La fine della Guerra fredda ha avviato una fase cruciale per l’Africa. Dopo il crollo dell’Urss, sospeso il suo coinvolgimento in Paesi come Etiopia e Angola, si cominciò a parlare di modernizzazione e il sogno di un “rinascimento” africano guadagnò terreno.
L’Occidente si mostrava più attento alle questioni dei diritti umani, agli obiettivi di buon governo e di democrazia, di buoni sistemi economici e di buone pratiche commerciali. Questo cambio di atteggiamento era dovuto in parte al senso di colpa, indotto in particolare dai media, per l’inerzia dell’Occidente di fronte a tragedie africane come il genocidio dei Tutsi in Ruanda nel 1994.
Le complesse relazioni tra Occidente e Africa
Tuttavia, gli attacchi islamisti di Al Qaeda alle ambasciate degli Stati Uniti in Kenya e in Tanzania, nell’agosto 1998, e l’11 settembre determinarono profondi mutamenti nella politica a livello globale. Il terrorismo islamico rese ancor più complesse le relazioni fra Occidente e Africa. Washington e altre capitali chiusero un occhio sull’ inadeguatezza di certi governi africani, sostenendo regimi autoritari ed ibridi in cambio di una cooperazione militare contro il terrore, talvolta con effetti controversi come per la diffusione della milizia islamista di al-Shabaab.
Eppure le economie africane rivelavano una capacità di crescita straordinaria, alimentata in gran parte da interventi industriali e finanziari di player relativamente nuovi come Cina e India. La corsa alla spartizione delle risorse del Continente consentiva ad alcuni Stati africani di scegliere strategicamente e funzionalmente i propri partner fra le ex potenze imperiali e i nuovi attori geopolitici.
Fra il 2000 e il 2010, l’eccezionale aumento del Pil nell’Africa sub-sahariana (in media + 5,7%) con alcune delle economie a più rapida crescita del mondo (Angola, Nigeria, Etiopia, Ciad, Mozambico, Ruanda) ebbe esiti contrastanti. Per Paesi ancora dipendenti dall’agricoltura, l’avvio di una crescita del settore industriale fu positivo. Ma in alcune nazioni le implicazioni politiche ed economiche dello sviluppo trainato dallo sfruttamento di una o più preziose materie prime, come il petrolio, furono deleterie sul piano della democrazia e dei diritti finendo con l’avvantaggiare le élites e i regimi al potere, nonché la diffusione della corruzione.
La corsa alla spartizione delle risorse africane da parte di investitori come la Cina o il Qatar non ha più subordinato l’impegno economico a prescrizioni e vincoli politici e morali, anche se sovente più formali che sostanziali, come è avvenuto in passato con i partner occidentali.
Pechino ha operato per stabilire una solida presenza sia attraverso l’impegno politico ad alto livello sia con l’accesso al finanziamento dei più importanti e urgenti progetti infrastrutturali. A eccezione di pochissimi Stati, i governi africani hanno firmato memorandum of understanding per partecipare alla Belt & Road Initiative. Le compagnie cinesi hanno realizzato migliaia di progetti di trasporto, elettricità, telecomunicazioni. Pechino ha anche sostenuto lo sviluppo di parchi industriali e ha assunto una posizione dominante in molti mercati africani per prodotti come beni di consumo, materiali da costruzione, fabbriche e macchinari, equipaggiamenti elettronici.
Le mani di Pechino sul Continente Nero
La Cina è il maggior singolo partner commerciale e fornitore di prestiti e investimenti esteri diretti; ma il secondo dopo la UE. Gli scambi commerciali in beni si sono costantemente rafforzati dal 2009 al 2019, in particolare rispetto a quelli con gli USA che, nel 2019, erano ridotti a 1/ 4 di quelli cinesi. La presenza di suoi esperti e lavoratori è massiccia e rivela un salto di qualità nella integrazione economica dell’Africa alla Cina. Secondo un rapporto dell’Economist, è di particolare rilievo che, in Angola e in Etiopia, tanto le imprese cinesi quanto quelle locali operanti nel comparto delle costruzioni e nei settori manifatturieri impegnino altrettanta manodopera cinese che locale, pagata e formata in modi simili. I prestiti di Pechino, negli ultimi vent’anni, sono stati diretti innanzitutto ai Paesi più ricchi di risorse (Angola, Algeria, Repubblica democratica del Congo, Egitto, Nigeria, Sud Africa e Zambia sono i maggiori beneficiari). Mentre Gibuti, Etiopia, Kenya e Tanzania hanno ricevuto i finanziamenti più consistenti per infrastrutture logistiche e industriali.
Le relazioni fra Africa e Cina sono state messe alla prova dall’impatto del Covid-19 sul Continente nel 2020, a cui il governo e le compagnie cinesi stanno rispondendo con una proiezione geopolitica più intensa, rilanciando la propria influenza con i rapporti di “amicizia” per proteggere i propri interessi strategici e per creare le fondamenta di legami commerciali ancora più forti negli anni a venire. Come dimostra la scelta strategica di intensificare e di moltiplicare gli accordi bilaterali e collettivi di libero scambio con i Paesi africani che potrebbero divenire sempre più complessivi.
I sentimenti anti-cinesi
L’altra faccia della medaglia della politica neo-imperiale di Pechino, è l’estendersi di sentimenti anti-cinesi fra cittadini risentiti per la influenza economica cinese e per la mancanza di creazione in situ di lavori ad alto valore associati a investimenti cinesi. Si diffonde la percezione che le élites al potere siano complici nella politica predatoria di risorse nazionali e nella sostituzione di lavoratori e prodotti africani con quelli cinesi.
Che siano giustificati o meno, questi sentimenti, infiammati anche da sospetti su sperimentazioni a danno degli africani legate al Covid-19, nel 2020 hanno accresciuto le tensioni e saranno difficili da cancellare. Cosicché è probabile un nuovo impegno di Pechino in futuri massicci investimenti.
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