a fianco. Associazioni, Rotary, golf club, sezioni di partito, interviste a raffica.

Dopo la prima fase, cose diventate abbastanza facili perché il candidato si cominciò a divertire e uscì – nel rapporto con la giovane pattuglia che lavorava per lui, arricchita fin sa subito dalla presenza della figlia Lorenza, il lato più giocoso, più sportivo, non saprei meglio dire, del suo carattere e della sua umanità. Fino al comizio finale al Teatro Alfieri di Torino, affiancato da Valerio Zanone e Renato Altissimo. Fu lì che percepimmo che sarebbe stato un trionfo, segnato dalla pioggia di preferenza che la sera delle elezioni sentimmo tintinnare dalle telefonate di mezza Italia.

L'esito delle urne

Trascinò all’insù il piccolo PLI, primo assoluto seguito da Enzo Bettiza, un grande intellettuale, un giornalista e scrittore di grande valore, con cui avremmo poi riempito di cultura e immaginazione le serate di Bruxelles e Strasburgo. A Trieste, Manlio Cecovini – un antesignano della politica dei territori, delle autonomie, della Lega non c’era ancora traccia – completò la vittoria, con un terzo seggio. In parallelo, il successo nelle file del PRI di Susanna Agnelli e Jas Gawronsky avrebbero messo insieme il più bel drappello di laici italiani nel primo parlamento europeo eletto. Quattro anni dopo la lista sarebbe stata unitaria tra i due partiti, il punto più alto di collaborazione attiva tra i fratelli coltelli del liberalismo nazionale.

Pininfarina avrebbe vinto ancora, sarebbe tornata l’onda lunga delle preferenze a centinaia di migliaia, fino alla rinuncia solo degli ultimi giorni della legislatura perché nel frattempo designato a diventare presidente di Confindustria nel 1988. In mezzo, una difficile ma sempre entusiasmante attività parlamentare, pur alle prese con i limiti di un Parlamento diverso da tutti quelli della storia, ancorchè eletto direttamente.

Ma la stagione di Pininfarina fu particolarmente fortunata, perché per una irripetibile congiunzione astrale, la politica europea liberale di cui era entrato a far parte arrivò ad un certo punto ad essere un monocolore giallo e blu. Appena arrivati a Strasburgo, in quell’estate del 1979, contribuimmo all’elezione di Simone Veil a presidente del Parlamento, ma presidente della Commissione era già il liberale lussemburghese Gaston Thorn, e infine il tris fu completato quando Giscard d’Estaing, eletto presidente della Repubblica in Francia, arrivò a presiedere per turno il Consiglio d’Europa. Segretario generale del Parlamento fu designato un altro liberale, Enrico Vinci, un messinese allievo di Gaetano Martino.

Il Gruppo era presieduto da un tedesco deciso ed irruente, Bangheman, che assicurava l’indirizzo politico dei liberali europei con l’autorevolezza di un partito, quello della Germania, che aveva fatto un pezzo importante della politica europea sulla strada dell’ostpolitik e, in quel momento ancora lontana, dell’unificazione. A Torino, dopo qualche anno, si tenne una solenne riunione plenaria del gruppo liberale europeo, presieduta sempre da Simone Veil, che fu tra gli eventi politici più importanti di quell’epoca, totalmente organizzato da noi con il concorso dell’Unione Industriale.

Una legislatura impegnativa

In Parlamento, Pininfarina si occupò soprattutto di armonizzazione delle politiche sociali. Da imprenditore vedeva le differenze che ancora oggi penalizzano il nostro Paese su temi determinanti delle relazioni sindacali e sociali, e preparò con accuratezza una risoluzione che fu poi approvata in una sessione molto animata di quella prima legislatura.

Effetti concreti nell’immediato pochi ma un primo passo sulla strada che in Italia sarebbe arrivata ad una visione europea solo molto più tardi, con le politiche attive del lavoro, l’allentamento delle rigidità classiste che ancora in quel momento ci caratterizzavano.

Al tempo stesso -  rivendico il merito di averlo spinto in questa direzione . fu uno dei più assidui e autorevoli membri del cosiddetto Club del Coccodrillo, che si riuniva in un omonimo ristorante alsaziano per stomaci forti, in cui Altiero Spinelli – ancora lui, l’uomo di Ventotene, che privilegio averlo conosciuto – raccoglieva ogni mese gli alfieri del federalismo europeo, che Pininfarina imparò quindi a coltivare, e trasferire con intensità nelle sue attività di rappresentanza industriale in Italia.

Una grande scuola

La triangolazione Torino-Bruxelles-Strasburgo, con continui spostamenti, non fu certo una passeggiata, solo alleggerita da mitiche conversazioni con grandi personaggi come Marco Pannella o Otto d’Asburgo, l’ultimo discendente, miniera di storia e di vita. Ma non bastava. Pininfarina andò anche a Whashington per la delegazione del Parlamento incaricata dai rapporti con il Congresso Usa, e in quella occasione avvenne anche un fatto molto significativo.

Eravamo alla Camera dei rappresentanti, nei grandi corridoi di quel Palazzo di intonazione classica italiana, quando ci raggiunse un messaggero che chiedeva a Pininfarina di accettare un appuntamento con James Becker, in quel momento come capo del dipartimento di stato, ministro degli esteri di Bush senior, uno dei più potenti politici del mondo. Voleva avere un colloquio con lui, che durò anche più di un’ora, Ebbene, a noi che non partecipammo al faccia a faccia - restava la curiosità di capire se anche Baker era stato attratto dal grande designer, dal grande carrozziere, oppure dal politico. Da quello che capimmo, l’incontro era andato sui grandi temi della politica e dell’economia internazionale.

Ebbi in quel momento la prova finale che l’operazione della trasformazione dell’industriale in politico era davvero riuscita.

A lui, che nei ristoranti di New York, quando prenotavamo una cena, veniva subito riconosciuto anche senza ricorrere allo spelling anche se aveva un cognome un po' complicato, piaceva di più essere noto per la sua vera natura, quella di figlio di Pinin e continuatore di una firma industriale, ma chi lo accompagnava non poteva che dire, come dissi tra me,  missione compiuta.

[...]

Certo, Sergio Pininfarina è stato un interprete autorevole ella lunga stagione italiana del cambiamento, e questo gli offre un posto nella Repubblica, ma lasciate a chi ha lavorato con lui il piacere di ricordare soprattutto l’uomo.

Perché chi è vicino a questi protagonisti coglie alla fine soprattutto le cose decisive. E quelle di Pininfarina, con l’attaccamento profondo alla moglie Giorgia e ai figli, e ad Andrea che ci ha lasciato così tragicamente, sono i valori che restano, come il suo sorriso sempre pronto, la sua battuta spiritosa che era sempre un incoraggiamento affettuoso, la sua citazione in dialetto torinese, mai troppo scontata.

Insomma, l’uomo, prima di tutto.