“Che solenne sciocchezza è dire che la storia non si scrive con i ‘se’. La storia si deve scrivere con i se, altrimenti tutto sarebbe governato dalle leggi della meccanica”. Ragiona ad alta voce, Claudio Martelli, in un incontro a margine del suo ultimo libro di memoria politica e umana, Ricordati di vivere (Bompiani 2013, 604 pp.). Ragiona su due livelli: quello metodologico, per il quale la memoria è sempre sollecitata dall’interrogativo, dal dubbio, dalla curiosità; e quello politico, di un socialista libertario che ha sempre vissuto con allergia e repulsione la visione storicistica dei comunisti per la quale esiste un moto incessante che governa gli eventi e gli uomini, al quale, in fondo, è inutile ribellarsi. “Perché è andata così? Non poteva andare in altri modi?”, sembra essere l’interrogativo perpetuo con il quale Martelli conduce il filo del ricordo e della ragione lungo l’arco di trent’anni di storia italiana.
1. “Da un po’ avevo ripreso a pensare al tema del dolore, rileggendo Epicuro, Milton, Goethe, ma anche studi e analisi, come quelli di Foucault e di Laing, dedicati al mondo dell’emarginazione”. Basta aprirlo in un punto a caso, Ricordati di vivere, per cogliere la differenza abissale, innanzitutto di preparazione e di cultura, che corre tra la classe politica di allora e quella di oggi, erede delle macerie del ’92-’93. “Nella fine della seconda Repubblica non vedo l’elemento di tragedia, che fu invece il tratto distintivo della fine della prima”, riflette Martelli in un colloquio di cui è protagonista a Cortina, a Una Montagna di Libri, con lo storico Giovanni Orsina. Il quale, significativamente, si chiude con il trauma di Tangentopoli, il naufragio del PSI, preceduto, a livello personale, da una lunga rottura con un Bettino Craxi reso “irriconoscibile” dalle delusioni e dalle ferite. Quando Martelli, allora ministro della Giustizia, disse: “adesso il compito più urgente è restituire l’onore ai socialisti” (settembre 1992) e venne investito dalle polemiche e dagli insulti: traditore, ipocrita, Giuda, e così via.
Tra le tante ragioni per le quali “Ricordati di vivere” è una lettura proficua c’è proprio la possibilità di trovarvi la versione dei fatti, narrata senza fare sconti alle proprie indecisioni, di un protagonista di quell’epoca. Una lezione umana, umanissima sulle delusioni della politica e sulle regole che presiedono all’ambizione. Perché il “delfino” Martelli diede l’impressione, nel crepuscolo della prima Repubblica, di porsi in modo ambiguo rispetto al “capo” che pure lo aveva sostenuto in tutti quegli anni? “La verità è che volevo spingere in una certa direzione, volevo metterci in condizione di reagire [alle inchieste e alle rivelazioni di stampa, ndr], ma, nonostante tutto, non volevo rompere con Craxi e aggravare la crisi, dividendo il partito”, ammette lucidamente Martelli. “Con Craxi ho avuto un dibattito continuo, per certi versi ci dialogo ancora. Mentre da Berlusconi, a cui pure riconosco la straordinaria capacità di conquistare maggioranze amplissime, non ho imparato nulla. Perché Berlusconi sa vincere, ma non sa governare. Anzi, governare non gli interessa, perché non gli interessa la politica stessa”.
2. Un confronto amaro, quello dell’Italia di oggi con gli anni Ottanta. Alla presidenza del Consiglio Craxi assiste alla crescita del Pil italiano con cifre successivamente ineguagliate, e alla consacrazione della posizione del Paese come quinta potenza industriale del mondo. Intanto, nel Partito Socialista un giovane politico lombardo cerca di convogliare in una sinistra innamorata della modernità i nuovi ceti del “terzo settore” - scandagliato dalle prime ricerche di Giuseppe De Rita sui distretti industriali, sul “piccolo è bello”, sul Made in Italy, poi tradottesi in leggi con Roberto Cassola -, riconoscendo il rischio dell’abbraccio mortale della destra populista e del liberismo esasperato e distruttivo. E questo mentre l’ambiente, la lotta alla mafia, la riforma della giustizia, l’immigrazione entrano nell’agenda politica.
Autore della prima, discussa legge sull’immigrazione del 1990, Claudio Martelli difende a oltre vent’anni di distanza la propria iniziativa, che abolì la riserva geografica alla concessione dell’asilo politico, fino ad allora riservato ai profughi dell’Est europeo, estendendone la possibilità a tutti coloro che, come scritto nella nostra Costituzione, fuggivano da Paesi nei quali erano negati i diritti umani. Fu sempre Martelli, con Margherita Boniver, ad accantonare lo ius sanguinis e ad affermare definitivamente il principio dello ius soli nella nuova legge sulla cittadinanza del ‘92, ora concessa a chi avesse risieduto in Italia per dieci anni. Un criterio, ricorda, ben diverso da quello tuttora vigente negli Stati Uniti, dove la cittadinanza va a chiunque sia nato sul territorio americano, in ossequio alla necessità “di distinguere i nativi, born in the US, dagli immigrati. E’ questo che vogliono i loro ignari imitatori italiani?” si chiede Martelli, che a proposito della legislazione statunitense osserva che “una riforma dopo tante proposte e tanti rinvii sembra imminente”.
Fu Martelli, infine, a chiamare il magistrato Giovanni Falcone alla direzione degli affari penali, l’incarico più importante del ministero della giustizia, e a scontrarsi con la scelta di esponenti delle istituzioni di togliere il carcere duro previsto dall’articolo 41bis a oltre quattrocento boss di mafia. Una triste verità, che nel ’92-’93 si liquidassero politicamente uomini dello Stato che venivano additati come i responsabili della malagiustizia, mentre insieme erano autori delle scelte talvolta più dure verso la criminalità organizzata.
3. Chiude il libro un ricordo struggente e introspettivo di Bettino Craxi. Tutto quello che seguì - l’annessione faziosa della memoria di Falcone e Borsellino a una parte politica piuttosto che a un’altra, la storia degli anni successivi, la diaspora del socialismo italiano - si pone fuori dal libro. In un’altra epoca. Mentre le simpatie del politico di oggi, le speranze riformiste, vanno più decisamente verso Matteo Renzi, “sempre - dichiara Martelli - che non venga risucchiato dal suo stesso partito, un partito che difficilmente va oltre un quarto delle preferenze. La partita con il Pd Renzi l’ha già vinta, ora deve catturare quel 25% di italiani che lo separano dalla maggioranza assoluta”.
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