Pechino intende legare, tramite tre corridoi, il cuore dell’impero economico, manifatturiero e finanziario cinese, che si trova nella parte orientale del Paese, con il resto dell’Asia, il Medio Oriente, e quindi Russia ed Europa

Non sono molti i progetti che mirano ad alterare in modo profondo rapporti strategici dettati in parte da condizioni geografiche. Bisogna pensare alla grandi ferrovie transcontinentali in America e Russia, o ai canali artificali di Suez e Panama, per trovare esempi di opere infrastrutturali con immediate e decisive ripercussioni sugli equilibri geopolitici. Equilibri legati a dinamiche di tipo economico, commerciale, di accesso a risorse e mercati: in questo senso, il progetto ‘One Belt One Road,’ più romanticamente chiamato da Pechino anche la ‘Nuova Via della Seta’ con un’astuta operazione di pubbliche relazioni, rappresenta tutto questo ma con una scala dimensionale e un’ambizione probabilmente senza paragoni.

Questa nuova via intende legare tramite tre ‘corridoi’ (nord, centro e sud) la terra del Made in China, ovvero il cuore dell’impero economico manifatturiero e finanziario cinese, che si trova nella parte orientale del Paese, specie lungo le coste del Mar Cinese e del Mar Giallo, con il resto dell’Asia, il Medio Oriente, e via fino a Russia ed Europa (Figura 1). Tale progetto, il cui completamento è previsto intorno al 2030 e che in alcune sue sezioni è già operativo, non può essere descritto compiutamente in questo spazio nella sua interezza. Tuttavia, possiamo rivolgere la nostra attenzione al corridoio meridionale, che interessa l’azione cinese in Pakistan, per avere un’idea circa il respiro della strategia cinese, gli obiettivi perseguiti, gli strumenti usati, e gli ostacoli presenti.
Battezzato ‘C-PEC’ (China-Pakistan Economic Corridor), esso prevede la pressochè completa ristrutturazione delle reti autostradali e ferroviarie del Pakistan; la contestuale costruzione di gasdotti e oleodotti che attraversino il paese da sud a nord; e la messa in opera di varie centrali energetiche per sopperire alle croniche deficienze pachistane in questo settore. L’obiettivo è quello di connettere i porti di Gawdar (la cui ristrutturazione e ampliamento sono pressoché completati) e Karachi che si affacciano sull’oceano Indiano, con Kashgar, città nell’estremo occidente cinese nella provincia del Xinjang, a nord delle regioni montuose del Pakistan (Figura 2).
Illustreremo qui di seguito il contesto geopolitico in cui si articola il C-PEC; avanzeremo alcune considerazioni circa le attuali condizioni dell’economica pachistana; le implicazioni a livello globale della One Belt One Road; e in ultimo i problemi di varia natura (burocratica, politica, di sicurezza) che il progetto potrebbe incontrare nella sua fase pachistana.


Le ottime relazioni tra Pechino e Islamabad non sono certo una novita’. Il principio “il nemico del mio nemico e’ mio amico” ha fatto si’ che l’India rappresentasse quel rivale comune a entrambi i paesi in grado di favorire una sostanziale comunanza di vedute a livello strategico durante e dopo la Guerra Fredda. Inoltre, entrambi i paesi hanno complesse relazioni con gli Stati Uniti. Negli ultimi anni, questo e’ dovuto, nel caso della Cina, ad una competizione a livello globale che pare vieppiu’ inevitabile; e nel caso del Pakistan, ad un ambiguo rapporto nell’ambito della guerra globale al terrorismo lanciata dagli USA dopo l’11 settembre.
In questo quadro, i due paesi hanno sottoscritto nel 2006 un accordo di libero commercio, quando la Cina era gia’ il principale partner del Pakistan. L’interscambio e’ di conseguenza cresciuto da 4.1 miliardi di dollari nel 2006 a 9.2 nel 2013, trainato in particolare dalle esportazioni pachistane verso la Cina (da 400 milioni a 2.6 miliardi), che ora assorbe il 10% dell’export pachistano (pre-accordo era l’1%). L’accesso al mercato cinese ha senza dubbio aiutato la crescita del PIL pachistano, che dopo una flessione nel 2008 per via della crisi globale si e’ attestato ora a buoni livelli (Figura 3). Tuttavia, si tratta di una ripresa ancora con diversi punti deboli: l’aumento della popolazione (al 2% annuo, tra le piu’ alte al mondo, che ha portato il paese al quinto posto mondiale con 207 milioni di abitanti, e probabilmente e’ una cifra per difetto) e la conseguente necessita’ di creare posti di lavoro; una base economica legata ad agricoltura e industrie (come quella tessile) a basso contenuto tecnologico (a differenza, per esempio, dalla Silicon Valley indiana di Bangalore, che non ha corrispettivi in Pakistan); e la costante instabilita’ politica – vari movimenti separatisti, una lunga serie di golpe militari, la presenza di formazioni Islamiste radicali. In questo quadro, la democrazia pachistana appare non solo fragile, ma anche dominata dalla casta militare. Nuove elezioni sono previste nel marzo 2018 dopo che uno scandalo di corruzione ha travolto l’ex primo ministro Nawaz Sharif lo scorso luglio 2017.

