Dall’approvazione della legge costituzionale “Citizens United” del 2010, l’afflusso del “big money” in politica è diventata una pratica consistente e molto diffusa, con evidenti rischi per la democrazia statunitense

Citizens United e la competizione elettorale negli Stati Uniti

Sei anni fa, la Corte Suprema emetteva un verdetto che da allora pesa come un macigno sul sistema elettorale americano e sulla credibilità della democrazia degli Stati Uniti. Con quella decisione, passata alla storia come Citizens United vs Federal Election Commission, la Corte spianava la strada all’ingresso nelle campagne elettorali di spese illimitate da parte di grandi aziende e dei maggiori sindacati. Il giudice Anthony Kennedy, il cui voto a favore è stato decisivo, assicurava che l’apertura di un tale capitolo di spese elettorali non avrebbe favorito la corruzione in quanto le entità interessate sarebbero rimaste indipendenti e avrebbero agito in modo trasparente nei confronti degli elettori. Mai prima d’oggi il verbo della Corte Suprema ha avuto conseguenze più disastrose. I cosiddetti PAC (Political Action Commitees) hanno drammaticamente trasgredito alle condizioni imposte dalla Corte agendo in stretta intesa con i candidati in corsa per ricoprire incarichi federali.

Oggi, ogni candidato presidenziale ha a sua disposizione i finanziamenti di almeno un super-PAC, con l’unica eccezione del miliardario Donald Trump e del sorprendente aspirante democratico Bernie Sanders. Una delle ironie della campagna in atto è anzi che il repubblicano Ted Cruz, vincitore nell’Iowa, pur incassando assegni milionari dai suoi finanziatori, ha attaccato quelli che definisce “mega donatori” repubblicani responsabili, a suo dire, di aver deformato le primarie presidenziali. Se il 45enne senatore repubblicano del Texas giocasse a carte scoperte, gli elettori americani saprebbero che nel corso dell’ultimo anno, Cruz ha ricevuto 36 milioni di dollari da quattro ultra miliardari. Essi sono il proprietario di un “hedge fund” di New York, Robert Mercer, due industriali texani del gas naturale, Farris e Dan Wilks, ed il partner di un fondo “private equity”, Toby Neugebauer. I super PAC creati da questi plutocrati coordinano i loro finanziamenti sotto l’egida di un entità denominata Keep The Promise.

Le grandi “corporations” poi sono sempre presenti all’appello dei candidati in lizza. Scorrendo l’elenco dei loro contributi, si scopre che la Honeywell ha donato finora un milione e mezzo di dollari, seguita dalla Lockheed Martin con un milione trecentomila e via via la AT&T, la Northrop Grumman e, a sorpresa, la National Beer Wholesalers Association, seguita dall’associazione dei banchieri. Per non parlare dei donatori privati, tra i quali spicca Sheldon Adelson, proprietario di grandi casinos a Las Vegas e Macao, nume tutelare di Israele e forte sostenitore dei candidati repubblicani, per i quali è stato il maggior donatore assoluto nel 2012.

La corsa al forziere dei finanziamenti di Adelson è uno “show secondario” ma quanto mai interessante. Al momento è in testa Marco Rubio, l’ambizioso senatore cubano-americano della Florida, che ha fatto di tutto per conquistarsi le simpatie di Adelson proponendo una legge contenente il divieto dei giochi d’azzardo su Internet ed altri provvedimenti a beneficio dello stato ebraico. Ed infine, i Democratici dovranno fare i conti con Americans for Prosperity, la casa madre dei finanziamenti elettorali di Charles e David Koch, che secondo fonti autorevoli progettano di spendere 900 milioni di dollari per l’elezione del candidato presidenziale repubblicano e la conferma della maggioranza repubblicana al Senato. L’afflusso del “big money” in politica comporta ormai cifre da capogiro ma i “megadonors” come Adelson e i fratelli Koch hanno molta carne al fuoco, dall’abolizione o riduzione delle tasse di successione a pesanti restrizioni del potere dei sindacati. La loro agenda politica è presto detta: una politica di sicurezza di marca fortemente conservatrice, con possibili interventi nel Medio Oriente per la lotta contro l’islamismo radicale.

Le regola disattesa della disclosure

Per tornare alle disgraziate conseguenze di Citizens United, a cominciare dalla nascita dei PAC che hanno completamente stravolto la competizione elettorale negli Stati Uniti, quello che più offende è il fatto che vengano ignorate le norme che impongono “coordinamento e divulgazione (disclosure)”. È ormai un fenomeno accertato e incontrovertibile che i PAC ed altri gruppi di supporto elettorale agiscono a stretto contatto con i candidati federali in violazione della legge. Valga un esempio: l’ex governatore della Florida Jeb Bush, l’ex governatore dell’Ohio John Krasich e l’ex amministratore delegato della Hewlett Packard Carly Fiorina sono apparsi in molteplici video prodotti dai super PAC che sostengono le loro candidature. Quando è stato obiettato loro che ciò violava la clausola del “non coordinamento”, i loro avvocati hanno risposto che i video in questione potevano essere usati legalmente perché prodotti prima che gli aspiranti in questione avessero annunciato ufficialmente le loro candidature. Espedienti e falsificazioni di questo genere ormai abbondano e sventano ogni tentativo di imporre limiti ai finanziamenti dei candidati in lizza per la Presidenza e il Congresso.

