Era tempo di risparmiare, adesso di rompere il salvadanaio

Affermava Theodore Fontane, scrittore tedesco del XIX secolo, che “Una giusta economia non dimentica mai che non sempre si può risparmiare: chi vuole risparmiare sempre è perduto, anche moralmente.i Il risparmio, d’altra parte, è il principale presidio finanziario contro gli incerti della vita delle famiglie. Infatti, proteggersi dagli imprevisti, è la prima ragione indicata dagli italiani come ragione del loro risparmio (43 per cento), distaccando di gran lunga la necessità di acquistare o rimodernare la casa (23 per cento) o di farsi una seconda pensione (11 per cento). Queste percentuali sono tratte dall’edizione del 2019 della survey annuale sul risparmio e le scelte finanziarie degli italiani, che il Centro Einaudi realizza con Banca Intesasanpaolo sulla base di interviste a un campione rappresentativo a cura della Doxa. La crisi economica indotta dal Coronavirus è uno di quegli eventi per i quali rompere il porcellino dei risparmi non solo è legittimo, è necessario.

Si aprono però tre problemi. Di quanto denaro avremo bisogno di qui fino alla fine del bisestile 2020? Dove lo troveremo? Chi e come penserà a coloro che per soddisfare le necessità della vita non avranno abbastanza mezzi (ossia coloro che non hanno un salvadanaio pieno)?

 

Quanto denaro cercare nel salvadanaio?

Per fortuna, appiattendosi la curva dei contagi, le congetture sulla durata della fermata obbligatoria delle attività economiche incominciano ad essere meno aleatorie. Nel nostro calcolo abbiamo immaginato un ritorno progressivo alla normalità dall’ultima settimana di aprile a metà giugno. Abbiamo provato a mettere nel modello Centro Einaudi dell’economia italiana le variazioni negative della domanda finale, settore per settore, secondo il grado di impatto della crisi sui diversi settori. Il risultato è un calo dei consumi di 54 miliardi e una riduzione di domanda complessiva (che comprende anche investimenti ed esportazioni e che corrisponde a fatturati non realizzati delle imprese finali) di 105 miliardi. I fatturati totali mancanti all’intera economia comprendono però anche le perdite di attività lungo la filiera, che possono essere stimate attraverso una tabella delle transazioni intersettoriali. Per questo, i fatturati complessivamente perduti dal sistema produttivo, distributivo e dei servizi saranno, a fine 2020, approssimativamente 189 miliardi. Il calo dei consumi cumulato (54 miliardi), è rappresentato nella tabella 1, articolato per i settori di impatto.

Tabella 1 – Riduzione dei consumi privati a causa del Coronavirus in Italia. Dati mensili trimestrali in milioni di euro nel 2020 e totale annuale. Stime Centro Einaudi.

 

 

I trimestre

II trimestre

III trimestre

IV trimestre

2020

abitazione

-1.153

-2.548

-671

-134

-4.505

alimenti bevande

922

2.038

536

107

3.604

trasporti

-2.912

-7.792

-4.743

-339

-15.787

altri beni e serv, ass., servizi fin

-1.268

-2.803

-738

-148

-4.956

ristoranti alberghi bar

-1.747

-4.675

-2.846

-203

-9.472

cultura divertimento spettacoli

-1.820

-4.870

-2.965

-212

-9.867

salute

180

399

94

21

695

abbigliamento

-1.556

-3.440

-1.629

-181

-6.807

mobili articoli casa

-1.844

-4.077

-1.073

-215

-7.209

comunicazioni

58

127

34

7

225

bevande alcooliche e tabacchi

-58

-127

-34

-7

-225

istruzione

0

0

0

0

0

Tutti i settori

-11.199

-27.769

-14.033

-1.303

-54.303

 

Vuoto di domanda -105 miliardi, fatturati totali -189 miliardi, Pil -5,1%. Vuoto di reddito 48 miliardi. Vuoto fiscale diretto 42

