Si ha chi addebita il gran malessere all'euro, perché pensa che il mal andamento dell'economia italiana sia da addebitarsi alla moneta unica e alle sue politiche di austerità. Si ha chi chiede semplicemente un nuovo accordo europeo sui limiti di spesa pubblica in deficit e chi pensa che si debba addirittura uscire dall'euro. Nel primo caso è in discussione solo il ruolo della politica fiscale in un momento di recessione, nel secondo addirittura tutta la costruzione europea. L'idea retrostante è che la Sovranità non debba essere delegata alle tecnocrazie – Bruxelles e Banca Centrale Europea – ma che debba essere riportata laddove essa trova la propria legittimità, ossia a livello nazionale, dove i cittadini possono far valere le proprie preferenze. Il testo è il filo rosso di un intervento che si terrà all'incontro (*): “L'euro ci salva o ci distrugge?”.
Di seguito affrontiamo per prima cosa la grande scelta fatta in Europa negli anni Cinquanta, quando fu presa la decisione di avere un sistema politico affetto da “grigiore” (§1), per poi passare alla scelta fatta in Italia negli anni Novanta, quando fu presa la duplice decisione di avere il bilancio pubblico in avanzo prima del pagamento degli interessi e di entrare nell'euro. Questo per delineare lo sfondo della vicenda di oggi, e per mostrare come il “grigiore” europeo e quindi italiano sia il frutto di decisioni e non di inerzie. Successivamente passiamo al “punto di vista di di Berlino”, che è la scelta che nell'euro area va per la maggiore. Sosterremo che questa visione non è tanto convincente sul piano scientifico, mentre lo è sul piano dell'opportunità politica. Seguono due casi concreti, quello greco e quello italiano (§4), laddove si evince che non è stato in azione “il destino cinico e baro”, ma l'indecisione. Il ragionamento per concludersi richiede che si mostri che la crisi italiana era in corso da prima dell'ingresso nell'euro. Su questo ci cimentiamo nell'ultima parte (§5), prima delle conclusioni (§6).
Prologo
1 – Il grigiore al posto dei duci (1)
La Seconda Guerra termina in un bagno di sangue (decine di milioni di morti) e drammatici trasferimenti di popolazione da un Paese all'altro (oltre una decina di milioni di persone). Alcuni – essenzialmente tre politici cattolici, Adenauer, Shumann, e De Gasperi, tutti e tre avanti negli anni e di lingua tedesca - arrivano alla conclusione che all'origine della tragedia ci fosse il sistema politico a fondamento carismatico.
I sistemi politici possono essere – secondo la classificazione di Weber – di tre tipi: quello in cui la legittimità è nella tradizione, come nelle Monarchie, quello in cui la legittimità è nella logica fredda delle Leggi applicate dalla Burocrazia, come nei sistemi liberali, e, infine, quello la cui legittimità è nella simbiosi fra Popolo e Carisma. In questo ultimo caso, si ha una spinta di “senso”, perché si ha una identificazione fra il Popolo – ridotto a entità magmatica – e il Leader – che, ispirato, lo conduce verso i suoi più alti destini.
Insomma, dopo la Seconda Guerra l'idea che era prevalsa era quella di un sistema sopranazionale, e di un governo della Legge, e dunque il governo della Burocrazia, che, per definizione, emana solo “grigiore”. Insomma, l'idea della “de-nazionalizzazione” delle masse con i sistemi politici avvolti in ragnatele giuridiche – come l'Alta Corte che è il decisore di legittimità di ultima istanza - era il cuore della nuova Europa. Non si tornava però al sistema liberale ante Prima Guerra, quello dello Stato Minimo (Amministrazione, Difesa, Giustizia), ma al sistema di Stato Sociale (Stato Minimo + Sanità, Istruzione, Pensioni). Questo avvenne e per ragioni culturali - la prevalenza cattolica e del suo “solidarismo”, e per ragioni politiche, perché delle forme di “stato sociale” erano già emerse con i Totalitarismi e non potevano essere rigettate.
Tesi 1: L'Europa è perciò volutamente “grigia” e burocratica. Sarà un caso, ma quelli che la vorrebbero oggi diversa sono i leader carismatici di partiti o movimenti a sfondo nazionalistico.
