Secondo gli esperti del settore, quello dello spionaggio sarebbe il secondo lavoro più vecchio del mondo, dietro a un altro altrettanto poco dignitoso, la prostituzione. Ma mentre la pratica di quest’ultima, di fatto, è rimasta sostanzialmente immutata nel corso dei millenni, l’attività spionistica si è costantemente aggiornata, seguendo (e in molti casi spesso promuovendo) il progresso tecnologico.
La raccolta e la trasmissione delle informazioni sui Paesi potenzialmente nemici, le loro mire politiche e la consistenza delle Forze armate, ma anche le prospettive economiche e le aziende civili più importanti, nell’immaginario collettivo vengono in genere condotte da super-uomini dotati di qualità fisiche e mezzi tecnici eccezionali (alla James Bond, per intenderci), oppure da donne avvenenti in grado di circuire agenti ed esponenti politici e militari avversari o di fare il doppio gioco (Mata Hari o Christine Keeler sono gli archetipi più celebri). O ancora, più banalmente, ricorrendo a figure grigie e sfuggenti, in grado di depistare a lungo i sospetti sulla loro reale attività, come il capitano italiano di fregata Walter Biot, sorpreso nelle scorse settimane, dopo una vita trascorsa a classificare documenti non sempre rilevanti, a passare ad agenti russi informazioni (pare) delicate sulla Nato mediante una comune “chiavetta” per computer.
I dati che fanno gola
In realtà, la gran massa delle informazioni che fanno gola a tutte le maggiori potenze mondiali passa ormai attraverso altri canali: i documenti cartacei, convertiti in microfilm o in “chiavetta” elettronica, appartengono in genere a un passato remoto.
Ormai si dà per scontato che il progresso tecnologico abbia messo in secondo piano lo “humint” (acronimo inglese di “human intelligence”, che indica la raccolta d’informazioni attraverso contatti interpersonali, fondati in genere sul ricatto o su motivazioni ideali) a favore dell’ “imint” (“imagery intelligence”, dati ottenuti mediante l'analisi di fotografie aeree o satellitari sempre più dettagliate, che fin dagli anni ‘70 consentirebbero di leggere dallo spazio perfino la targa di un’auto), ma soprattutto del “sigint” e dell’ “elint”, rispettivamente “signal intelligence” ed “electronic intelligence”, che indicano la raccolta di dati effettuata attraverso l’analisi dei flussi di segnali elettromagnetici (emissioni radio) ed elettronici (reti informatiche).
Cinque occhi che scrutano ovunque
Le orecchie del “grande fratello” che captano queste emissioni sono quanto di più avanzato si possa immaginare. In questo campo l’Occidente ha attivato strutture fantascientifiche, in grado d’intercettare ogni tipo di comunicazione che attraversa l’atmosfera grazie a un accordo diplomatico che risale al 1946 ed è tuttora operativo, pur con opportuni adattamenti. In quell’anno, in vista dello scoppio della Guerra Fredda, cinque Paesi anglofoni (Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda) decisero di prolungare a tempo indefinito la loro passata cooperazione bellica attraverso un accordo denominato “Five eyes” (cinque occhi). Fu creato un apparato di ascolto su scala globale delle comunicazioni dei paesi comunisti, dotato dei sistemi più avanzati di analisi e interpretazione dei dati raccolti attraverso radio, microonde e satelliti, chiamato Echelon (scaglione), della cui esistenza fino agli anni 90 il mondo non seppe nulla.
Ai paesi fondatori, nel tempo, si sono aggiunti via via i principali alleati degli Usa (Giappone, Corea del Sud, Germania, Francia e Italia, tra gli altri), alcuni dei quali hanno ospitato stazioni ausiliarie di ascolto (poi chiuse), ma soltanto ai cinque promotori sono forniti i risultati completi delle intercettazioni compiute, a conferma della ferrea esclusività dell’accordo iniziale. Peraltro, un sistema di raccolta dati elettronico altrettanto efficiente è stato creato da un solo paese, Israele, che ha la necessità vitale di sapere con il massimo anticipo possibile tutto ciò che accade nei suoi dintorni, circondato com’è da nemici reali o potenziali.