La conseguenza di questo vuoto di domanda finale (105 miliardi) e complessiva (189 miliardi) sarà una contrazione del Pil (stimata) di 91 miliardi, pari al -5,1 per cento in ragione di anno. Si tratta di somme su cui più studiosi incominciano a concordare, per dimensionare l’entità dell’intervento necessarioii. Per sua natura il Pil assomiglia molto al Reddito nazionale. Vi si sovrappone quasi, se si considerano in più i redditi prodotti dagli italiani all’estero e rimessi in Italia e si considerano in meno i redditi prodotti dagli stranieri in Italia e rimessi all’estero. Nel caso italiano, un vuoto di Pil di 91 miliardi dovrebbe corrispondere a un vuoto di reddito di circa 90 miliardi. Di questi, dato l’impatto della tassazione, circa 42 mancheranno alle casse dello Stato, sotto forma di vuoto fiscale. I residui 48 miliardi mancheranno ai redditi delle famiglie.

 

Il salvadanaio delle famiglie, e le famiglie senza salvadanaio

Partiamo dal vuoto di reddito delle famiglie, per cercare di rispondere alla seconda domanda. 48 miliardi sarebbero ben sostenibili dal porcellino delle famiglie italiane, in termini complessivi. Se ragionassimo sulle cifre medie (i dati sono ancora dell’indagine Centro Einaudi-Banca Intesasanpaolo-Doxa 2019). La famiglia tipo ha una ricchezza reale (immobiliare) media di 169 mila euro e una ricchezza mobiliare (non tutta liquida e forse difficile da liquidare senza perdite in questo momento) di 101 mila euro. Se si considerassero le grandezze medie, i 48 miliardi di euro corrisponderebbero solo al 2 per cento della ricchezza finanziaria. La perdita di valore della ricchezza finanziaria per effetto del calo dei corsi di obbligazioni e azioni, per ora non congetturabile a fino 2020, probabilmente sarà superiore a questa grandezza. In ogni caso, il punto è che né la ricchezza né i redditi sono equidistribuiti, come è normale in una società liberale, fluida e competitiva. Per questo, diverse famiglie potrebbero non farcela. Quante potrebbero essere? E quanto potrebbe mancare al loro porcellino-salvadanaio? La stessa indagine esplora questo aspetto attraverso due domande: “quanto sareste preoccupati in caso di una prolungata assenza di lavoro e reddito?” e “come affrontereste una spesa improvvisa dell’ordine di 5.000 euro?” Singolarmente, ma non casualmente, le risposte sono allineate. Il 21,6 per cento dei capi famiglia nel 2019 dichiarava che sarebbe stato fortemente preoccupato di un calo prolungato di reddito, e il 22 per cento non avrebbe avuto una riserva di 5.000 euro per la spesa improvvisa, per la quale sarebbe ricorso ad aiuti di familiari o alla sua banca. Pertanto, possiamo stimare che circa un quinto delle famiglie italiane si trovano senza un salvadanaio sufficiente e la somma che loro servirebbe e che probabilmente non hanno è approssimabile da un quinto del vuoto di reddito: ossia 9,8 miliardiiii. Questa è la somma che lo Stato dovrebbe considerare di spendere per non lasciare senza beni e servizi essenziali le famiglie con un salvadanaio inadeguato alla situazione, sempre nell’ipotesi che, alla riapertura, tutti ritrovino il loro posto di lavoro e il loro reddito, cosa che è vera solo in prima approssimazione.