2 – La grande scelta degli anni Novanta
Dagli anni Sessanta e, parzialmente, fino agli anni Ottanta, si poteva, in Italia, ampliare lo “Stato Sociale”, anche in assenza di un gettito che coprisse le maggiori spese. Poi non più, perché il debito stava crescendo troppo. A quel punto, il debito pubblico doveva andare sotto controllo, cosa che è avvenuta con i primi anni Novanta. Da allora, il debito pubblico italiano è cresciuto solo per la parte relativa al pagamento degli interessi, quando questa era, come è stata, seppur non di molto, maggiore del surplus primario. In un primo periodo, quello fino agli anni Ottanta inoltrati, abbiamo avuto dei rendimenti negativi (tenendo conto dell'inflazione) dei titoli del Tesoro, nel secondo dei rendimenti positivi. Provo a elaborare il meccanismo del debito e dell'inflazione, della correzione dei conti, e degli effetti della dinamica salariale.
2.1. - All'origine del debito e dell'inflazione degli anni Settanta e Ottanta.
a) la spesa pubblica maggiore delle entrate produce un deficit, che può essere finanziato da una combinazione di emissione di obbligazioni e di moneta; b) soprattutto negli Settanta, le obbligazioni, se non sottoscritte dai privati, erano acquistate dalla Banca d'Italia; c) in questo modo, la moneta che entrava nel sistema cresceva, e, alla lunga, produceva inflazione; d) l'inflazione non era anticipata da un mercato finanziario primitivo e, di conseguenza, i rendimenti del debito pubblico erano negativi, ossia il rendimento delle obbligazioni emesse dal Tesoro era inferiore al tasso d'inflazione; e) poiché le entrate dello stato crescono in proporzione alla crescita del reddito nazionale nominale, lo stato aveva delle entrate fiscali crescenti (seppur inferiori alla crescita delle spese), mentre pagava il debito pubblico (le cedole e i titoli in scadenza) in moneta corrente, il cui valore era inferiore a quello in essere quando le obbligazioni erano state sottoscritte; f) in questo modo il debito pubblico pesava relativamente poco sul bilancio dello Stato e perciò la spesa appariva meno onerosa. Dagli inizi degli anni Ottanta, questo meccanismo di un debito pubblico con costo occultato è bloccato dalla decisione - detta del “divorzio” - fra la Banca Centrale e il Tesoro, ossia la Banca d'Italia non poteva più comprare il debito non optato dai privati. Venendo meno la domanda della Banca d'Italia, il debito, per essere sottoscritto dai solo privati, doveva offrire un maggior rendimento, che cominciò a diventare maggiore del tasso di inflazione. In questo modo, il debito pubblico aveva un costo finanziario e politico esplicito, e dunque non poteva più essere la variabile che “accontentava tutti”, vale a dire sia i fruitori della spesa, sia chi frenava sul versante del pagamento delle imposte.
2.2. - La correzione dei conti dagli anni Novanta.
a) se il bilancio dello stato è in avanzo (le entrate sono maggiori delle spese) ecco che si ha un surplus (detto “primario”). Se questo surplus è pari al pagamento degli interessi, non è più necessario emettere altre obbligazioni per pagare gli interessi. E dunque si ha il pareggio di bilancio. b) in questo modo, non si emettono più obbligazioni, e il debito pubblico è invariato. Man mano che l'economia cresce, sempre che si mantenga un “surplus primario” adeguato, il debito pubblico finisce per pesare sempre meno sul bilancio dello stato e dunque sul conflitto politico legato alla combinazione delle entrate e delle spese. c) un rapporto debito / PIL decrescente riduce il rischio che un rialzo dei rendimenti possa creare una crisi.
2.3 - Gli effetti della dinamica salariale
a) se i salari crescono più del prodotto per addetto, ecco che o i prezzi debbono salire, rendendo le merci più costose e quindi meno competitive rispetto a quelle prodotte con salari che crescono come la produttività o meno della produttività. b) I salari in linea o sotto la produttività aumentano il margine di profitto lordo, e dunque la possibilità di ridurre i prezzi, oppure aumentare la qualità a parità di prezzo, e in ogni modo consentono di accrescere l'autofinanziamento d'impresa.
2.4 – Arriva l'euro
A un certo punto è presa la decisione di entrare nell'euro, con ciò intendendo che il debito pubblico sarebbe dovuto andare sotto controllo, e il meccanismo dell'aggiustamento dei conti ( e del consenso) attraverso le svalutazioni reso impossibile. Questa è stata la “grande decisione” presa negli anni Novanta.