La sua “Unità 8200”, collocata nel deserto del Negev, pare in grado di controllare tutto il traffico d’informazioni del Medio Oriente e dell’Europa orientale e meridionale ma anche d’intervenire direttamente contro ogni paese: i ripetuti attacchi “hacker” contro i centri di ricerca iraniani che lavorano nel settore nucleare, come l’ultimo che ha colpito l’impianto di Natanz, proverrebbero da qui.
Il mondo appeso ai cavi
La vera novità è tuttavia costituita dalla possibilità d’intercettare - benché sia assai più difficile di quanto non avvenga per le informazioni che transitano nell’atmosfera - le comunicazioni che corrono mediante i cavi a fibra ottica, molti dei quali sottomarini. Attraverso di essi corre ormai la quasi totalità delle informazioni del “villaggio globale”: l’idea che tutte le nostre comunicazioni - dalla semplice telefonata al messaggio di posta elettronica, passando per un accesso remoto - si svolgano attraverso lo spazio, utilizzando gli sciami di satelliti posti in orbita nel corso degli ultimi decenni, è fortemente esagerata. La stragrande maggioranza del traffico mondiale di dati passa ancora attraverso i cablaggi subacquei che collegano i continenti, proprio come avveniva nella seconda metà dell’800, quando furono stesi i primi cavi transoceanici che allacciavano l’America all’Europa. Si calcola che circa il 95% delle informazioni scorra attraverso una fitta rete di cavi sottomarini (378 le linee principali, sempre più in fibra ottica) che connette per oltre 1,2 milioni chilometri (più di 30 volte la circonferenza della terra) i quattro angoli del globo.
Lo stesso concetto di “cloud” (nuvola informatica) è attuabile soltanto mediante la rete sottomarina. Ai satelliti è destinato il compito di trasmettere soltanto la restante parte del traffico, pari al 3-5%. Essi svolgono comunque una funzione essenziale, quella che consente la navigazione di precisione terrestre e marina attraverso varie costellazioni nazionali di satelliti (GPS, Glonass, Galileo, Beidou). Su un loro futuro ruolo di grande rilievo è comunque pronto a scommettere Elon Musk con il suo progetto Starlink, ma neppure la costellazione di ben 4.425 satelliti (secondo le stime) che intende realizzare entro il 2024 sarà in grado si scalzare l’attuale rete sottomarina. Che resterà dominante.
Anche qui Stati Uniti e Cina si confrontano
A dimostrare l’importanza crescente dei cavi sottomarini sta la previsione di DE-CIX (Deutscher Commercial Internet Exchange), il maggiore smistatore di traffico internet mondiale con sede a Francoforte, secondo il quale, nel triennio 2020-22, sono in via di realizzazione altre 74 linee, per una lunghezza di 300mila chilometri e un investimento del valore di 8,8 miliardi di dollari. Una mappa mondiale interattiva rivela come i tracciati dei cablaggi seguano i flussi dei principali scambi commerciali e si addensino là ove si concentrano traffici e produzione industriale, sostanzialmente la rotta transatlantica tra Stati Uniti ed Europa, quella tra Europa ed Estremo Oriente e quella transpacifica tra l’Estremo Oriente e il Nord America.