 

Il salvadanaio dello Stato

Il vuoto di bilancio pubblico parte dai 42 miliardi di mancato gettito, collegati al vuoto di reddito prima stimato, che però dovrebbero essere incrementati da numerose voci: per esempio dai 9,8 miliardi di spese compensative del reddito alle famiglie senza risparmi, appena calcolate, più le spese sanitarie e di protezione civile affrontate nel 2020, che per il momento sono stimate in 1,15 miliardi (ma si tratta di una previsione probabilmente destinata ad essere superata), più le spese per il mantenimento funzionante del complesso produttivo. Si tratta di alcuni investimenti diretti (si pensi alla nazionalizzazione di Alitalia), più le somme per potenziare il fondo centrale di garanzia: quest’ultimo stanziamento è previsto di 1 miliardo, ma anche considerando una expected loss di appena il 5%, con un miliardo si possono garantire prestiti per appena 20 miliardi. E’ circa un quarto di quello che ci aspettiamo possa servire per garantire i prestiti necessari a tutto il sistema economico, che, ricordiamo, a fine anno avrà perso un fatturato complessivo di 189 miliardi, larga parte del quale serve a coprire costi fissi, che non si contrarranno. Tirando le somme, il vuoto fiscale economico dovrebbe essere dell’ordine di 56-60 miliardi. Se questa è la somma che lo Stato dovrebbe mettere in ammortamento, se avesse una contabilità economica, come spesa straordinaria per affrontare il Coronavirus, il relativo fabbisogno finanziario è maggiore ed è pari ad almeno il doppio, perché la tesoreria dovrebbe avere da un lato una disponibilità immediata (entro fine maggio) degli importi, in modo da erogarli tempestivamente nello stesso trimestre in cui si forma il vuoto, mentre i residui normali incassi fiscali e contribuitivi che sono già stati messi in attesa, tarderanno. Quindi, tra il finanziamento del vuoto fiscale economico e il finanziamento del capitale circolante dello Stato, ossia il finanziamento delle dilazioni fiscali concesse, è stimato un maggiore fabbisogno di cassa nel 2020 di circa 120 miliardi di euro, la metà dei quali però potrebbero essere riassorbiti nei prossimi due anni, con la normalizzazione delle scadenze fiscali.

Lo Stato non ha però il salvadanaio pieno, bensì vuoto, anzi negativo. Il deficit, infatti, è un risparmio negativo e il debito accumulato, fino al 134% del Pil, altro non è che la somma dei risparmi negativi accumulatisi negli anni, con gli interessi. Quindi, per far fronte a un fabbisogno di emergenza di 120 miliardi, il Tesoro dovrà attingere al salvadanaio altrui. Ma, a quale salvadanaio? O, a quali?

 

L’ipotesi impossibile di una manovra aggiuntiva

Consideriamo subito fuori di luogo l’ipotesi di ricorrere ai salvadanai degli italiani, prelevando più imposte o una imposta straordinaria. In questo momento, con consumi in calo di 105 miliardi e fatturati spariti per 189 non si possono togliere soldi dalle tasche, semmai occorre metterne, poiché la crisi ne ha già sottratti e se si realizzasse una manovra fiscale restrittiva ci sarebbe un impatto aggiuntivo recessivo sul Pil. La recessione tecnica congiunturale diventerebbe strutturale, con perdita definitiva di posti di lavoro e ricerca di un equilibrio a un più basso livello di attività e di domanda. Questo scenario è da evitare.

 

I limiti del risparmio nazionale privato

Per prossimità e per appartenenza, l’Italia ha già avanzato l’ipotesi di un prestito internazionale di una o più istituzioni dell’Unione europea. Perché non ha pensato a un prestito nazionale? In realtà perché difficilmente il mercato finanziario domestico potrebbe assorbire 120 miliardi di obbligazioni aggiuntive, in una volta sola, di qui a maggio o giugno, per il semplice fatto che il risparmio netto nazionale annuale è di 53 miliardi (dati 2017, nel 2019 potrebbe essere stato un po’ più alto). Inoltre, liquidare asset che sono scesi di prezzo non è facile, e infine per convincere la liquidità dei conti correnti (circa 1.500 miliardi) a investirsi in titoli di Stato bisognerebbe fornire ai sottoscrittori un ottimo premio di rendimentoiv, che però farebbe salire il rendimento e il costo del debito pubblico anche su tutto lo stock già emesso. Un solo punto in più di interesse costa 21 miliardi di euro in più all’anno, a regimev. Ecco la ragione pratica, del tutto condivisibile, per riferirsi all’Europa, con una trattativa in stallo sull’importo (solo 37 miliardi sarebbero erogabili con una condizionalità ridotta), sulla condizionalità e sulla garanzia solidalevi.

