La massima “take care of freedom and truth will take care of itself” è forse la chiave dell’intera opera del filosofo Americano Richard Rorty. Una volta accettata questa premessa, è possible cogliere meglio il profilo liberale del suo pensiero.
1. Che cosa significa dire che viene prima la libertà della verità? Significa gettare alle spalle l’intera impresa filosofica come condotta da Platone in poi. Secondo il pensatore greco, il miglior sovrano sarebbe il filosofo re. Partendo dalla verità, il re filosofo può governare con efficacia ed equanimità, producendo bellezza. Va da sé che questa idea è incompatibile con la forma presa dalla libertà in epoca moderna, ossia quella democratica. La democrazia come praticata oggi altro non è che un metodo con cui conoscere l’orientamento della maggioranza. Opinione, doxa, non verità. È dunque la democrazia inevitabilmente vittima della doxa e quindi in preda alle passioni irriflesse di un elettorato manipolabile? Non necessariamente. Qui entriamo nell’antica diatriba fra retori e filosofi ma ne usciamo subito, perché Rorty non si pone neppure per un attimo la questione della verità. Dà per scontato che non esista, se non in forma irriducibile e plurima.
Partendo programmaticamente dall’inesistenza di un dio creatore, e quindi di una verità assoluta quale che sia (anche fosse solo il surrogato fornito dalla filosofia), Rorty si pone unicamente il problema di come governare l’incertezza generata dal fiorire delle opinioni più diverse. La democrazia può soccombere al prevalere delle passioni (non c’è davvero nulla che possa impedirlo) o può cercare di fondarla su valori condivisi che possano fungere da minimo comune denominatore. Un cattolico praticante, un ateo, un mormone, possono comunque coabitare, se evitano di mettere in campo la verità che ognuna di queste posizioni religiose postula come assoluta. Come ebbe a dire Thomas Jefferson, “it does me no injury for my neighbor to say there are 20 gods, or no god. It neither picks my pocket nor breaks my leg.” Partendo da Jefferson, Rorty tratteggia una società fondata sulla condivisione dei valori politici sanciti dalla costituzione. Questi valori non sono veri (se li ritenesse tali incorrerebbe in una contraddizione performativa), ma vengono rispettati per comune convenienza. Un giorno (triste) potrebbero anche essere superati, e non c’è nulla che possa impedirlo. Per dirla con il Conrad di Heart of Darkness, “we live in the flicker.” Non vi è certezza alcuna di alcunché. È questa la condizione umana: che uno creda in venti dei, in un dio, o in nessun dio. Tanto vale prenderne atto ed edificare sull’incertezza.
2. Conseguenze. La prima conseguenza pratica di questa presa di posizione è che tutto quello che conosciamo e che possiamo conoscere è linguaggio. Chi pretenda di sapere con certezza che cosa vi sia al di là del linguaggio è in errore. (La matematica come la geometria non sono che linguaggi codificati, come ogni altra cosa). Ma come è possibile fondare tutto sul solo esercizio del linguaggio? A priori? A posteriori? La risposta di Rorty, che si avvale della tradizione pragmatista americana, è nel processo, ossia in fieri. Postulare a priori un principio equivale a contraddire la premessa. Se una cosa è conoscibile come vera in sé, e non è più il frutto di una contingenza ripetibile, allora tutto il castello cade e bisogna abbandonare le democrazia e ritornare alla corte del filosofo re. L’alternativa all’assolutismo di questo tipo di sovranità è la soluzione elaborata dalla cultura anglo-scozzese nel diciassettesimo secolo, l’empirismo. Si raccoglieranno dati, e alla fine emergeranno regolarità capaci di descrivere non solo i fenomeni da cui derivano i dati ma tutti i fenomeni dello stesso tipo. Per emergere la monarchia costituzionale inglese si giovò di questo stile logico, che in effetti può essere agevolmente ridotto ad una tattica contingente (come peraltro è il caso di tutti gli stili della logica formale).
Come ha ampiamente dimostrato il secondo positivismo, l’accumulo di dati non porta a nulla se non è mosso da una ipotesi di lavoro intuitiva. Il pragmatismo americano altro non è che una versione di questa posizione filosofica fiorita a cavallo fra otto e novecento. Prima si formula una ipotesi, e poi, e solo poi, si raccolgono i dati per suffragarla. Si arriverà dunque a una verifica empirica che porti alla certezza della generalizzazione. Sì, ma solo to the best of our knowledge, e per il tempo che dura il consenso della comunità di riferimento demandata a verificare i risultati. Ampliando questo processo alla democrazia politica si può dire che una cosa è vera finché c’è consenso sulla sua veridicità. Quindi in democrazia è fondamentale il metodo con cui perseguire un consenso. Ecco quindi spiegato il “take care of freedom and truth will take care of itself.” Basta difendere il processo di conoscenza per difendere il prodotto di questo processo, perché non vi è nulla fuori di esso. Ogni conoscenza non è mai certa, ma sempre in fieri e relativa al processo.
3. La libertà propria è sempre relativa a quella dell’altro. In un sistema politico fondato sulla formazione discorsiva del consenso, la libertà sarà sempre e prima di tutto la libertà dell’altro, ossi la libertà che l’altro sia in dissenso da noi. È proprio questo libero esprimersi del dissenso che alla fine di un processo dialettico corrobora il sistema. Il dubbio non va solo coltivato metodicamente, ma va incoraggiato per giungere a migliori e più calzanti mediazioni. Pena l’inaridimento della democrazia in un vuoto rituale dove partecipano alla formazione del consenso solo quelli che si trovano già in accordo. Un sistema fondato sulla libertà come il sistema politico della democrazia liberale deve provvedere innanzitutto alla difesa delle minoranze, che non solo deve tutelare ma rendere parte del gioco. Sopprimere la voce dei dissenzienti non solo non è liberale, ma non è neppure una buona idea. Si rischia di minare le fondamenta stesse dell’edificio. È per questo che Rorty inserisce il suo pensiero nel filone liberal del liberalismo, ossia il filone che porta ad ampliare i confini della cittadinanza fino a includere tutti. A patto che tutti poi condividano il minimo comune denominatore fornito dalla costituzione. È da questa prospettiva che Rorty si oppone ai pensatori radical. La verità in democrazia è sempre relativa a una opinione. Spingersi troppo a sinistra o a destra porta alla polarizzazione della società, e la polarizzazione è una disfunzione in democrazia. Essa non produce consenso, ma solo antinomie.
Ed eccoci quindi al presente. Oggi la società americana è polarizzata tanto quanto quelle europee. Un vero dramma, che potrebbe avere conseguenze nefaste su di un sistema che per secoli aveva costituito l’eccezione alla norma europea del conflitto come tipo ideale della politica.