Tra le più sfacciate violazioni della norma del “non coordinamento” va segnalata l’attività dei “big donors” di Hillary Clinton. Uno dei suoi PAC, sotto il nome di Correct the Record, fornisce risultati di ricerche e altre comunicazioni direttamente all’organizzazione elettorale dell’ex Segretario di Stato. Il PAC afferma che non si da luogo a violazioni della legge in quanto il materiale viene usato per la pubblicità televisiva e radiofonica e non per comunicazioni alla stampa o al pubblico via Internet. Un esponente del Campaign Legal Center ha denunciato il fatto come una “erronea interpretazione” della legge sostenendo che “ogni centesimo speso da Correct the Record costituisce una spesa coordinata illegale”. Gli enti federali investiti della responsabilità di regolamentare non hanno però dato corso alle denunce di violazioni commesse dalle organizzazioni elettorali di Hillary Clinton e del Senatore Rubio. Quest’ultimo ha ricevuto quasi dieci milioni di dollari dai un gruppo di finanziatori associati nel Conservative Solutions Project. Un’altra pesante ironia è che questo gruppo è registrato come entità che svolge una missione di “benessere sociale” che gli consente di mantenere anonima l’identità dei suoi donatori. In pratica, secondo le proteste dei suoi critici, evaderebbe il codice tributario.

Gli oppositori di Citizens United non hanno ricevuto l’appoggio che speravano dall’ente regolatore, la FEC (Federal Election Commission), paralizzata dallo scontro interno tra membri democratici, favorevoli ad una rigorosa applicazione delle norme, e quelli repubblicani, da sempre contrari alla regolamentazione. Né la situazione appare promettente al Congresso, dominato dai Repubblicani che si oppongono a più stretti controlli sulle finanze elettorali. Quanto alla Corte Suprema, vale quanto detto di recente dal Giudice Antonin Scalia, secondo il quale “se il sistema appare folle, non si può darne la colpa alla Corte”. In altre parole, se la legge non piace, gli elettori possono sempre eleggere membri del Congresso disposti a modificarla. Va preso atto comunque di un leggero pentimento del Giudice Kennedy, il quale ha ammesso che le cose non sono andate nel verso voluto. In un discorso nella sua università, Harvard, il Giudice Kennedy ha riconosciuto che la norma secondo cui “la divulgazione mette l’elettorato in grado di raggiungere decisioni in base alle informazioni disponibili e di valutare nel modo appropriato i diversi candidati e i loro messaggi” non funziona come dovrebbe.

Big money e PAC: una minaccia alla democrazia?

La battaglia per eliminare l’applicazione delle norme introdotte dalla sentenza Citizens United non poteva che intensificarsi ora che, nella nuova annata elettorale, i finanziamenti di “big money” si stanno moltiplicando. Si calcola che i PAC e gruppi simili abbiano finora speso in pubblicità televisiva e inserzioni quattro volte l’ammontare investito dalle organizzazioni elettorali dei vari candidati. In particolare, lo scontro infuria sulla definizione del candidato repubblicano Mitt Romney, perdente nel 2012, secondo cui: “Corporations are people” (le aziende sono come le persone). Al che Barack Obama trovò facile rispondere: “People are people” (la persone sono persone). L’opposizione è principalmente rivolta alla pretesa delle “corporations” di beneficiare del diritto di libera di espressione, sancito dal Primo Emendamento della Costituzione americana. Alcuni gruppi di opposizione non si limitano a negare un simile diritto ma vanno oltre, fino a proporre uno specifico divieto costituzionale. Alla base di questo movimento è la famosa enunciazione del Giudice Stevens all’inizio del secolo: “il denaro è una proprietà; non è espressione”. È un argomento che trova ampi consensi nell’opinione pubblica e incontra vasta rispondenza nella “rivoluzione politica” di Bernie Sanders contro il dominio della plutocrazia – leggi banche e Wall Street - nella politica nazionale. Ed ancora, incalzano i critici di Citizens United, il Primo Emendamento non concede all’uso del denaro la stessa misura di protezione che riserva alla propagazione delle idee nell’interesse pubblico.

In conclusione, lasciando da parte la soverchia influenza degli interessi corporativi sul processo elettorale, va segnalato l’aspetto fondamentale, il modo in cui Citizens United rende possibile l’esercizio da parte di quegli interessi di enormi pressioni sulle autorità federali e statali. Resistere a tali pressioni espone gli uomini di governo a campagne ostili, sorrette da forti finanziamenti e anonimi donatori. In ultima analisi, la potenza economica moltiplica la potenza politica. La maggioranza degli Americani interpellati in un’inchiesta della Pew Research si è detta convinta che Citizens United abbia influenzato negativamente il processo elettorale nel 2012 e continui a farlo nel 2016. Un fatto è certo, che l’incapacità di agire degli enti regolatori e degli organi del Congresso, cui spetta il dovere di evitare che il denaro in politica corrompa la democrazia, non promette le correzioni legislative necessarie per scongiurare che il potere politico passi sempre più nelle mani di pochi a scapito di una più ampia partecipazione dei cittadini. Il sospetto che la Corte Suprema agisca in base ad una sua agenda politica, avallato dalla controversa decisione che suggellò l’elezione di George W. Bush nel 2000, sembra destinato ad approfondirsi, con un’ulteriore perdita di rispetto per l’alta Corte costituzionale.