Turchia, atto secondo. Domenica si tiene il ballottaggio per la presidenza. Il primo turno ha visto il presidente uscente Recep Tayyip Erdoğan andare vicinissimo alla soglia del 50% (49.4%). Il rivale Kemal Kılıçdaroğlu si è fermato al 44.96%. Un risultato che ha, peraltro, sconfessato le previsioni degli analisti, i quali vedevano Erdoğan in difficoltà specie nei centri urbani chiave come Istanbul, Ankara e Smirne.
Ma ancora una volta, Erdoğan - che al ballottaggio potrà contare sul sostegno del terzo incomodo, l'ultranazionalista Sinan Ogan (5,2% di voti al primo turno) - si è dimostrato un politico dal talento notevole: spregiudicato nell’usare mass media e stampa controllati dal governo, nelle promesse di rialzi salariali per i dipendenti pubblici all’indomani delle elezioni, nell’organizzare adunate oceaniche per galvanizzare la sua base elettorale (a Istanbul, il 7 maggio, si sono presentati in circa un milione).
L’opposizione guidata da Kılıçdaroğlu è un fronte eterogeneo di sei forze politiche, con l’appoggio esterno dei partiti curdi: nazionalisti kemalisti, islamisti, liberal-democratici, social-democratici. L’unica cosa che li tiene insieme è appunto l’opposizione al padre-padrone del Partito di Giustizia e Sviluppo (Akp, nell’acronimo turco), al potere dal 2002. Kılıçdaroğlu è politico di lungo corso: esperto, pacato, scelto per la sua figura capace di presentare un compromesso tra forze politiche tanto diverse. Ma rimane grigio e incolore, specie se comparato a Erdoğan. Il quale ha gioco facile nell’evidenziare come nazionalisti e curdi, formazioni laiche e islamiste possano garantire alla Turchia solo un governo instabile. Coalizioni di tale fatta sono raramente vincenti.
Le epurazioni del presidente
Eppure, l’opposizione ha di che criticare il presidente. La Turchia ha subito una evidente involuzione autoritaria. Queste elezioni avvengono effettivamente in un contesto vieppiù illiberale. Il governo dell’Akp ha molto ristretto la libertà di stampa e comunicazione, arrestando giornalisti e monopolizzando i media. Ha epurato giudici, militari e funzionari statali sospettati di essere responsabili del fallito golpe del luglio 2016. Ha trasformato un sistema parlamentare in uno presidenziale, accentrando i poteri nella carica ora ricoperta appunto da Erdoğan.
Inoltre, sul fronte economico, dopo un decennio abbondante di crescita economica sostenuta, la Turchia ha conosciuto una fase di profonda crisi, specie finanziaria. Il tasso di cambio della lira è precipitato, perdendo circa l’80% rispetto al dollaro; l’inflazione che ne è seguita ha eroso il potere d’acquisto, specie di quelle classi sociali medio-basse, da sempre lo zoccolo duro dell’Akp. Erdoğan, incredibilmente, ha rigettato le più basilari prescrizioni di politica macroeconomica: ha cercato di contenere l’inflazione galoppante abbassando, anziché alzando, i tassi di interesse. L’ovvio risultato è stata un’ulteriore crescita dei prezzi.
Certo le elezioni si giocano anche sul fronte internazionale. Qui Erdoğan ha imposto una politica forte, assertiva, decisa. La Turchia, formalmente Paese Nato, si è mossa sullo scacchiere regionale riflettendo la spregiudicatezza domestica del suo presidente. È intervenuta militarmente in Libia, in aperto contrasto con la Francia e soprattutto l’Egitto. Ha inviato truppe in Siria, occupandone parte del territorio, con il pretesto di difendersi dai militanti curdi dello Ypg. Ha rivendicato parti dell’Iraq settentrionale, specie l’area di Mosul. Ha sostenuto l’Azerbaigian contro l’Armenia nel 2019; sta addestrando truppe dell’esercito albanese. Ha ricattato l’Europa, minacciando di liberare ondate migratorie (specie di rifugiati siriani, tutt’ora milioni sul territorio turco) se non fossero giunti aiuti finanziari. Rimangono poi tesi i rapporti con Israele e l’Arabia Saudita.
Il fattore Ucraina
Tutto questo avviene prima della guerra in Ucraina, dove ancora una volta la Turchia mantiene un’alta indipendenza di manovra. Riconosce l’integrità territoriale dell’Ucraina. Ma non si unisce alle sanzioni alla Russia, né chiude i suoi aeroporti ai voli da e per le Russia. Si propone come mediatore: qualche limitato ma importante successo, come l’accordo sull’export del grano via Mar Nero. Ostacola infine l’ingresso di Finlandia e specie Svezia nella Nato, accusando Stoccolma di dare supporto a terroristi curdi.
Una rielezione di Erdoğan per un terzo mandato presidenziale non farebbe che continuare le tendenze sin qui descritte: svolta autoritaria interna; spregiudicatezza e interventismo esteri. Kılıçdaroğlu promette quindi di riportare il sistema parlamentare in Turchia e di democratizzare il Paese; e, a corollario, propone un avvicinamento ad Unione Europea e Usa. Sono visioni alternative del posto della Turchia nel mondo. Il ballottaggio di domenica ci dirà quale prevarrà. Un determinato progetto politico che Erdoğan ha incarnato lo ha mantenuto al potere per vent’anni: è possibile, ma non facile, che la Turchia gli volti ora le spalle.
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