In breve. I salari crescevano più della produttività. Ad un certo punto le merci italiane diventavano meno competitive, e dunque o si fermava la crescita salariale, o si investiva in tecnologie superiori, che avrebbero “protetto” la crescita del costo del lavoro. La svalutazione della lira diventava la più semplice delle soluzioni, perché le merci italiane tornavano temporaneamente appetibili, mentre non si toccava la dinamica salariale, ossia si lasciavano intatte le “relazioni industriali”. Questo percorso non richiedeva – almeno nel breve termine – che la tecnologia salisse di livello - una cosa peraltro regolarmente non avvenuta, neppure nel periodo più lungo.
Il “canto del cigno” del modello italiano si è avuto nei primi anni novanta: in seguito alla forte svalutazione che si era avuta con Amato I (1992), l'economia era ripartita, e, con l'arrivo di Ciampi (1993), si raccolsero i frutti. Frutti che continuarono – in misura meno marcata – con Berlusconi I (1994), Dini (1995), e Prodi I (1996). Dal 2000 l'economia italiana cresce meno della media dei Paesi che crescono meno (quelli sviluppati). L'economia italiana dal 2000 cresce meno, ma, nonostante questo, si è avuta la grande occasione di ridurre il debito pubblico. Come è mai possibile? L'Italia ha visto dimezzare, grazie all'euro, il costo del debito. Nel 1996, quando è iniziata la convergenza nell'euro, il rendimento del BTP era intorno al 9%. Anni dopo – nel 2010 - è arrivato al 4%. Oggi è intorno al 4,5%. Insomma abbiamo avuto un dimezzamento del costo del debito. Era la grande occasione – pur senza crescita - per assorbire il debito che si era formato negli anni Settanta e Ottanta, ai tempi della costruzione – che possiamo definire accelerata - dello Stato Sociale, ma così - purtroppo - non è andata. L'euro però ha funzionato, nel senso che ha portato alla convergenza dei rendimenti delle obbligazioni e dell'inflazione, con i Paesi che ne potevano trarre il maggior vantaggio erano quelli “mal messi”, fra cui il nostro.
Tesi 2: Se si torna all'inizio del capitolo, e lo si rilegge avendo in mente quanto è da alcuni dichiarato negli ultimi tempi – la Sovranità è la libertà di usare nel proprio interesse la leva fiscale e monetaria – si ha una riedizione di quanto accaduto negli anni Settanta: un debito pubblico con il costo politico occultato e l'inflazione. Secondo costoro il ritorno della lira aiuterebbe la crescita e quindi l'occupazione. Rileggendo il capitolo, si vede l'altra riedizione degli anni Settanta, Ottanta e Novanta in cui i salari salgono sopra la produttività, perciò si svaluta con la tecnologia che resta immutata.
Parodo
3- Il punto di vista di Berlino (3), (4)
Un'area economica è “ottimale” se, avendo la stessa moneta: 1) ha un mercato dei prodotti comune; 2) ha un mercato dei capitali comune; 3) ha un mercato del lavoro comune; 4) ha un bilancio fiscale comune. L'euro area soddisfa i requisiti 1) e 2). Non soddisfa, in tutto o in parte, i requisiti 3) e 4).
Prendiamo gli Stati Uniti relativamente al punto 3). Se non c'è lavoro nell'area occidentale, la gente va in quella orientale. Relativamente al punto 4), se l'area occidentale è mal messa, ecco che il bilancio federale, che incassa imposte da entrambe le aree, ma, nell'esempio, ne incassa di più dalla parte orientale, trasferisce i fondi verso l'area occidentale. Attenzione, i bilanci statali statunitensi non possono andare in deficit, se non per spese definite come quelle per infrastrutture, e quindi possono emettere solo dei “project bonds”, e perciò solo quello federale ha questa facoltà. Gli stati non possono andare genericamente in deficit – possono sempre alzare le spese se alzano le imposte -, perché altrimenti sarebbero tentati dal farlo, contando che, alla fine, il loro debito statale sarà salvato da quello federale.
