Le proteste in Ucraina hanno ripreso vigore, ma l'Unione Europea non è in grado di offrire risposte immediate
A quasi due mesi dall'inizio delle dimostrazioni, i manifestanti filo-europeisti accampati in piazza Indipendenza a Kiev, ribattezzata ormai "piazza Europa", non accennano a smobilitare e, anzi, le loro file tendono ad ingrossarsi ulteriormente, dopo aver già oltrepassato la soglia di mezzo milione di persone lo scorso 8 dicembre. Proprio in queste ore la protesta ha ripreso vigore e si susseguono gli scontri con le forze dell'ordine, al punto che l'ex pugile Vitali Klitschko, uno dei leader dell'opposizione ucraina, ha detto di non escludere che possa scoppiare una guerra civile.
Ufficialmente, lo scopo iniziale delle manifestazioni era quello di salutare una nuova, importante tappa di avvicinamento verso Bruxelles, ossia la stipulazione degli accordi di associazione all'Unione Europea nel corso del summit di Vilnius del 28 e 29 novembre scorsi, un passo decisivo per un paese il cui nome, non a caso, significa "zona di confine".
Contestualmente, gli organizzatori miravano a sfruttare la vetrina mediatica allestita a Kiev per mettere in luce le contraddizioni del presidente filo-russo Yanukovich e del suo governo, di cui testimoniano le numerose interviste rilasciate da Evgenia Tymoschenko ai media anglosassoni sulle sorti della madre Yulia, ex premier ancora detenuta.
Ma essi puntavano anche a fare pressioni sul capo dello Stato per scongiurare che questi, in ossequio al diktat di Putin, compisse un clamoroso voltafaccia.
Cosa che si è puntualmente- o "inaspettatamente", per bocca degli emissari di Bruxelles- verificata. Yanukovich ha infatti ribadito la propria fedeltà a Mosca rifiutando di firmare accordi che altre repubbliche ex sovietiche come la Moldavia e la Georgia, considerate più indietro nel cammino d'adesione, hanno invece sottoscritto di slancio.
Motivi geopolitici, prima ancora che economici spiegano il diverso atteggiamento di Chishinau e Tbilisi rispetto a Kiev.
I Moldavi, dopo un quindicennio di assestamento post-sovietico, stanno gradualmente intuendo i benefici derivanti dall'essere parte della cultura romena da quando Bucarest è diventata membro dell'Unione.
Pur di rafforzare i rapporti coi fratelli occidentali, a Chishinau potrebbero accettare una soluzione kossovara per la Transnistria, una repubblica autonoma a maggioranza slavofona che reclama la propria indipendenza e col tempo, da spina nel fianco, è diventata un fardello che Putin utilizza per ingerire nella vita politica del Paese.
Tbilisi invece sta tentando di affrancarsi dall'influenza russa, da quando nel 2008 il presidente russo ha voluto ribadire in modo eclatante i rapporti di forza con la piccola repubblica caucasica. Il summit di Vilnius, tra l'altro, cadeva a dieci anni dalla rivoluzione delle rose, che segnava una svolta filo occidentale per il Paese, su cui il neoeletto (17 novembre) presidente Margvelashvili non intende deflettere, pur distanziandosi su molti punti dal predecessore Saakashvili, anima dei fatti del 2003
Un altro anniversario rivoluzionario-colorato, il nono, cade anch'esso in questo periodo proprio a Kiev. Nel 2004 gli "arancioni", cui i manifestanti di Piazza Europa vengono spesso accostati, partivano dalla contestazione della vittoria fraudolenta di Yanukovich per chiedere una sterzata in senso filo-occidentale.Ma quella spinta si è esaurita in breve tempo a causa di un'infausta concatenazione di attese mancate.
Certo, l'incapacità del duo Yushenko-Tymoschenko era patente, ma anche le eccessive pretese di Stati Uniti e UE, fatte senza peraltro concedere significative contropartite, così come i continui ricatti di Putin sul piano energetico e, più in generale, economico hanno avuto il loro peso. Malgrado la tensione europeista di una parte del Paese, tra l'altro ben definita dal punto di vista geografico, quasi due terzi dei beni che l'Ucraina esporta sono diretti al mercato ex sovietico, e solo il 26% verso l'UE (Figura 1).
Dei rapporti con Mosca beneficiano soprattutto le regioni orientali e meridionali, quelle in cui il PIL è più elevato (Figura 2), in particolare quella del Donbass, che salvo brevi parentesi hanno sempre espresso la classe dirigente di Kiev fin dai tempi sovietici. Lì si snoda la spina dorsale industriale di tutto il Paese, in particolare siderurgica ed estrattiva, la cui economia è maggiormente integrata con quella delle regioni russe limitrofe che non con quelle ucraino-occidentali, tenute a galla dagli scambi commerciali transfrontalieri con i Paesi della UE.
Da una brusca virata verso Bruxelles, le zone orientali e meridionali, che rappresentano quasi la metà della popolazione (Figura 3) e del territorio ucraino, temono una conseguente ritorsione da parte russa sul piano dei dazi commerciali e dei visti. L'emigrazione rimane infatti una valvola di sfogo per una forza lavoro che, malgrado sia giovane ed altamente qualificata, difficilmente riesce ad affermarsi in patria, specie dopo il tracollo economico del 2009 (Figura 4) e la stagnazione in cui il Paese è avviluppato nonostante il (largamente inattuato) piano di riforme di Yanukovich su cui impattano le inefficienze della pubblica amministrazione (Figura 5).
A breve, l'Unione Europea non è in grado di offrire risposte ai problemi e alle speranze ucraine, avvitata com'è nelle dinamiche pre-lettorali in cui emerge un drammatico scollamento tra le tecnocrazie e l' opinione pubblica, che nei Paesi membri depauperati dalla crisi ma anche dalle cure imposte in sede comunitaria e nazionale, appare sensibile come non mai ai richiami di movimenti anti europeisti e/o xenofobi.
Da quella che vedono come la terra promessa, i manifestanti non possono attendersi molto di più della passeggiata che Lady Ashton ha voluto concedersi nella piazza occupata di Kiev, né per riprendere il processo d'adesione né per risolvere i loro problemi interni.
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