A livello macroeconomico, il deficit di bilancio pachistano e’ raddoppiato da settembre 2016 raggiungendo a ottobre 2017 i 14.4 miliardi di dollari. La Banca Mondiale ha stimato in 17 miliardi (equivalente a circa il 6% del PIL pachistano) la somma necessaria da qui a giugno per ripianare tale deficit (capitale piu’ interessi). La situazione non sembra particolarmente preoccupante per il fatto che il deficit e’ anche dovuto a manovre espansive a supporto della crescita, tuttavia, esso è stato parzialmente finanziato facendo ricorso alle riserve di valuta estera, che di conseguenza si sono pericolosamente assottigliate (Figura 4).
Se dunque consideriamo l’ammontare degli investimenti cinesi nell’ambito del C-PEC (sono previsti complessivamete circa 32 miliardi di dollari) si capisce immediatamente quanto un afflusso di capitali di quelle dimensioni sia un’opportunita’ che Islamabad non poteva rifiutare: specie considerando come uno dei principali ostacoli a uno sviluppo economico piu’ sostenuto e organico sia proprio la scarsita’ e poverta’ infrastrutturale del paese. Stime condotte dal governo pachistano – forse troppo ottimiste – hanno valutato l’impatto del C-PEC sul PIL pachistano al 15% una volta concluso il progetto.
Progetto che, come accennato, rappresenterebbe per il Pakistan una vera e propria rivoluzione infrastrutturale ma anche macroeconomica, oltre alle implicazioni geostrategiche e geopolitiche, che porterebbero il Paese molto più vicino alla sfera d’influenza cinese. Il C-PEC e’ la parte cruciale del ‘corridoio meridionale’ preferito da Pechino in quanto piu’ immediatamente in grado di connettere la Cina con il petrolio mediorientale rispetto agli altri due corridoi (quello centrale attraverso le ex repubbliche sovietiche asiatiche, Iran e Turchia e quello settentrionale attraverso la Siberia) che hanno mire piu’ propriamente commerciali connettendo la Cina con i mercati europei.
Le implicazioni strategiche del C-PEC sono, in quest’ottica, enormi, come suggerito all’inizio. La rotta marittima dal Golfo Persico alla Cina (Figura 5) per soddisfare la domanda di petrolio passa necessariamente per lo stretto di Hormuz; poi attorno all’India, lo stretto di Malacca, e infine nel Mar Cinese Meridionale: in questi tre ultimi snodi cruciali la Cina si trova, rispettivamente, a passare in prossimita’ del rivale indiano; a navigare uno degli stretti piu’ trafficati al mondo in acque territoriali malesi, indonesiane e singaporiane; e in ultimo, ad attraversare un’area contesa con Vietnam, Filippine, Taiwan, Malesia, Brunei e Indonesia per via degli arcipelaghi Paracel e Spratly.