La prima differenza dell'euro area con gli Stati Uniti è che, se il Portogallo va male e l'Olanda va bene, è difficile che i lusitani si trasferiscano in massa – per problemi di lingua e di abitudini - nei Paesi Bassi. La seconda differenza è che i bilanci statali dei Paesi dell'euro-area possono andare in deficit, sebbene entro i vincoli (più o meno disattesi) di Maastricht (il famigerato deficit del 3% del PIL, e l'altrettanto famigerato tetto del debito del 60% sul PIL). Non esiste, infatti, nell'euro-area un governo centrale che copra – raccogliendo le imposte da tutti e in caso di crisi di più da alcuni - i deficit degli stati membri.
La Germania (con i Paesi detti “virtuosi”) non garantisce il debito degli altri Paesi. E dunque, quando i Paesi si indebitano troppo, senza dar mostra di poter ripagare il debito cumulato, ecco che l'euro- area conta che i mercati finanziari li “puniscano”, ossia che chiedano un “premio per il rischio”. L'euro-area funziona se i mercati finanziari puniscono le “cicale”, premiando chi è “formica”, ma questo non è avvenuto sempre. Per anni la Grecia ha, infatti, pagato sul proprio debito pubblico un rendimento di poco superiore a quello tedesco.
Perciò nella costruzione dell'euro-area si ha un mercato comune dei prodotti, dei capitali, ma si ha un modesto mercato del lavoro omogeneo, e non si ha – forse un giorno, quando tutti gli Stati dell'euro area avranno il bilancio in pareggio con esenzioni definite per l'emissione di obbligazioni come avviene negli Stati Uniti - un sistema di trasferimenti federale di tipo “automatico”. I trasferimenti che si sono avuti negli ultimi tempi con il “Fondo Salva Stati” sono stati, infatti, tutti oggetto di un lungo negoziato. Possiamo perciò immaginare l'euro-area come un'area economica parzialmente ottimale.
Quel che comunemente è chiamato il “punto di vista di Berlino” si articola in tre proposizioni:
a) La politica economica – la politica monetaria e quella fiscale nel mondo anglosassone e nipponico - spinge la crescita. Ciò che avviene modulando i tassi praticati dalla Banca Centrale in modo che si spinga in giù il costo del denaro e con la Banca Centrale che compra il debito pubblico, se questo è necessario. La politica monetaria è quindi tendenzialmente lasca, e quella fiscale è tendenzialmente in deficit. Perché mai quella fiscale è tendenzialmente in deficit? Con una domanda aggiuntiva - in deficit - di origine pubblica che copre il vuoto prodotto dalla domanda latitante di origine privata, ecco che si ha una spinta che è coperta dall'offerta. Le imprese per far fronte alla maggior domanda devono aumentare l'occupazione. Se le cose stessero così (e se fossero state così anche in passato), ossia se le cose fossero così semplici e persuasive, perché mai si ha chi – soprattutto nell'euro area - non le vuole perseguire (e non le ha volute perseguire in passato)? Le obiezioni sono due.
La prima. La spesa pubblica spinge nella direzione della crescita, se, a fronte di una spesa di 100 euro cui non corrispondono imposte per 100 euro, l'economia cresce per più di 100 euro, poniamo 150 euro, ossia se il moltiplicatore del reddito è maggiore di 1 (150/100=1,5). La spesa aggiuntiva di 100 è finanziata attraverso l'emissione di obbligazioni, per cui il debito pubblico è aumentato di 100. Questo però non è un problema, perché l'economia è cresciuta di 150 euro e il debito pubblico di 100, e dunque al margine il rapporto debito PIL è sceso (100/150=0,75). Se però così non fosse, ossia se il moltiplicatore della spesa pubblica fosse di 1, oppure inferiore, la spesa pubblica in deficit spiazzerebbe il settore privato e spingerebbe verso l'aumento del debito in rapporto al PIL.
La seconda. Ammettiamo che il moltiplicatore della spesa sia maggiore di uno, ossia ammettiamo che esso sia “virtuoso”. Siamo propri sicuri che, una volta che la spesa pubblica sia stata espansa con successo in funzione anticiclica, essa poi rientri? In altre parole, pensiamo che il deficit pubblico, svolto il compito, rientri? Oppure pensiamo che la spesa pubblica per sua natura – essa è, alla fine, “catturata” dai gruppi organizzati - crescerà in modo perpetuo?
b) Se si immagina che un giorno il debito pubblico sarà di gran lunga maggiore di quello di oggi, si immagina anche che le imposte volte a ripagarlo saranno maggiori. Allora oggi si ridurranno i consumi, perché si scontano fin da subito le maggiori imposte di domani. Ossia, maggiore (minore) il debito atteso minori (maggiori) saranno i consumi. Il punto di vista di Berlino afferma che il debito pubblico sotto controllo aiuta la crescita dei consumi.
c) La liberalizzazione del mercato dei prodotti (meno corporazioni) e del lavoro (più contratti decentrati) stimola la crescita e dunque l’occupazione. Perciò il punto di vista di Berlino afferma che queste riforme vadano fatte.
