Le rivolte popolari degli ultimi mesi in Iran hanno stimolato riflessioni sulle cause profonde di un diffuso malcontento popolare. Sono stati evidenziati, in questo senso, problemi legati alla libertà di espressione, all’emancipazione di genere, ai diritti politici. Allo stesso tempo, la situazione economica del paese non può non rappresentare un fattore decisivo dietro le rivolte. Specie quando consideriamo che, durante la rivoluzione islamica del 1979, proprio questioni economiche (specie ineguaglianza tra classi sociali, sperequazione delle risorse petrolifere, accompagnati da corruzione e malversazione) furono tra le sue cause scatenanti.

I leader di allora, primo tra tutti l’ayatollah Khomeini, fecero proprie istanze dei ceti più bassi (specie lavoratori del settore manufatturiero ed energetico, così come la piccola borghesia urbana), riferendosi ad essi come mostaza’fin, gli ‘oppressi’. La classe clericale proponeva un cambio radicale non solo politico, ma anche economico. Nel contesto della guerra fredda, ecco dunque il progetto di un’economia morale islamica. Essa veniva presentata come una terza via alternativa sia al capitalismo occidentale che al comunismo sovietico e terzomondista: lo slogan era ‘la gharbiah, la sharqia – jumhurah-e islamiah’ – né Occidente, né Oriente, ma Repubblica Islamica.

In cosa consistesse tale progetto non era per nulla chiaro, al di là dei proclami. Problemi di gestione dell’economia politica avevano occupato solo marginalmente le riflessioni di Khomeini e dei suoi seguaci. Più facile era riconoscervi alcuni temi ricorrenti. In primo luogo, il rifiuto di principio della politica economica del regime dello Scià. Questi si era preoccupato soprattutto di crescita, trascurando una equa distribuzione di redditi e risorse. Ora il regime teocratico poneva come centrale l’uguaglianza tra classi sociali. Se lo Scià sosteneva proprietà e imprenditoria privata, ecco che la Repubblica Islamica si sarebbe lanciata in un programma di nazionalizzazione di industrie e servizi chiave (come il settore bancario, assicurativo, e il commercio estero). Quando i Pahlavi intendevano porsi come partner per le economie di Europa, Usa e Giappone, ora l’Iran si sarebbe rivolto in primo luogo ad un non meglio definito universo musulmano e terzomondista.

Il mausoleo di Ruhollah vicino a Teheran

In secondo luogo, il governo teocratico si erigeva come controllore di ultima istanza dell’economia. Questo non deve farci pensare a un regime di stampo socialista. Piuttosto, ad un sistema ibrido, che mostrava tratti di corporativismo, dirigismo statalista, collettivismo ed istanze moralizzatrici dal sapore paternalista, mantenendo al contempo la proprietà privata e la libera iniziativa individuale, se non altro in principio.

Ad oltre quarant’anni dalla rivoluzione, possiamo dunque chiederci: ha essa mantenuto le sue promesse di una più equa distribuzione della ricchezza nazionale? E quindi: in quale stato si trova l’economia della Repubblica Islamica?

Ogni discussione di questi temi ruota attorno a due perni ineludibili: la politica economica del regime teocratico; e le sanzioni americane. Infatti, preso atto delle evidenti carenze del sistema economico iraniano, a chi attribuirne la responsabilità? In realtà, politiche economiche domestiche e sanzioni internazionali non sono cause che si escludono a vicenda. Esse rappresentano invece concause per capire come l’Iran sia meno prospero non solo delle economie occidentali, ma anche rispetto a paesi comparabili come potenzialità e traiettorie di sviluppo. Prendiamo per esempio Turchia e Corea del Sud. Nel 1950, il Pil della Turchia era del 22% superiore a quello iraniano; quello coreano era del 60% inferiore. Nel 1977, l’ultimo anno prima dello scoppio della rivoluzione, l’economia iraniana era invece un quarto più grande di quella turca e due terzi più di quella coreana. Tuttavia, nel 2017, a quarant’anni quasi dalla rivoluzione, l’economia turca era 2.4 volte quella iraniana. La tigre asiatica coreana era addirittura 7.2 volte più grande.

Fonte: Maddison Project Data 2018 -brookings.edu

Cosa ci suggeriscono questi dati? In primo luogo, è certamente plausibile che la crescita economica iraniana degli anni ’70 sia stata determinata dal boom petrolifero che seguì la guerra dello Yom Kippur nel 1973. L’Iran vide tra il 1974 e il 1979 entrate derivanti dagli idrocarburi nell’ordine del trilione di dollari. Nel 1974, in particolare, l’Iran produsse 6 milioni di barili di petrolio al giorno, cifra rimasta insuperata. Ma non è tutto oro quel luccica(va): appunto all’apice di questo periodo si ebbe la rivoluzione. La crescita economica, in altre parole, non si tramutò veramente in sviluppo economico tout-court e conseguente legittimazione popolare per il regime imperiale. Fu una dinamica simile a quella di moltissime altre economie basate sull’export di materie prime: entrate massicce a livello finanziario che però non venivano tradotte in una effettiva diversificazione dell’economia. Inoltre, erano endemiche corruzione e nepotismo: una classe relativamente ristretta di imprenditori, faccendieri e affaristi beneficiò in maniera sproporzionata degli introiti petroliferi; i mostaza’fin cui si rivolgeva Khomeini erano invece esclusi da tutto ciò, e assistevano ad una crescita esponenziale del costo della vita come delle diseguaglianze economiche.

