Dal 2010 il governo cinese è stato profondamente coinvolto, sovente dietro le quinte, in una vasta ondata di acquisizioni attraverso l’Europa. Dei 650 investimenti cinesi in Europa, secondo la società olandese di consulenza Datenna, all’incirca il 40% è avvenuto con il coinvolgimento di aziende possedute o controllate dallo Stato.
I più importanti investimenti, come l’acquisizione da parte di China National Chemical Corp. di un brand storico dell’Italia come Pirelli & C., nel 2015, sono stati compiuti da compagnie di proprietà dello Stato cinese. Meno evidente appare, invece, il coinvolgimento di Pechino in centinaia di accordi più piccoli, in particolare nel settore delle tecnologie avanzate. L’estensione di questa presenza dello Stato cinese nell’economia europea getta luce sulla mancanza e sul ritardo con cui i governi europei hanno affrontato la questione. Adesso anche Bruxelles sta premendo su Paesi affinché si assicurino che le loro aziende non vengano vendute a prezzo di saldo a causa della crisi economica provocata da Covid-19.
La strategia di Xi Jinping
Pechino cerca l’indipendenza economica da quando Washington ha chiuso l’accesso ai microchip e ad altre tecnologie civili avanzate “dual-use”, utilizzabili potenzialmente per applicazioni militari. L’amministrazione di Xi Jinping mira all’autosufficienza di Pechino in una vasta gamma di settori tecnologici sinora dominati dagli USA. Il Comitato Centrale cinese ha firmato da poco il XIV piano quinquennale, ancora in attesa di essere reso completamente pubblico.
Da tempo Xi Jinping ha stretto il controllo del governo e del PCC sopra l’economia e la società e anche recentemente il Politburo cinese ha spronato a un maggior lavoro “per realizzare la leadership del partito sull’economia privata”. Il continuo mix di politica e business, con il PCC che si insinua nelle strutture di governance delle compagnie private, finisce con l’offuscare la distinzione fra business e Stato.
Quando la crisi dell’euro un decennio fa piegò le economie del Sud Europa, Portogallo, Grecia e Italia vendettero infrastrutture di grandi dimensioni come società elettriche e porti ad acquirenti cinesi. La società di consulenza Rhodium Group ha scoperto che il 56% dei 188 miliardi di dollari di investimenti diretti cinesi nella UE fra il 2010 e la prima metà di quest’anno provengono da compagnie di Stato.
Business as usual
Anche negli Stati Uniti, malgrado i rischi e i costi associati agli affari con Pechino, il business as usual continua nonostante il caldeggiato decoupling. I legami sono rilevanti in particolare nell’high-tech ma anche nella finanza dove si stanno rafforzando. La profondità e l’ampiezza dei legami commerciali fra Usa e Cina, con scambi annuali per miliardi di dollari, complica ogni strategia di decoupling.
In questo scenario, la finanza è un fronte positivo nelle relazioni sino-americane, e ciò mentre Pechino sta tentando di velocizzare le riforme di mercato e attrarre investimenti esteri. Le nuove regole recentemente adottate rendono più facile per gli investitori internazionali entrare nel mercato dei capitali cinesi dando impulso allo sviluppo del suo sistema finanziario. Nei primi otto mesi dell’anno i bond cinesi detenuti da investitori istituzionali esteri sono cresciuti di oltre il 20%. A Wall Street gruppi come BlackRock, Citigroup, JPMorgan e Chase hanno deciso di espandere i loro affari in Cina. Il rendimento di un bond cinese a dieci anni è 3,18 % rispetto allo 0,8% negli USA. Dal punto di vista di Pechino, si tratta soltanto di accelerare un’agenda di lungo termine focalizzata sulle proprie necessità di mercato. Dal punto di vista degli investitori stranieri, il mercato dei bond cinesi è semplicemente troppo redditizio per essere ignorato.
Lo scenario geopolitico instabile
Dopo aver speso gli anni recenti a ridurre i livelli del debito interno e a resistere alla guerra commerciale lanciata da Trump due anni fa, XI sta spostando la sua attenzione sulla crescita autosufficiente. In uno scenario internazionale via via più complicato, incerto e instabile Donald Trump ha cercato di negare alle compagnie cinesi come Huawei tecnologia nevralgica americana, e Xi ha risposto enfatizzando l’importanza di porre fine alla dipendenza da fornitori di tecnologia straniera. Egli ha promosso una nuova strategia economica a circolazione duale che dà la priorità all’importanza di rafforzare la domanda interna e l’innovazione tecnologica rispetto alla più stretta integrazione con il mondo esterno. Nell’ottobre 2017, all’inizio del suo secondo mandato quinquennale, Xi dichiarò che il Paese avrebbe raggiunto una moderata prosperità entro il 2035 e avrebbe raggiunto i ranghi delle nazioni più ricche e più tecnologicamente avanzate entro il 2050. Potenzialmente il decoupling con gli USA e la deglobalizzazione potrebbero aggiungere troppa pressione sull’economia cinese. Da un canto, Pechino mira all’autosufficienza ma non è detto che riesca a sfuggire alla trappola del reddito medio. Dall’altro, i dirigenti del PCC potrebbero dare troppo per scontato il declino degli Stati Uniti.
È pur vero che la Cina sta diventando un motore importante per tutto il mondo. Con l’economia mondiale che si ridurrà del 4,4% quest’anno, secondo il FMI, la contrazione più forte nella storia recente, la Cina si espanderà dell’1,9%. Secondo una analisi del Financial Times, complessivamente la quota di export spedita in Cina è cresciuta dell’11% in tre mesi a giugno, il livello più alto dagli anni ’80.
Le esportazioni
Tutti i maggiori Paesi dell’Indo-Pacifico hanno incrementato il loro export verso Pechino. Anche i Paesi europei stanno esportando stabilmente verso la Cina. Materie prime e macchinari sono le categorie più importanti ma cibo e bevande sono cresciute significativamente. BMW, Audi e Mercedes-Benz sono fra i beneficiari di questo recupero nelle vendite. Ma l’Italia ha ottenuto da questa rapida ripresa cinese un +33% a settembre rispetto allo stesso periodo del 2019. Intanto la quota globale di export cinese è cresciuta grazie al Covid-19. Secondo WTO il 44% dell’export globale di materiale per la protezione individuale proviene dalla Cina.
Robert C. O’Brien, United States National Security Adviser, ha osservato che per anni gli USA hanno creduto, sbagliandosi, che fosse solo questione di tempo prima che Pechino, aprendosi al capitalismo, divenisse liberale in economia, prima, e, poi, in politica, ignorando di fatto l’ideologia del PCC. A suo giudizio, le ambizioni di controllo del partito comunista cinese si estendono adesso anche sull’opinione pubblica e sulla libertà di espressione negli Stati Uniti e nelle democrazie occidentali.
La Cina vuole rimodellare le organizzazioni internazionali. Washington deve riconoscere questo obiettivo politico e neutralizzare i tentativi di Pechino di dominare la narrazione globale, impegnandosi nuovamente a difesa dei propri valori e rinvigorendo il linguaggio comune con gli alleati e i partner.
Ma quanto sono credibili un’amministrazione e un presidente come Trump che ha lodato i peggiori autocrati disprezzando, nel contempo, gli alleati storici europei con un’ambiguità d’intenti che si è riflessa anche sui rapporti con il Vaticano nella recente visita del segretario di Stato Mike Pompeo in Italia?
In tutto ciò, l’Europa rischia di restare solo uno scenario del confronto USA-Cina.
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