Una politica di austerità spinge verso le riforme. Osserviamo il secondo blocco di grafici, della Banca dei Regolamenti Internazionali, il III.8. I Paesi che hanno meno subito la pressione dei mercati finanziari – il grafico a sinistra - sono quelli che hanno meno reagito alle raccomandazioni di riforma (approssimate dai suggerimenti del “Going for Growth” dell'Ocse). L'asse orizzontale misura il rendimento puntuale dei titoli di stato prima e dopo la crisi. Se questo è sceso – e dunque si è a sinistra rispetto all'asse dello zero – allora le raccomandazioni non sono state seguite e viceversa. Il grafico a destra mostra come le raccomandazioni siano seguite quanto maggiore è la recessione. Le riforme si fanno quasi sempre (“quasi sempre” rende a parole il senso della statistica riportata) se le cose vanno davvero male - il costo del debito pubblico che aumenta e la crisi che morde - altrimenti si preferisce lasciare il mondo tale e quale, sperando che col tempo tutto si aggiusti.
Torniamo alle riforme. Fa parte del senso comune l'affermare che lo sviluppo economico sia tanto maggiore quanto minori sono i vincoli sia nel mercato dei prodotti sia in quello del lavoro. Se non vi sono vincoli, allora le innovazioni si diffondono più facilmente, perché si hanno meno ostacoli nella diffusione dei prodotti, che, a loro volta, possono materializzarsi solo se la forza lavoro si sposta - senza troppe frizioni - dai vecchi ai nuovi settori.
Per una definizione della regolamentazione dei mercati dei prodotti e della tutela dell'occupazione si veda il grafico III.7. Bene, misuriamo questa affermazione – il primo blocco di grafici è il III.5. Il grafico a sinistra mostra sull'asse orizzontale il grado di regolamentazione dei prodotti – man mano che ci si sposta a destra la regolamentazione diventa più stringente - e su quello verticale la produttività del lavoro dei diversi Paesi. Il grafico al centro - mostra sempre sull'asse orizzontale il grado di regolamentazione dei prodotti e su quello verticale il tasso di occupazione dei diversi Paesi. Ne deriva una retta di regressione che si muove dall'alto a sinistra verso il basso a destra, ossia si evince che tanto più il mercato dei prodotti è regolamentato tanto minore è la produttività e l'occupazione. Il terzo grafico collega la regolamentazione del mercato del lavoro al tasso di occupazione. Anche qui si evince che il tasso di occupazione è tanto maggiore tanto minore è la regolamentazione del mercato del lavoro. Abbiano visto che le affermazioni di di senso comune sono molto vicine alla realtà, almeno nel breve termine.
Tesi 3: delle tre articolazioni del “punto di vista di Berlino”, la prima è dubbia, perché il moltiplicatore potrebbe essere maggiore di 1, la seconda è “cervellotica”, perché è difficile pensare che si facciano tutti questi conti sul valore attuale delle imposte, mentre la terza è sostenibile. Insomma, non si ha un punto di vista così chiaro ed evidente che non si possono avere dei dubbi in proposito della ricetta tedesca. Perciò il punto di vista di Berlino va eventualmente accolto, ma sulla base di considerazioni legate alle riforme. Senza austerità le riforme sono rimandate.
4- Il caso della crisi greca e di quella italiana (5), (6)
Una volta che sia esclusa l'uscita dall'euro di uno stato membro, ecco che cade il cosiddetto “premio di conversione”, ossia il premio richiesto per sottoscrivere per esempio un BTP, casomai tornasse la Lira. Dunque anche agli altri paesi “mal messi” conviene (pagando per la propria quota) salvare la Grecia, perché il loro debito pubblico finisce per costare meno. Conviene anche alla Francia, che è un paese candidato al girone dei “mal messi”. Infine, la Germania, una volta che la recessione comincia a colpirla, torna preoccuparsi dell'euro area, dove peraltro si dirige la gran parte delle proprie esportazioni.