 

Il mercato finanziario internazionale

Se la trattativa andasse male, non rimarrebbe che affidarsi al mercato finanziario internazionale e, per abbassare l’interesse e non fare salire lo spread, si dovrebbe garantire a questa emissione speciale sia una esenzione dalla tassazione presente e futura, sia una garanzia aggiuntiva, come un pegno sull’oro nazionale. Chi sarebbero i potenziali sottoscrittori? Come si vede dalla tabella 2, ahimè l’Italia non è più tra i primi paesi del mondo per risparmio netto; con i suoi 53 miliardi dollari annuali, è appena al 26° posto e in questo frangente potrebbe dunque avere bisogno di collocare il prestito sul mercato internazionale, particolarmente ai paesi con più risparmio. Per fortuna, i precedenti 25 paesi sommano un risparmio annuale di 6.500 miliardi di dollari, ragione per la quale il prestito-Italia non dovrebbe, se adeguatamente strutturato, incontrare difficoltà ad essere assorbito. Come si vede dalla Tabella 2, il principale paese potenzialmente candidabile alla sottoscrizione potrebbe essere la Cina e, a seguire, gli Stati Uniti, l’India e la Germania.

 

Tabella 2 - Risparmio netto in USD dei primi 26 paesi, World Bank.

 

 

2017

Risparmio netto

1

China

$ 2'765'131'239'640

2

United States

$ 581'490'156'850

3

India

$ 479'703'133'074

4

Germany

$ 394'700'928'332

5

Japan

$ 264'486'788'183

6

Korea, Rep.

$ 259'720'567'492

7

Russian Federation

$ 212'571'784'076

8

France

$ 126'714'769'750

9

Indonesia

$ 126'580'659'460

10

Netherlands

$ 121'858'977'983

11

Saudi Arabia

$ 120'734'864'586

12

Singapore

$ 108'706'332'442

13

Philippines

$ 108'548'905'245

14

Switzerland

$ 83'533'650'198

15

Turkey

$ 80'156'689'094

16

Spain

$ 74'198'720'878

17

Mexico

$ 68'486'579'135

18

Sweden

$ 68'031'922'540

19

Bangladesh

$ 66'359'961'751

20

Norway

$ 63'856'183'744

21

Thailand

$ 61'672'299'750

22

Australia

$ 58'868'099'056

23

Qatar

$ 56'772'880'762

24

Brazil

$ 56'768'190'960

25

Canada

$ 56'583'721'920

26

Italy

$ 53'357'384'300

 

Fino a questo punto abbiamo considerato i soli “salvadanai tradizionali”, ossia quelli che sono o potrebbero essere disponibili secondo le condizioni economiche e all’interno del framework legale ad ora stabilito.

 

Il salvadanaio della Bce

Tuttavia, le cornici legislative non sono immutabili e proprio nei momenti di crisi si hanno delle discontinuità che possono provocarne il cambiamento. La resistenza dei paesi nord-europei a un prestito all’Italia con caratteristiche di solidarietà risiedono proprio nella cornice legale attuale, che però è stata realizzata in un periodo normale per i periodi normali, quale quello attuale non è.

 

I salvadanai non convenzionali sono almeno due.

Il primo è la Bce. In due forme. Una è già operativa ed è il QE, o Quantitative Easing. La Bce non può presentarsi alle aste delle emissioni dei nuovi titoli di Stato, ma può comprarli dopo l’emissione, creando parallelamente nuova moneta da zero, e ha rimosso il vincolo di acquisto dei titoli governativi in proporzione delle quote di partecipazione nella banca. Di fatto, il rendimento del bund decennale è già negativo (-0,45%) e schiacciare ulteriormente il rendimento sarebbe privo di senso. Il QE che acquistasse i Btp aggiuntivi potrebbe tradursi in una monetizzazione del debito pubblico già creato, se la Bce si impegnasse a rinnovare sempre i titoli acquistati, magari restituendo le cedole. Una operatività di questo genere sarebbe ai limiti degli attuali poteri della Bce, ma il rinnovo senza termine dei titoli è già stato anticipato una volta da Mario Draghi: c’è un precedente.