Con gli ayatollah al potere, le risorse di idrocarburi rimasero la risorsa più importante per il regime. Ma le sanzioni americane andarono a colpire immediatamente il settore. Questo avvenne in due modi. Primo, gli Usa si rifiutarono di comprare il greggio iraniano, e imposero lo stesso agli alleati (o satelliti) come Europa occidentale e Giappone. Secondo, il comparto petrolifero soffriva allora di scarsissima competenza tecnologica per la gestione, riparazione e ammodernamento degli impianti. Una volta che i tecnici occidentali lasciarono il paese, e con essi anche l’accesso alla componentistica per far funzionare appieno gli impianti, il tracollo delle esportazioni fu netto. A questo si aggiunga la guerra, dal 1980 al 1988, con l’Iraq di Saddam, che comportò gravi danni alle infrastrutture petrolifere. Da circa 6 milioni di barili al giorno negli anni ’70, negli anni ’80 l’Iran produsse tra gli 1 e 2 milioni di barili.

Fonte: U.S. Energy Information Administration - EIA

Le sanzioni economiche, oggi come allora, prevedono di isolare il paese dal mercato globale. Per esempio, l’Iran non fa parte del Wto o del sistema di pagamento Swift, rendendolo di fatto un paria economico-finanziario. È vero che le sanzioni secondarie applicate dagli Usa a paesi terzi che vogliano fare affari con Teheran hanno un effetto dissuasivo relativo per paesi come la Cina, che infatti importa enormi quantità di greggio. Ma è altrettanto vero che l’accesso negato a tecnologia e mercati occidentali rappresenta un fortissimo freno inibitore ad una crescita economica commensurata alle potenzialità del paese, a livello non solo di risorse naturali ma anche, e soprattutto, umane.

Dobbiamo quindi considerare come il regime abbia gestito l’economia sotto regime sanzionatorio. Proprio l’industria degli idrocarburi offre uno spunto importante. Dopo anni di sanzioni, l’Iran ha sviluppato una sua industria autoctona nel settore gasiero (inesistente ai tempi dello Scià, quando invece l’Iran ha i secondi giacimenti al mondo dopo quelli russi), nella raffinazione (per paradossale che possa sembrare, l’Iran era un importatore di combustibili, dato che non aveva la tecnologia per raffinare il greggio in loco), in quello del petrolchimico. Ha fatto lo stesso virtualmente in ogni altro settore. Per esempio, l’Iran è il sedicesimo produttore mondiale di auto, che non può importare. Produce infatti localmente quasi tutto ciò di cui abbisogna, dai prodotti industriali ai beni di consumo, dalle infrastrutture ai medicinali. Autoctoni e autarchici sono pure i settori delle costruzioni e delle telecomunicazioni. Non è un sistema al livello tecnologico delle economie occidentali, e neanche lontanamente così ricco: ma l’Iran è riuscito a creare un’economia autosufficiente in pressoché tutti i settori. In questo senso, il comparto petrolifero, assolutamente dominante sotto lo Scià, rappresenta ora solo il 5% dell’economia iraniana, sebbene sia di gran lunga la principale fonte di entrate dall’estero.

A ben vedere, l’Iran è sopravvissuto alle sanzioni tramite una politica economica imperniata a livello ideologico sul dirigismo statalista, tipica di sistemi sotto assedio e non dissimile, per certi versi, dalle economie di guerra, cosa che l’Iran ha comunque vissuto negli anni ’80: piani economici statali, razionamento di beni, anche alimentari, soppressione di diritto allo sciopero, salari bloccati. La svolta rivoluzionaria ha comportato politiche stataliste che hanno soppresso la nascente borghesia imprenditoriale sotto lo Scià, nazionalizzando come accennato comparti chiave dell’economia. La burocratizzazione del sistema ha compromesso la facilità di impresa, in principio sempre possibile. La statalizzazione si è infine articolata secondo dinamiche propriamente peculiari del sistema teocratico: fondazioni religiose legate al regime (dette ‘bonyad’) sono diventate importanti attori economici. Teoricamente private, in realtà si comportano come industrie e compagnie pubbliche, beneficiando degli stessi vantaggi. Esempio ancor più importante è quello dei pasdaran, i Guardiani della rivoluzione impegnati in questi mesi nella soppressione violenta delle manifestazioni. Si tratta di un esercito parallelo alle forze armate regolari, che può vantare circa mezzo milione di effettivi, e il cui compito primario è la difesa del regime (non dello stato né, tantomeno, della popolazione). Ebbene, i pasdaran hanno interessi in una serie di industrie e comparti chiave, da quello militare a quello delle infrastrutture, da quello delle telecomunicazioni a quello delle costruzioni. Non sono solo un esercito parallelo: sono un attore economico parallelo allo Stato, in relazione simbiotica con il regime. Se dunque consideriamo bonyad e formazioni para-statali come i Guardiani, stime parlano di un controllo statale (e quindi non privato) dell’economia iraniana di circa l’80%.

 
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È vero dunque che l’Iran ha comunque conosciuto una crescita economica dopo la rivoluzione, seppur non travolgente; che la disuguaglianza è diminuita rispetto al regime dello Scià; che è sopravvissuto ad un severo regime sanzionatorio. È altrettanto vero che la soppressione dell’iniziativa privata, l’eccessivo statalismo e la corruzione endemica fanno dell’Iran tutto meno che un’economia fiorente. È a questo punto che possiamo tornare a riflettere sulle rivolte in corso.

L’Iran ha infatti investito moltissimo nell’istruzione dei suoi giovani per sopperire appunto alla mancanza di competenze acquisibili dall’estero. Un iraniano su dieci ha un diploma di laurea. Ma a questa offerta di lavoro istruita non corrispondono adeguate possibilità di impiego. L’Iran sta, in altre parole, sperperando l’immenso capitale umano delle sue giovani generazioni, istruite e capaci. Alle loro rimostranze, il regime ha risposto nell’unica maniera che conosce, con brutalità e repressione.