Pechino non gode di buone relazioni con nessuno di questi paesi. La via di terra attraverso il Pakistan eviterebbe in un sol colpo i 12.000 chilometri della rotta marittima. Permetterebbe quindi un accesso pressoche’ diretto al petrolio mediorientale risolvendo cosi’ uno dei principali problemi strategici di Pechino. Una logica che si puo’ applicare anche alle rotte commerciali, in quanto merci dall’Europa o materie prime dall’Africa (dove la presenza cinese e’ ormai massiccia) potranno usufruire di un’adeguata infrastruttura per raggiungere il territorio cinese da occidente anziche’ da oriente.
Dalla prospettiva cinese, questo risulta un affrancamento dalle costrizioni e dai problemi del Mar Cinese e dell’Oceano Pacifico: si tratterebbe in buona sostanza di poter proiettare la propria influenza economica e poi politica sull’intera regione eurasiatica, con i corridoi centrale e settentrionale aventi le mete finali a Parigi, Rotterdam, San Pietroburgo ed Helsinki.
La ‘One Belt One Road’ ha ricevuto in questo senso ulteriore stimolo all’epoca del Partnerariato Trans-Pacifico (o TTP nell’acronimo inglese) promosso dall’amministrazione Obama. Questo accordo commerciale (riduzione delle barriere tariffarie e instituzione di un meccanismo specifico per dispute legali tra i paesi membri) coinvolgeva inizialmente (all’epoca del lancio nel 2008) USA, Giappone, Canada, Messico, Cile, Peru’, Singapore, Vietnam, Malesia, Brunei, Australia e Nuova Zelanda. In altre parole, le principali economie che si affacciano sul Pacifico avrebbero goduto di uno spazio privilegiato per rafforzare legami economici e poi politici sotto la guida (e l’egida) di Washington. Inevitabile per la Cina guardare con preoccupazione al TTP come ad un tentativo da parte statunitense di limitare e contenere la sua influenza nell’area pacifica creando un cordone di alleati. Il ritiro degli Stati Uniti dal TTP per scelta dell’amministrazione Trump e’ stato accolto dunque positivamente dalla Cina (un inaspettato regalo, a ben vedere...); la quale però si è premurata di non lasciare niente di intentato nella diversificazione di accesso a mercati e risorse.

La Nuova Via della Seta rientra per l’appunto in tale progetto: ma è effettivamente realizzabile nella sua interezza? E’ difficile dirlo. Guardando al C-PEC, non si puo’ non notare come i corridoi eurasiatici attraversino alcune delle aree piu’ instabili al mondo a livello politico. Per quanto riguarda il Pakistan, vi sono per lo meno tre questioni che potrebbero non certo far deragliare il C-PEC, ma rendere i ritorni economici e politici (e quindi geostrategici) di Pechino molto inferiori alle attese.
In primo luogo, i diversi tracciati (via occidentale, centrale o orientale) del C-PEC hanno dato origine in Pakistan a rimostranze e proteste. In particolare, il Baluchistan, regione occidentale dove e’ sito il porto di Gawdar, vedrebbe relativamente pochi investimenti in quanto alla via occidentale che attraverserebbe il suo territorio verrebbe preferita la via orientale attraverso il Sindh e soprattutto il Punjab, cuore politico del paese. Questo fatto comporterebbe molto probabilmente una recrudescenza del movimento separatista del Baluchistan, che ha gia’ minacciato attacchi alla superstrada costiera in costruzione tra Gawdar e Karachi e si e’ reso responsabile di rapimenti ed uccisioni di lavoratori cinesi in Pachistan. Problemi simili si verrebbero a trovare anche nelle regioni a nord, in particolare le Aree Tribali ad Amministrazione Federale (FATA nell’acronimo inglese) dove movimenti per l’autonomia locale si configurano spesso come forze Islamiste radicali con una forte impronta talebana.
In secondo luogo, per l’appunto, il Pakistan è noto per la presenza e le attività di gruppi islamici radicali: sebbene questi gruppi non nutrano un’avversione particolare verso la Cina, essi possono comunque compromettere la sicurezza e la stabilita’ interna del Paese in maniera significativa, con evidenti ricadute per gli investimenti e l’impegno cinese.
In ultimo luogo, la classe politica pachistana, nota per corruzione, inefficienza e autoreferenzialita’, e’ un partner tutt’altro che ideale per Pechino: lungaggini burocratiche di varia natura, richieste di modifiche al progetto, interessi e ostruzioni a livello locale possono certo rallentare i lavori e frustrare gli entusiasmi cinesi per il C-PEC. Ne’ e’ poi da sottovalutare la tiepida e ambivalente opinione pubblica pachistana rispetto al C-PEC. La stampa pachistana, alquanto libera e intraprendente, si chiede se gli investimenti cinesi non vadano a beneficiare Pechino e le élite pachistane (economiche, politiche, militari) coinvolte anziche’ fornire un reale contributo alla sviluppo del paese. Termini come ‘neocolonialismo’ e ‘perdita di sovranita’’ sono usati spesso per descrivere una situazione in cui il Pakistan non sembra essere un partner ma piuttosto un avamposto per investimenti e mire straniere