Per la prima volta in quasi un secolo la sinistra non sarà rappresentata nel Parlamento polacco, non avendo saputo mitigare le ricette economiche di Bruxelles

Il risultato delle legislative di domenica 25 ottobre ha spostato la Polonia più a destra. Si concludono così con una bruciante sconfitta gli otto anni di governo dei moderati di PO ("Platforma Obywatelska", Piattaforma Civica), guidato da Donald Tusk, assurto nel 2014 alla presidenza del Consiglio Europeo e quindi da Ewa Kopacz (Figura 1). Gli elettori riconsegnano il Paese a PiS ("Prawo i Sprawiedliwość", Legge e Giustizia), il partito nazionalista che già ne aveva retto le sorti tra il 2006 ed il 2007. Tuttavia, non si tratta di un semplice ritorno al passato, ai toni apocalitticamente euroscettici dei fondatori, i gemelli Kaczyński. Le cariche interne di PiS sono state in gran parte rinnovate. La segreteria è ancora di Jarosław Kaczyński, mente politica del partito e gemello superstite, essendo Lech, capo dello Stato tra il 2005 ed il 2010, perito nella sciagura aerea di Smolensk. Ma la candidata premier è Beata Szydło. Con lei il partito raggiunge il miglior risultato di sempre: il 37,6% dei voti. Grazie al premio garantito dalla legge elettorale, inoltre, PiS acciuffa anche la maggioranza alla camera bassa, da cui dipende la fiducia all'esecutivo  (Figura 2).

In questa tornata elettorale, la Polonia ha assistito ad una serie di record. Per la prima volta, le principali formazioni erano guidate da due donne. Altro fatto inedito, per lo meno dal 1989 in poi, il governo sarà un monocolore, avendo PiS la maggioranza parlamentare. Infine, diventano terza e quarta forza politica del Paese due movimenti di matrice populista e liberal-conservatrice, rispettivamente la lista Kukiz'15, con oltre il 9% e ".N", al 7,6, che all'epoca delle precedenti elezioni non esistevano ancora. Le legislative confermano l'esito delle presidenziali di maggio. Allora vinse inaspettatamente, ma di misura, il giovane Andrzej Duda sull'uscente Bronislaw Komorowski. Invece, il trionfo di Beata Szydło alle legislative era ormai largamente annunciato dai sondaggi. Eppure, negli anni del governo di PO, la Polonia aveva conosciuto una crescita di oltre il 20% del PIL, quasi il 3% annuo di media (Figura 3). In barba alla crisi, nel 2009 l'economia polacca è cresciuta del 1,6 % mentre la media dei Paesi Ue era -4,5%.


Oggi la Polonia è un Paese stabile. E' l'ottavo mercato dell'Unione. La borsa di Varsavia, chiusa nel periodo comunista, è oggi annoverata tra le "Advanced Emerging exchange" da FTSE (Financial Times Stock Exchange), alla pari di Taiwan e Corea del Sud. Pur non essendo equivalente al peso demografico all'interno dell'UE, quello economico è sorprendente, se si pensa che un quarto di secolo fa la Polonia faceva i conti con una prolungata iperinflazione (Figura 4). Molti dei risultati raggiunti sono stati resi possibili da efficaci politiche di attrazione dei capitali, cui ha contribuito in modo determinante l'ammirevolmente capace, specie se visto dall'Italia, utilizzo dei fondi europei.
Questo ha fatto da volano per gli investimenti stranieri. Per quanto riguarda la coesione territoriale, ad esempio, il Paese ha ricevuto da Bruxelles fondi per 80 miliardi di euro, che sono stati investiti per l'80% in infrastrutture e trasporti, rivoluzionando la mobilità pubblica e privata. Nei sei anni successivi, la Polonia si è vista assegnare ulteriori fondi strutturali per 82,5 miliardi di euro, confermandosi per la seconda volta, come già tra il 2007 ed il 2013 come il primo beneficiario tra i Paesi europei. Questo risultato non viene dal nulla. Accanto alle agenzie governative, esistono dipartimenti universitari che studiano l'europrogettazione e lavorano a stretto contatto con le autorità centrali e locali.
Cosa è andato storto, allora? Dal boom hanno tratto vantaggi soprattutto quanti si sono ritagliati un posto al sole nei molti settori trainanti nell'economia- dall'informatica alla chimica alle comunicazioni- e della finanza, mentre il resto della società combatte con i bassi salari. Secondo i dati Eurostat 2014, la paga media, meno di 700 euro al mese, è ben al disotto della media dei Paesi UE, pur risultando tra le più alte di quelli orientali (Figura 5).

Stando ai dati Eurostat, poi, la disoccupazione in Polonia, in ribasso da un quinquennio, è di poco superiore a quella della media europea (Figura 6). Ma tale dato appare mitigato dall'ingente emigrazione, che interessa un cittadino su undici tra quelli in età da lavoro (Figura 7). Stando all'ufficio centrale di statistica, all'inizio del 2011 2,3 milioni di cittadini polacchi vivevano fuori dei confini nazionali. Di questi, solo 300.000 sono emigrati in Nord America. Il grosso dell'emigrazione ha interessato i Paesi occidentali dell'Unione Europea, Regno Unito e Germania essendo le mete preferite con, rispettivamente, il 31 ed il 20% del totale. I voli low cost che da Varsavia, Cracovia, Lublino o Poznań partono verso l'Inghilterra, la Germania, la Scandinavia o il Benelux sono carichi di manodopera qualificata poco sotto o poco sopra i trent'anni. Ad emigrare non sono tanto gli idraulici polacchi come si paventava anni fa, ma soprattutto giovani laureati che non trovano posto nel mercato locale.
Di fronte alle inquietudini di questa fascia di popolazione, così come di quella, ancora più ampia, di una borghesia media e di mezz'età cui il boom ha gonfiato i prezzi di servizi e beni di consumo, ma non le buste paga, PO non ha saputo offrire nulla di allettante. Ha cercato di presentarsi agli elettori come una sorta di partito della nazione, senza alternative perché gli avversari sarebbero dovuti apparire invotabili: estremisti a destra ed incolori a sinistra. E' risuonata spesso la parafrasi dello iettatorio slogan di Macmillan "i polacchi non sono mai stati così bene". Il che è vero, stando a molti parametri macroeconomici, ma tanto non è bastato a convincere gli elettori, i quali hanno anzi identificato PO con i ceti favoriti dalle trasformazioni economiche.

