La questione irlandese è il nodo più difficile da sciogliere nei negoziati per la Brexit tra Londra e Bruxelles

Negli anni Sessanta e Settanta, in pieni Troubles, il Borderland, una sala da ballo irlandese, era il rifugio per chi voleva scappare dalla realtà del conflitto nord-irlandese. Al di là del confine, a soli 11 km da Derry, città simbolo del Bloody Sunday, il Borderland esiste ancora, ma oggi si è trasformato in un outlet. Anche il confine c’è ancora, ma si è trasformato: non si vede più. Niente più blocchi della polizia, controllo documenti, perquisizioni di bagagliai. Niente più code interminabili. Da queste parti l’hard border è un incubo che nessuno vuole veder tornare. Il timore oggi è che possa riemergere per effetto della Brexit.

Nel 1998, l’Accordo di Venerdì Santo ha congelato il conflitto, senza però risolverlo. L’Irlanda del Nord si è quindi dotata di un parlamento ed un governo autonomi in materia di politica interna. Mentre accordi di cooperazione transfrontaliera hanno garantito un’economia integrata, la all-island economy, all’interno di una cornice intergovernativa tra Dublino e Londra. A completamento del quadro bisogna anche aggiungere la precedente Common Travel Area, che prevede la possibilità per i cittadini irlandesi e britannici di muoversi liberamente tra l’Irlanda, il Regno Unito, l’Isola di Man e le Isole del Canale.
L’accordo del 1998 si occupa anche di alcune questioni costituzionali, come la possibilità d’indire in qualsiasi momento un referendum dal carattere vincolante per la riunificazione dell’isola. O la garanzia per ogni cittadino nord-irlandese di scegliere di quale cittadinanza dotarsi: irlandese, britannica o entrambe.
Il 23 giugno 2016 la Brexit ha però trasformato il confine irlandese (Figura 1) nella frontiera esterna dell’Unione Europea (UE), l’unica via terra del fronte occidentale. La sua chiusura è la garanzia dell’abolizione delle frontiere interne all’Unione. Ma non è una soluzione tecnicamente semplice. Lungo appena 500 km, ha ben 275 punti di attraversamento a fronte di soli 137 lungo tutta la frontiera orientale della UE, dalla Finlandia alla Grecia. Inoltre, non vi è linearità: una strada può attraversare il confine anche cinque volte in soli dieci minuti di guida.


Ogni giorno 35.000 persone attraversano il confine irlandese, tra cui pazienti d’ospedale, alunni delle scuole e lavoratori pendolari. 1/3 del latte prodotto in Irlanda del Nord viene trattato a sud. Il 40% del pollame allevato in Irlanda è poi lavorato a nord. La stessa Guinnes è prodotta a Dublino e imbottigliata oltreconfine, prima di essere riportata a Dublino ed essere esportata in tutto il mondo. Vi è poi un solo mercato dell’elettricità. La all-island economy è dunque una realtà concreta.
È proprio la questione irlandese il nodo più difficile da sciogliere nei negoziati tra Londra e Bruxelles. Il 7 giugno 2019, la premier britannica Theresa May ha dovuto dare le dimissioni, dopo che il suo governo ha visto la propria soluzione per l’Irlanda del Nord respinta per ben tre volte dal parlamento. Il successore Boris Johnson ha quindi proposto un piano che prevede il rispetto delle clausole dell’Accordo di Venerdì Santo e dell’Area di libera circolazione e l’istituzione di un’area di regolamentazione per tutta l’isola, al fine di eliminare i controlli sulle merci. Ma ha anche previsto il diritto di voto del parlamento nord-irlandese sugli accordi presi alla fine di un periodo di quattro anni, ovvero nel 2024. Mossa questa che gli ha fatto guadagnare il sostegno degli alleati di governo nord-irlandesi.

Di fatto, l’Irlanda del Nord rimarrebbe nell’unione doganale europea e nel mercato unico. Il controllo delle merci verrebbe attuato sui prodotti considerati ‘a rischio’ – ancora da definire – che entrano in Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna. Le tasse pagate su tali prodotti verrebbero poi rimborsate dal governo di Londra qualora non dovessero passare la frontiera a sud (Figura 2). Le regole sui prodotti in Irlanda del Nord rimarrebbero quelle europee al fine di evitare i controlli sulle merci.
Una volta terminato il periodo di transizione, se il parlamento di Belfast accetterà tutti gli accordi presi, allora l’Irlanda del Nord dovrà uniformarsi al regime doganale britannico, ma rimanendo nel mercato unico europeo. I controlli doganali, secondo il piano di Johnson, potrebbero svolgersi direttamente nelle aziende, per non intasare il passaggio al confine. Una soluzione che lascia i negoziatori europei alquanto scettici. Se invece il parlamento non dovesse accettare gli accordi, questi si interromperebbero due anni più tardi. In questo periodo una commissione congiunta farebbe raccomandazioni alla UE e al Regno Unito sulle azioni da intraprendere. In caso di mancato accordo, allora, l’hard border tornerà ad essere realtà. Ma non è detta l’ultima parola: il 12 dicembre 2019 si terranno le elezioni britanniche che, come nel gioco dell’oca, potrebbero riportare tutti alla casella di partenza (Figura 3).
Intanto la Brexit sta già avendo effetti sull’economia dell’isola. Nel primo trimestre del 2019 si è registrato un calo delle compagnie transfrontaliere e almeno 1/3 di grosse aziende ha registrato un impatto negativo sugli investimenti imputabile all’incertezza della Brexit (Figura 4). Nel secondo trimestre, il 45% delle aziende hanno indicato la Brexit come principale fonte di preoccupazione per il loro business (Figura 5). Infine, nel terzo trimestre, il 30% di piccole aziende hanno dichiarato che il pareggio sarebbe un risultato ottimistico, sempre a causa dei timori legati alla Brexit (Figura 6).
L’incertezza sul futuro dell’Irlanda ha anche riacceso le speranze politiche di quelli che vorrebbero la riunificazione dell’isola, insieme ai timori per una ripresa del conflitto. Il 18 aprile 2019, la giornalista Lyra McKee è stata uccisa, all’età di 29 anni, da un proiettile sparato durante dei disordini nella città di Derry tra repubblicani e polizia. Le autorità britanniche hanno catalogato l’evento come atto terroristico. Nonostante non abbia avuto seguito, è chiaro che sotto la cenere ci sono ancora braci accese.
Nel 2017, una commissione del parlamento irlandese ha avanzato l’ipotesi che il parlamento nord-irlandese possa mantenere la sua autonomia regionale in caso di riunificazione. La commissione ha anche fatto sapere che pure il Consiglio britannico-irlandese, istituito con gli accordi del 1998, potrebbe continuare ad esistere, a garanzia degli unionisti. Un sondaggio governativo britannico del 2018 (Figura 7) ha però mostrato come solo il 38% della popolazione dell’Irlanda del Nord sarebbe favorevole a tenere il referendum, contro il 45% dei contrari. Nel caso poi si tenesse, un buon 45% sarebbe fermamente contrario alla riunificazione, mentre solo il 32% sarebbe a favore. Ma il 23% della popolazione ha dichiarato di non saper esprimere una preferenza. Questa importante fetta di indecisi potrebbe diventare decisiva tra quattro anni. Sempre che non si trovino accordi diversi da quelli discussi fin qua.