I mercati finanziari per anni hanno comprato il debito greco con un rendimento appena superiore a quello tedesco, i greci (i politici e quelli che li votavano) hanno espanso la spesa pubblica in infrastrutture e salari pubblici e la spesa “sociale” in pensioni, istruzione e sanità, attingendo soprattutto dai finanziamenti esteri. I finanzieri, pensando che comunque se la sarebbero cavata, si sono trovati invece con delle perdite cospicue, i greci si sono trovati a dover tagliare in modo brutale quel che avevano lietamente elargito con i denari altrui. La Grecia, entrata nell'euro agli inizi di questo secolo, è potuta crescere importando molto ed esportando poco. Il disavanzo commerciale era finanziato dagli acquisti copiosi di debito greco da parte dell'estero. I greci - in assenza di rischio di cambio - emettevano il debito pubblico con dei rendimenti bassissimi, simili a quelli tedeschi. Il debito era acquistato dal sistema finanziario internazionale evidentemente “miope”. Il rischio era, infatti, “dietro l'angolo”. Superata una certa soglia di debito, un'economia fragile come quella greca non avrebbe potuto più pagarlo. Oltre tutto, sarebbero saliti per effetto del maggior rischio i rendimenti richiesti, che avrebbero reso ancor più impagabile l'enorme debito, che man mano scade e va rinnovato.
L'economia greca è infatti molto statalizzata e, laddove non lo è, si sminuzza in una miriade di imprese “nane”, come le taverne a conduzione famigliare, il turismo, ecc. Laddove il settore privato è forte - come nel campo della marina commerciale - esso alimenta poco la base imponibile, perché la sua sede legale è da sempre estera. Dunque un paese molto statalizzato con una base imponibile molto modesta, con i tavernieri che evadono e gli armatori che eludono. Un paese può certamente essere trainato per molti anni dalle importazioni finanziate dall'estero, a condizione che investa in quelle attività produttive che un domani produrranno per l'esportazione, così ripagando il debito acceso (il “vincolo inter temporale di bilancio”). Nel caso greco questo non è avvenuto. La finanza è stata “miope”. Anche i greci però. Il sistema pensionistico è molto generoso, con delle bizzarrie (ai nostri occhi): la figlia nubile aveva diritto alla pensione del padre defunto. Insomma, un sistema pubblico generoso - volto a comprare il consenso - unito a un'economia reale sminuzzata non poteva reggere. I greci hanno potuto vivere per molto tempo largamente al di sopra dei propri mezzi (bilancia commerciale e bilancio pubblico in forte passivo), e ora devono tornare a vivere molto al di sotto dei propri mezzi (bilancia commerciale e bilancio pubblico in forte attivo).
La famosa lettera della Banca Centrale Europea al Governo italiano del maggio 2011, quella che chiedeva delle riforme per poter procedere nell'acquisto dei nostri titoli del Tesoro, articolava delle richieste. (L'idea retrostante la lettera è che le riforme avrebbero lanciato lo sviluppo che avrebbe ridotto il peso del debito pubblico, rendendolo immediatamente sicuro e quindi acquistabile). Innanzitutto delle riforme strutturali - come le liberalizzazioni, la riforma del mercato del lavoro e della contrattazione sindacale. La manovra sul bilancio pubblico – si noti - arrivava dopo ed includeva il taglio delle spese inefficienti insieme al completamento della riforma delle pensioni. Infine, dopo le riforme strutturali e il taglio delle spese presenti e prospettiche, si richiamava la riforma delle provincie.
Da maggio 2011 fino ai mesi successivi, nulla di quanto richiesto fu fatto, e perciò scattò la pressione dei mercati finanziari. Nel settembre 2011 – quindi prima della grande crisi che portò alla rinuncia di Berlusconi – il Fondo Monetario Internazionale offrì un pacchetto di aiuti finanziari “di tipo precauzionale e a condizionalità morbida” per far fronte all'instabilità dei nostri titoli del Tesoro. Il Governo italiano rifiutò l'aiuto offerto per non sembrare prigioniero dei poteri internazionali a meno di due anni dalle elezioni. A quel punto la crisi si accentuò. Le riforme richieste nel maggio 2011 per continuare con gli aiuti della Banca Centrale, e gli aiuti offerti nel settembre 2011 dal Fondo Monetario non avevano avuto una “sponda” in Italia, e la crisi finanziaria si accentuò. Quelli erano i tempi con lo spread in prima pagina e in prima serata TV. Siamo così giunti alla vexata quaestio dell'intervento dei “poteri forti”, che emerge dopo l'estate del 2011.