Szydło, e prima di lei Duda, hanno fatto della pacatezza, nei toni più che nei contenuti, la loro carta vincente. Per tutta la campagna elettorale, la candidata premier ha manifestato il proposito di voler accantonare il pacchetto di riforme liberiste degli ultimi anni e di puntare sulla spesa pubblica, auspicando la ri-nazionalizzazione di alcuni settori strategici. Questo vasto programma è stato condiviso dall'elettorato, che l'ha percepito come un gradito ritorno al buonsenso. Così Szydło ha annullato il vantaggio iniziale dei moderati. Ma ha pesato anche l'insistita denuncia delle politiche UE verso i migranti africani ed asiatici. L'argomento fa presa in un Paese come la Polonia, perennemente in preda alla sindrome da invasione, anche sulla scorta dei dolorosi precedenti storici. E' molto popolare la vulgata secondo cui l'emigrazione sarebbe causata dall'arrivo di immigrati sottopagati provenienti, per ora, dai Paesi ex sovietici confinanti, ma un domani dall'Africa o dal Medio Oriente. Szydło si è detta contraria ad accogliere la quota-profughi- 2000 persone- già stabilita da accordi bilaterali. Se il nuovo governo volesse essere coerente con quanto affermato in campagna elettorale, potrebbe incorrere in alcuni seri grattacapi, ove mai la UE decidesse di subordinare la concessione di nuovi fondi al rispetto degli impegni sottoscritti. Risulterebbe allora più arduo dare corpo all'ambiziosa politica di spesa pubblica promessa.
Questo sarebbe un argomento importante nelle mani di Bruxelles, che tuttavia potrebbe ritorcersi contro. Varsavia è tornata ad essere un punto di riferimento per gli euroscettici. Una svolta filo-Putin alla Orbán non sembra in vista, dati i drammatici precedenti, da ultimo la sciagura aerea di Smolensk, che per una parte non trascurabile dell'elettorato altro non sarebbe che l'ennesimo complotto ordito da Mosca. Ma il ritorno ad un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, come nel 2006-2007, potrebbe essere poco meno nocivo agli equilibri interni alla UE, specie se dall'anno prossimo alla Casa Bianca dovesse sedere un epigono di George W. Bush, poco interessato alla coesione europea. Ma anche le relazioni con i Paesi confinanti rischierebbero di deteriorarsi, tanto con quelli interni quanto con quelli esterni all'orbita di Bruxelles, come nel biennio 2005-2007. Sono rimaste agli atti le intemerate affermazioni antitedesche e antirusse dei Kaczyński così come quelle irredentistiche sulle condizioni delle minoranze polofone in quei paesi.

Il voto polacco porta a due considerazioni di tipo politico. La prima è che lo svolgersi delle presidenziali a pochi mesi dalle legislative abbia comportato inevitabilmente un effetto-traino, creando qualche problema a livello di pesi e contrappesi. Lo stesso discorso è applicabile ad altri sistemi (semi)presidenziali, ma risulta particolarmente evidente in Polonia, dove il Capo dello Stato è scelto direttamente dai cittadini mentre il parlamento è eletto mediante sistema proporzionale con premio di maggioranza. La seconda attiene allo spostamento a destra dell'elettorato nei membri UE dell'Europa orientale, che nel caso polacco assume dimensioni impressionanti. Nelle votazioni di ottobre, la partita è stata tutta interna a quel campo politico: oltre tre elettori su quattro hanno votato formazioni moderate conservatrici, liberal-conservatrici, radicali o populiste. Le prime quattro forze politiche del Paese sono movimenti di destra. Questo è un orientamento che si sta consolidando in alcuni Paesi dell'Europa orientale, a prescindere dalle condizioni di partenza: crescita nel caso polacco o crisi, come ad esempio in Ungheria. Ciò detto, va anche precisato che mai a Varsavia, almeno durante la competizione elettorale, si è trasceso nell'estremismo. La Polonia non è l'Ungheria, dove è in corso un duello tutto elettoralistico tra il premier Orbán ed gli ultranazionalisti di Jobbik, che insieme fanno il 55% degli elettori magiari, rispettivamente, prima e seconda forza del Paese.
La sinistra in campo si è dissolta. Per la prima volta in quasi un secolo non sarà rappresentata in parlamento. Qui buona parte della dirigenza è ancora costituita dalle seconde file del POUP, il partito socialista unificato che ha governato il Paese fino al 1989. Il che basta a renderla diversa dalle forze progressiste occidentali. Ma i motivi della crisi di consenso delle sinistre sono simili, ad ovest come ad est, e risiedono nel non aver saputo mitigare le ricette economiche giunte da Bruxelles, che hanno aumentato la piattaforma degli esclusi o dei marginali, i quali guardano ora con speranza alla destra radicale per cercare di ottenere politiche redistributive. Come cerchi concentrici, nella crisi post-2009 si inscrivono quello del modello decisionale europeo e quello della sinistra.