La seconda forma di intervento – per la quale si dovrebbe aggiornare il framework legale - è la “moneta dall’elicottero”, ossia la creazione di moneta, non più in contropartita di obbligazioni, ma da distribuire gratuitamente ai contribuenti europei. Con la “moneta dall’elicotterovii”, la Bce immetterebbe nell’economia reale direttamente la moneta creata da zero, indirizzandola a famiglie, imprese e autorità governative, fino a che la domanda aggregata effettiva non ritorni al livello precedente. All’interno del framework legale corrente, questo potrebbe avvenire attraverso la mediazione di una agenzia europea, le cui obbligazioni ad hoc venissero acquistate dall’Eurotower e successivamente monetizzate con lo stesso meccanismo descritto prima. La creazione di helicopter money potrebbe pertanto andare ben oltre le necessità dell’emissione di 120 miliardi di euro a ristoro del fabbisogno straordinario di cassa dell’Italia, perché lo scopo ultimo è rialzare la domanda aggregata di tutta l’Europa. Il limite della helicopter money è solo quello della capacità produttiva o dell’aumento dell’inflazione generale oltre il target del 2 per cento, ma siamo fiduciosi che tale limite non sarà incontrato, nelle attuali condizioniviii, molto presto, vista la fermata della produzione e l’ampia capacità produttiva da saturare. Quando il limite arrivasse, sarebbe poi del tutto facile per la Bce sia ridurre la liquidità rivendendo i titoli del QE, sia rialzare i tassi di interesse.

 

I salvadanai dei paradisi fiscali

Il secondo salvadanaio non convenzionale è quello dei paradisi fiscali. Covid-19 è una malattia pandemica. Sta attraversando tutti i paesi del globo, mettendo sotto stress le finanze di tutti. Per contro, i centri finanziari prosperano, nonostante tutto. I centri offshore ospitano circa il 26 per cento della ricchezza mondiale, per oltre 30 mila miliardi di dollari. Sono definiti centri offshore i paesi che danno ospitalità a depositi di moneta e asset di non residenti, normalmente con una legislazione che consente ai non residenti sia uno schermo personale, sia sull’origine delle somme, sia uno schermo fiscale. Larga parte dei capitali offshore ha eluso il proprio sistema fiscale, o peggio. Tra i primi 8 centri offshoreix censiti dal Fondo Monetario Internazionale ci sono sia il Lussemburgo che l’Olanda, due paesi europei e l’ultimo, una specie di paradiso delle holding, si è opposto, per ora, a una soluzione favorevole all’Italia sulla questione del finanziamento per il Coronavirus. E’ però oggi difficilmente sostenibile e perfino poco morale che vi possano essere paesi in difficoltà ad affrontare le crisi economica del Covid-19 e centri offshore che continuano a prosperare ospitando capitali che non si sono originati localmente, da dove sono stati attratti grazie alla legislazione fiscale, magari proprio dai paesi che non riescono ad affrontare la spesa pubblica necessaria nell’emergenza. E’ logico che nessun paese possa aumentare le tasse sui propri contribuenti in questo delicato momento. Sarebbe controproducente. Ma allora è anche tempo che si pensi a una tassazione dei capitali parcheggiati offshore. Servirebbe un atto di coraggio e un preciso indirizzo politico all’interno della comunità internazionale. E’ certo che non si potrà agire rapidamente, dovendo allineare la comunità internazionale, ma non c’è momento più propizio della crisi da Coronavirus per impostare la soluzione definitiva di un cruccio dei governi. Da tempo l’Ocse raccomanda il contrasto dei paradisi fiscali, ma nonostante i successi sulla carta, la loro crescita non si arresta. Oltre a tutto, le attività nei centri offshore vedono in prima linea gli stessi istituti finanziari, come HSBC, che operano sulle primarie piazze finanziarie visibilix. I paesi Ocse dovrebbero accordarsi per stabilire una tassa comune annuale, patrimoniale, dell’ordine dell’1 per cento, su tutte le masse offshore. Poiché non si possono imporre tasse in giurisdizioni altrui, si dovrebbe stabilire una sorta di prelievo internazionale in capo allo Stato ospitante il singolo centro offshore. Lo Stato-offshore farebbe da tramite e da sostituto di imposta rispetto alle proprie banche, fondi, holding e trust. C’è la possibilità, ovviamente, che lo Stato-offshore non voglia adottare l’imposta e non versi volontariamente il prelievo. In questo caso, i paesi partecipanti potrebbero ritirare le licenze bancarie alle loro società finanziarie con branch o società controllate o collegate nei paesi offshore. Inoltre, le istituzioni finanziarie locali dei paesi inadempienti sarebbero escluse dai mercati finanziari internazionali telematici, dal mercato dei cambi (forex), dal mercato interbancario e da tutti i mercati accessibili con piattaforme telematiche. Una sorta di embargo elettronico, che farebbe tornare all’età della pietra la finanza offshore impedendole di operare a favore dei suoi clienti e costringerebbe le banche internazionali a sbarazzarsene. Il prelievo che fosse invece effettuato con successo confluirebbe in un organismo internazionale (come l’Ocse), che lo gestirebbe e distribuirebbe secondo un proprio regolamento, secondo l’ordine di priorità delle emergenze nei paesi partecipanti. “Una giusta economia non dimentica mai che non sempre si può risparmiare”.