Il ragionamento che segue richiede una premessa da “teoria dei giochi”. La minaccia di uscire dall'euro non è una posizione negoziale solida. Infatti, inietta ulteriore sfiducia nei mercati, che devono comprare il debito del “minacciante”, mentre rende sospettosi gli altri paesi che devono concedere gli aiuti, i “minacciati”. Detto in altro modo, aumenta la debolezza di chi minaccia, mentre alimenta la fragilità del sistema. E il sistema cerca, ovviamente, di cautelarsi.
Papandreu diede le dimissioni subito dopo aver annunciato un referendum sull'euro, e Berlusconi fece altrettanto, dopo che ci furono degli incontri riservati con i Capi dei Governi dell'Euro-area in cui fu “ventilata l'ipotesi di un'uscita dall'euro” dell'Italia. Insomma, chi tocca l'euro salta. Ma “perché” salta, e poi “come” salta? Sul “perché” uno salti se tocca l'euro, lo svolgersi delle vicende potrebbe essere stato questo. Non essendo stato Berlusconi in grado né di rilanciare la crescita, né di tagliare la spesa, non gli rimaneva, per evitare la crisi, che il rialzo delle imposte, ma, facendo così, avrebbe smentito la sua “ragion d'essere” (=Meno Stato Più Mercato). Naturalmente non poteva che rifiutare gli aiuti del Fondo Monetario, per non offendere la “dignità nazionale”. Berlusconi rimase perciò fermo, e per tentare di tenere in piedi le cose, tentò la carta del ventilare riservatamente l'ipotesi di un ritorno alla Lira. L'ipotesi seppur solo ventilata, fece scattare l'allarme. Per evitare un'eventuale grande crisi in tutta Europa, Italia inclusa, crisi che si sarebbe avuta con il ritorno alla Lira, ecco che scattarono le “garanzie di sistema”. E siamo al “come”. Sia quelli che in Italia erano atterriti dal ritorno della Lira sia quelli che lo erano negli altri paesi hanno incominciato a lavorare ad una alternativa. Alternativa che, alla fine, poteva andar bene anche a Berlusconi, perché la via che aveva imboccato era senza uscita. E fu così che arrivò Monti.
Berlusconi non fu capace di evitare la crisi nel 2011, mentre Monti, anche con l'appoggio di Berlusconi, ci riuscì. La crisi fu evitata, ma a parti invertite rispetto alla prima richiesta della Banca Centrale Europea: infatti, con Monti, prima ci fu il “Salva Italia” e poi il “Cresci Italia”.
Non essendo la politica, quando è sotto pressione, capace di riordinare le cose nella direzione della crescita, essa finisce per concentrarsi solo sul bilancio pubblico. Più precisamente: poiché il taglio delle spese pubbliche è difficile da attuare - il taglio “selettivo” richiede molto tempo ed è sottoposto a molti freni, si approda inevitabilmente al rialzo delle imposte, perché queste ultime sono pochi capitolati abbastanza facili da mettere in opera. Altrimenti detto, quando si ha una crisi, la raccolta delle imposte ha meno vincoli immediati del taglio delle spese. Il taglio delle spese, a sua volta, condivide il primato di frenare il mutamento con i provvedimenti di liberalizzazione, che si annunciano ma non si attuano.
Tesi 4: la crisi greca ha origine nella debolezza di un'economia che ha speso copiosamente quanto arrivava dall'estero, trovandosi alla fine nella condizione di non poter ripagare il debito cumulato. Anche tenendo conto di questo aspetto, è convenuto agli altri Paesi evitarle una crisi finale, perché così si è potuto abbattere il “premio di conversione”. La crisi italiana del 2011 ha origine nell'incapacità di varare riforme a favore delle sviluppo. Se lo sviluppo non assorbe il gran debito, ecco che il gran debito deve essere stabilizzato dall'austerità.