Com’è facile intuire, non solo la massa dei flussi delle comunicazioni ma anche la gran parte della rete di cavi sottomarini è in mano ad aziende statunitensi. È quindi logico che, data la sensibilità assoluta di questo binomio, Washington guardi alla loro inviolabilità come a un elemento cruciale della propria sicurezza nazionale. Visti in quest’ottica, i problemi del controllo della tecnologia 5G e della “fedeltà” dei paesi alleati e delle loro aziende di telecomunicazioni alle tecnologie occidentali, senza cedimenti verso tentazioni cinesi (leggi Huawei), appaiono una preoccupazione giustificata. Pechino, attraverso Huawei Marine Networks Co, poi ceduta al concorrente Hengtong, sta infatti lavorando a oltre un centinaio di progetti per cavi transoceanici: uno (lungo 6.000 chilometri, già ultimato) collega il Brasile al Camerun, un altro (la cui ultimazione è attesa per la fine di quest’anno) denominato “Peace” (Pakistan & East Africa Connecting Europe), connetterà Cina, Africa ed Europa, costituendo la spina dorsale informatica del grandioso programma “One Belt, One Road”.
Oltre alla domanda in crescita esponenziale, una delle principali ragioni dell’interesse verso i cavi sottomarini è che - come si accennato più sopra - il traffico che li attraversa è intercettabile da parte di chi disponga di opportune apparecchiature di ascolto e registrazione. Senza contare, in caso di conflitti, la possibilità di tagliare in modo selettivo tali cavi, isolando uno o più paesi avversari, con risultati catastrofici per la capacità di gestire sistemi politico-economici sempre più complessi e dipendenti dal traffico di dati informatici.
La vittima illustre
Pur senza giungere a queste ipotesi estreme, la “guerra dei cavi” ha già fatto una vittima illustre: si tratta del collegamento tra Los Angeles e Hong Kong, lungo ben 12.800 chilometri e così potente (120 terabit al secondo) da supportare ben 80 milioni di videoconferenze simultanee in alta definizione, deciso nel 2016 da Facebook e Google ma cancellato nel 2020 su pressione dell’amministrazione Trump, che temeva le crescenti interferenze cinesi nell’ex colonia britannica. Washington ha poi approvato un collegamento sostitutivo con le Filippine e Taiwan, ma la scarsa appetibilità commerciale di queste due alternative ha frenato il progetto.
Mezzi militari fantascientifici in azione
È comunque la possibilità di “rubare” i dati trasmessi a mobilitare l’interesse delle maggiori potenze mondiali. Gli Stati Uniti hanno trasformato e ingrandito un sottomarino nucleare lanciamissili, il “Jimmy Carter” - ultima unità della classe Seawolf, la cui costruzione, alla fine della Guerra Fredda, fu interrotta al terzo esemplare per i costi eccessivi -, rendendolo in grado di ospitare mini batiscafi a pilotaggio remoto (in sostanza, droni subacquei) che possono anche essere utilizzati per missioni di spionaggio sui cablaggi oceanici. Il fatto che la sua base operativa sia posta sulla costa americana dell’oceano Pacifico non lascia dubbi verso chi sia diretta la sua attività: la Cina. La Russia non è da meno. Il sottomarino nucleare lanciamissili “Podmoskovye”, della classe “Delta IV”, poi ribattezzato “BS64”, è stato completamente riconvertito e allungato per poter trasportare un piccolo sottomarino del tipo “Paltus”, lungo comunque 30 metri, e un batiscafo a propulsione nucleare tipo “Losharik”, in grado di operare fino a 2.500 metri di profondità, entrambi destinati quasi certamente alle stesse funzioni svolte da quelli del “Jimmy Carter” americano. Ma questa volta nell’Atlantico e a danno dei paesi occidentali.
A essi si aggiungeranno presto un’unità subacquea cinese simile (pare) al “Losharik” ed entro il 2024 una nave britannica altamente automatizzata che, secondo il nuovo“Integrated Review of Security, Defence, Development and Foreign Policy”, il documento di pianificazione strategica pubblicato il mese scorso dal governo Johnson, dovrà svolgere le funzioni di sorveglianza oceanica della rete di cavi nazionale servendosi anch’essa di alcuni droni sottomarini.
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