L’età media dei lavoratori giapponesi impiegati nelle oltre 3.000 società quotate è di trentanove anni e si presume che vadano in pensione mediamente a sessanta anni, ovvero fra circa vent’anni. Il rendimento garantito dai fondi pensione è mediamente del 2%; ciò significa che i gestori dei fondi pensione devono ogni anno, e per i prossimi venti anni, trovare almeno lo stesso rendimento per potere onorare gli impegni presi. Per raggiungere questo obiettivo la soluzione più immediata e semplice consiste nell’acquistare titoli governativi giapponesi di pari scadenza. L’Istituto degli Attuari Giapponesi (quelli che calcolano con modelli matematici la sostenibilità finanziaria dei programmi pensionistici) ha misurato una forbice di tassi del 1,6%-2,5% per il lungo periodo, indispensabile per garantire le pensioni future.
Il problema nasce quando il tasso dei titoli ventennali giapponesi scende stabilmente sotto il 2% (ovviamente non si pone se i tassi dovessero salire stabilmente sopra il 2%). Infatti, ipotizzando 100 yen di obblighi pensionistici di partenza abbiamo: 20 anni x 2% x 100 yen = 40 yen, valore che dovrò riconoscere tra venti anni ai nuovi pensionati. Se il tasso di mercato dei titoli ventennali è 1,5% dopo venti anni avrò: 20 anni x 1,5% x 100 yen = 30 yen. Alla fine mancheranno 10 yen (40-30=10) da riconoscere ai pensionati e che le aziende dovranno pagare con il proprio patrimonio.
Essendo il rendimento già sceso sotto la soglia minima del 1,6% i fondi pensione giapponesi devono andare alla ricerca di altre emissioni con rendimenti superiori ma, ovviamente, denominate in altre valute. L’intervento della banca del Giappone a favore dell’indebolimento duraturo dello yen rappresenta il supporto per questo fenomeno, evitando perdite in conto valutario. Escludendo la Svizzera che ha rendimenti ancora più bassi del Giappone, tutte le altre emissioni di pari durata e di emittenti di dimensioni consistenti vanno dal 2% tedesco al 5% italiano e spagnolo. Gli Stati Uniti non emettono titoli ventennali, ma la media tra i decennali e i trentennali è superiore al 2%.
Bisogna ricordare alcuni aspetti. L’elevatissimo debito giapponese non dovrebbe preoccupare più di tanto nell’acquisto di debiti di paesi comunque molto meno indebitati (al netto dell’effetto valutario peraltro “coperto” dalla politica monetaria iper espansiva della Banca del Giappone). Inoltre il fenomeno ha caratteristiche di urgenza dato l’obbligo, a partire dal bilancio chiuso a marzo 2013, di contabilizzare le eventuali perdite future sugli obblighi pensionistici. Infine, il pesante riacquisto di titoli da parte della Banca del Giappone prima della chiusura dei bilanci (i rendimenti ventennali sono scesi fino al 1%) dovrebbe avere generato consistenti plusvalenze in conto capitale per sanare le perdite generate nel 2013 dal meccanismo sopra citato.
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