5 – La crisi non nasce oggi
La competitività è misurata come andamento del costo del lavoro per unità prodotta – CLUP. Nella tabella si ha l'andamento cumulato del CLUP dal 2000 al 2012 dell'Italia e della Germania. Perché il CLUP è importante? a) Se i salari crescono più del prodotto per addetto, ecco che o i prezzi debbono salire, rendendo le merci più costose e quindi meno competitive rispetto a quelle prodotte con salari che crescono come la produttività o meno della produttività. b) I salari in linea o sotto la produttività aumentano il margine di profitto lordo, e dunque la possibilità di ridurre i prezzi, oppure aumentare la qualità a parità di prezzo, e in ogni modo consentono di accrescere l'autofinanziamento d'impresa.
Come si vede dalla tabella, che scompone questi andamenti, l'Italia è andata visibilmente peggio della Germania. I salari italiani sono saliti quasi del 40% e la produttività non si è quasi mossa, mentre i salari tedeschi sono saliti appena più della produttività. Sommando le variabili – sotto “Altro” si trovano variabili come le imposte relative che hanno inciso molto poco – si scopre – incrocio fra la quinta colonna e la quarta riga - che il CLUP italiano è cresciuto più di quello tedesco del 30% circa – un numero piuttosto alto. I salari italiani erano nel 2000 la metà di quelli tedeschi, da allora sono saliti molto di più, anche se restano ancora inferiori. Il minor disallineamento salariale fra i due Paesi non lo si è ottenuto con una forte crescita della produttività che mantenesse elevata - nonostante la crescita salariale - la competitività dell'Italia, ma con un suo ridimensionamento.
Cumulato % | Salari | Produttività | Altro | Totale |
Italia | 39,5 | 2,7 | Non significativo | 35,3 |
Germania | 21,1 | 16,7 | Non significativo | 3,1 |
Differenza | 18,4 | -14 | 32,1 |
|
Tesi 5: se si fosse sicuri che torna la Lira, il debito pubblico dovrebbe avere un sovra rendimento – cedola più prezzo - pari alla svalutazione attesa, dunque nell'ordine di un 25% (la differenza cumulata di costo del lavoro per unità di prodotto fra Italia e gli altri Paesi). Avremmo anche il ritiro cospicuo dei depositi. Le banche non avrebbero perciò un passivo sufficiente per finanziare le imprese.
Esodo
6 – Conclusioni (8), (9),
E' innegabile che l’euro sia una costruzione economica e finanziaria imperfetta (vedi il terzo capitolo). Lo si sapeva fin dall'inizio, ma la volontà di andare avanti sul piano politico è prevalsa (vedi il secondo capitolo). Altro però è pensare che un'economia vulnerabile dal punto di vista finanziario come la nostra possa uscirne (vedi il quinto capitolo). Anche perché non è per nulla chiaro se l'euro sia stato una “grazia” oppure una “disgrazia”.
La discesa dei rendimenti sul debito pubblico, che si è ottenuta grazie all'euro, è, infatti, una grazia, mentre non è chiaro, come pensano alcuni, se l'ingresso nell'euro sia stato una disgrazia nel campo dell'economia reale. Si può pensare che l’introduzione dell’euro – ciò che è avvenuto dopo anni di integrazione comunitaria - sia stato uno shock positivo di apertura al commercio internazionale per una piccola economia aperta come l’Italia. Uno shock come la “riduzione della volatilità del cambio” è equivalente a uno shock che riduce le barriere al commercio internazionale. Le imprese più produttive, quelle che lavorano nei mercati aperti, possono, se capaci, crescere, mentre le altre, che non sono state capaci di diventare più competitive, vanno male.
Rilanciare la crescita attraverso un maggior deficit di bilancio rinegoziata con gli altri Paesi e quindi restando nell'euro – a parte l'obiezione che non è detto che funzioni – potrebbe essere la scusa per evitare di incidere sulla struttura delle entrate e delle uscite dello stato e una scusa a lasciare intatti i mercati dei prodotti e del lavoro. Insomma, una scusa per lasciare le cose come sono. Il Rilancio fiscale con il ritorno alla Lira, a parte il probabile crack del debito pubblico e delle banche, sarebbe come tornare indietro di trenta anni.
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(1) Jan-Werner Muller, Contesting Democracy, Political Ideas in Twentieth Century Europe, Yale
(4) http://www.lavoce.info/il-contributo-di-solidarieta/
(8) http://noisefromamerika.org/articolo/euro-domanda-produttivita-viaggio-nel-mito-parte-1
(9) http://noisefromamerika.org/articolo/euro-domanda-produttivita-viaggio-nel-mito-parte-2
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