di Giuseppe Russo. Photo by Michael Longmire  on Unsplash
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i https://it.wikiquote.org/wiki/Theodor_Fontane

ii http://www.laportadivetro.org/conoscere-per-ragionare-e-poi-decidere/

iii Ovviamente, questa somma è una somma di emergenza per le famiglie che, possedendo un reddito prima della crisi, si troverebbero in difficoltà durante. A questa somma di emergenza non aggiungiamo le somme per sostentare le famiglie in condizioni di povertà, che dovrebbero già essere raggiunti da strumenti ad hoc come il reddito di cittadinanza.

iv Quella liquidità, infatti, era tenuta tale per paura delle incertezze e non si investirà fino a che l’incertezza perdura.

v In realtà la scadenza media del debito pubblico italiano è di 7 anni, il che significa che l’aggravio di interessi sul debito pregresso sarebbe di 3 miliardi nel primo anno, 6 nel secondo, 9 nel terzo e così via fino a 21 miliardi dopo 7 anni a regime.

vi https://www.corriere.it/economia/finanza/20_marzo_30/all-eurogruppo-scontro-un-trilione-euro-coronabond-soluzioni-possibili-ruolo-bei-40025b72-7291-11ea-bc49-338bb9c7b205.shtml

vii https://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/5335-se-non-ora,-quando-helicopter-money-e-covid-19.html

viii L’iniezione di moneta del QE non ha prodotto aumento dei prezzi; non succederà neanche creando moneta per finanziare il ristoro dalla crisi da coronavirus, perché l’economia corre ben sotto i limiti di capacità produttiva, la tecnologia disponibile nei servizi ha costi marginali di produzione molto bassi e spesso pari a zero, la dinamica dei salari è compressa dalla globalizzazione ed è inferiore alla dinamica della produttività. Il prezzo reale delle materie prime e dell’energie è crollato, a causa della crisi globale.

ix https://it.qwe.wiki/wiki/Offshore_financial_centre

x https://www.gbm.hsbc.com/insights/growth/emergence-of-vietnam-in-the-offshore-capital-markets