All’inizio c’è un paradosso. Quello di un Governo che, dopo decenni di instabilità politica, ha detto e promesso di restare in sella per tutti i cinque anni della legislatura. E ci sono tutte le condizioni perché questo possa avvenire: una solida maggioranza parlamentare, un’opposizione incerta e contraddittoria, un consenso popolare certificato anche dai risultati delle ultime elezioni amministrative.
Eppure, ecco il paradosso, proprio il Governo più stabile dei settant’anni di storia repubblicana ha scelto di fare della stabilità un obiettivo strategico da raggiungere attraverso una riforma costituzionale che preveda una revisione sostanziale dei rapporti di forza istituzionali.
Una storia di instabilità: 67 governi in settant’anni
Il tema della stabilità ha accompagnato la storia della Repubblica. Dal 1948 ad oggi, in Italia si sono succeduti 67 governi, guidati da 29 presidenti del Consiglio. In media sono rimasti in carica per 414 giorni, meno di un anno e due mesi, e hanno governato di fatto per 380 giorni, poco più di un anno.
Ma proprio sotto il profilo della stabilità politica la stessa storia repubblicana può essere divisa in alcuni grandi periodi. Fino agli anni ’80 Governi di breve durata, tutti incentrati sulla Democrazia cristiana e con un sistema elettorale sostanzialmente proporzionale. Cambiavano i governi, ma non cambiava l’identità politica. A cavallo del secolo Governi di più lunga durata (due volte Silvio Berlusconi e una volta Bettino Craxi hanno superato i mille giorni a Palazzo Chigi) anche grazie a un sistema elettorale sostanzialmente maggioritario. Negli ultimi dieci si sono susseguiti governi tecnici di unità nazionale e governi politici con maggioranze ampiamente variabili in uno scenario contrassegnato da una profonda crisi dei partiti tradizionali e da una sostanziale eclissi delle ideologie di riferimento.
Democrazia minacciata dal crollo della partecipazione
La prima domanda da porsi è allora se è possibile affrontare il problema della stabilità sotto l’aspetto dell’ingegneria costituzionale o se le cause della fragilità della politica abbiano anche altri elementi e dimensioni. Perché è facile guardare ai modelli esteri, come il Cancellierato alla tedesca o il presidenzialismo alla francese, dimenticandosi che queste realtà di riferimento hanno alla base lunghi processi storici impossibili da costruire a tavolino.
Anche perché la realtà italiana è tale per cui l’instabilità dei governi è solo una parte, e forse nemmeno la principale, delle trasformazioni politiche-istituzionali che l’Italia sta vivendo. La politica dovrebbe trovare ipotesi di soluzioni anche per problemi fondamentali per la democrazia, come la sempre più scarsa partecipazione ai momenti elettorali. O che questi stessi momenti elettorali sono stati dominati da partiti, come Lega prima e poi 5 Stelle e Fratelli d’Italia, che hanno fatto della protesta le ragioni della propria identità e del loro successo.
L’invadenza dei partiti sulla sovranità popolare
Ma oltre a questo bisogna riconoscere che proprio sotto il profilo istituzionale il disegno ambizioso e coraggioso dei padri costituenti è stato progressivamente contaminato da un’invadenza dei partiti che hanno profondamente modificato quella dimensione fondamentale della rappresentanza democratica che è il Parlamento.
Già nel 1958 Luigi Sturzo nel discorso al Senato sulla fiducia al Governo Fanfani sottolineava “la necessità di ridare al Parlamento la sua indipendenza da estranee ingerenze, specialmente quelle dei partiti politici, smantellando la sovrastruttura partitocratica che si è andata infiltrando paragonandosi ad una piovra che a poco a poco provoca e stronca”.
Un Parlamento sempre più ingabbiato
L’attacco dei partiti al Parlamento è tuttavia continuato e negli ultimi anni si è accentuato. Con tre fronti contrapposti, ma convergenti ad un unico risultato. Il primo fronte è stato quello del sistema elettorale con liste bloccate: con il risultato di inviare alle Camere persone scelte non in base alla competenza e al consenso popolare, ma unicamente alla fedeltà ai vertici dei partiti. Il secondo fronte è stato quello del progressivo svuotamento della funzione legislativa con il combinato disposto dell’assoluta prevalenza delle iniziative governative, dell’uso sempre più frequente dei decreti-legge anche palesemente senza i caratteri della necessità e dell’urgenza e, ancora importante in questa prospettiva, l’uso metodico del ricorso al voto di fiducia togliendo alle Camere qualunque possibilità di discussione e cambiamento. Il terzo fronte è quello ora aperto perché un ampliamento dei poteri del primo ministro non può che comportare parallelamente una diminuzione delle possibilità operative del Parlamento.
Minacciati i pesi e contrappesi istituzionali
Questa tendenza appare del tutto contraria alla natura stessa di una democrazia in cui, secondo la lezione di Giovanni Sartori, il fondamento è che il potere è in mano al popolo e quindi al Parlamento, e ciò implica che il popolo, o per lo meno la maggioranza, abbia sempre ragione, o meglio, che abbia “il diritto di compiere i propri errori”. Questo è il principio che, se rispettato, dovrebbe rendere la democrazia funzionante.
A questo peraltro mira la seconda parte della Costituzione, che dall’art. 55 al 133, è tutta dedicata alla definizione di quella che potremmo chiamare quella governance dello Stato, una governance che rispecchia la logica dei checks and balances, dei pesi e contrappesi, così come della separazione dei poteri sulla scia delle teorie politiche di Montesquieu.
Il tallone d’Achille delle attuali proposte di presidenzialismo è proprio nella volontà di incidere con un colpo di piccone sulla complessità e sulla delicatezza di una struttura istituzionale che avrà tanti difetti, ma che ha di fatto consolidato la struttura democratica. Se l’obiettivo, come sembra, è quello di arrivare all’elezione diretta del presidente del Consiglio, è temerario pensare che questo possa avvenire senza intaccare i poteri, peraltro già limitati, del Presidente della Repubblica. E non potranno che essere messi in discussione gli stessi poteri del Parlamento, che ora ha la grande responsabilità di dare o togliere la fiducia all’Esecutivo.
Una Costituente per una riforma equilibrata
Questo non vuol dire che non si possa cambiare nulla, anche se le grandi revisioni costituzionali non hanno avuto molta fortuna negli ultimi decenni. Ma cambiamenti parziali possono produrre più problemi di quanti se ne vorrebbero risolvere. Per questo sarebbe forse meglio che la politica trovasse il coraggio di dar vita ad una nuova Assemblea costituente, eletta con un sistema proporzionale, e destinata ad operare con competenza alla revisione di tutta la seconda parte della Carta fondamentale. Cercando nuovi equilibri e ridando credibilità ad uno Stato che troppi cittadini vedono come una controparte ostile e non come una casa comune.
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