L’Argentina si appresta ad andare al voto il 22 ottobre tra un’inflazione stellare e promesse elettorali difficilmente mantenibili, come quella di eliminare le tasse sulla gran parte degli stipendi. Partendo dal primo aspetto, l’indice dei prezzi al consumo in Argentina è tra i più alti al mondo: a settembre  l’aumento annuale ha superato quota 124% (in Turchia si è fermato al 60%), al massimo dalla fase di iper-inflazione con tassi di interesse vicini al 120%. Su base mensile, il costo della vita è salito del 12,4% ma gli analisti del Paese intervistati dalla Banca centrale argentina prevedono un'inflazione annuale per il 2023 a quota 149%, superiore al 126% previsto nel sondaggio precedente.

Così come il peso argentino si indebolirà e se attualmente è valutato ufficialmente vicino ai 290 pesos per dollaro (ma il cambio clandestino viaggia intorno ai 140 pesos per dollaro e un anno fa valeva il doppio), a fine anno potrebbe arrivare a 408 pesos per dollaro e nel 2024 a 917,54. Con la conseguenza che adesso le banconote da 100 pesos non valgono praticamente più niente,  già oggi non sono più usate nelle transazioni quotidiane dei cittadini, e neanche le banche sanno più dove metterle: al momento le stanno stipando in magazzini e in depositi affittati apposta (i “sarcofagos”, ossia tombe – come si legge su il Post -  da cui le banconote usciranno solo per andare al macero) in attesa che la Banca centrale gradualmente le ritiri, con costi anche molto più alti rispetto al valore delle banconote custodite.  Al momento in Argentina circolano circa 8 miliardi di banconote di ogni taglio, quasi il doppio di quelle che ci sono in Italia e secondo l’attuale ritmo di stampa, entro la fine del 2023 ci saranno 11 miliardi di banconote in Argentina, per la gran parte semplici fogli di carta. A fare le spese di tutto questo i consumatori costretti a una corsa quotidiana per trovare offerte e opzioni più economiche, dato che la dinamica dei prezzi realizza grandi differenze da un negozio all’altro, con sconti sparsi per attirare gli acquirenti.

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Stampa di moneta a getto continuo

Il forte rialzo dei prezzi è dovuto principalmente alla cosiddetta “monetizzazione” del debito pubblico: a seguito del default del 2020, il Paese, infatti, non ha più potuto finanziarsi sui mercati internazionali e la Banca centrale argentina ha dovuto stampare pesos per coprire la spesa statale. Nonostante l’accordo pattuito con il Fmi preveda un riordino dei bilanci pubblici, le spese statali continuano a eccedere le entrate e nel 2022 lo stato argentino ha registrato un deficit primario pari al 2,4% del Pil. A destabilizzare ulteriormente l’economia argentina è la dipendenza dal dollaro statunitense. L’aumento dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve ha avuto come effetto l’apprezzamento del dollaro nei confronti delle altre valute, tra cui il peso argentino, che nell’arco di un anno ha perso quasi la metà del proprio valore nei confronti della moneta statunitense. La situazione è particolarmente preoccupante dal momento che il debito delle amministrazioni centrali è per più dei due terzi in valuta straniera e in particolare in dollari (circa il 53%). Come già accaduto più volte in vari Paesi emergenti il cui debito è fortemente dipendente dal dollaro, il deprezzamento del tasso di cambio nei confronti della valuta statunitense provoca una grave recessione. L’Argentina, poi, è stata messa a dura prova anche dalla siccità, che ha avuto seri effetti negativi sulle esportazioni agricole, soia in particolare, una voce fondamentale della sua economia. Le ultime misure hanno evitato temporaneamente una politica di austerità, ma difficilmente risolveranno i problemi strutturali del paese Prima delle elezioni presidenziali tra due domeniche.

L'economista Alberto Forchielli fondatore di Mandarin capital partners

Dalla ricchezza al debito

Quella dell’Argentina è una storia caratterizzata dall’alternarsi di gravi crisi politiche, economiche e sociali che hanno portato a ben nove default sui titoli sovrani, il numero più alto mai registrato nel mondo. Davvero strano se si pensa che all’inizio del Novecento l’Argentina era uno dei paesi più ricchi, con un Pil vicino a quello di Francia e Germania. «L’Argentina – spiega Alberto Forchielli, economista e fondatore di Mandarin Capital partners – era il 5° paese più ricco al mondo ed è stata rovinata dal Peronismo che ha gonfiato la spesa pubblica e ha messo il Paese sulla strada della non restituzione del debito. Del resto l’alta inflazione favorisce i debitori ma tagliarla ha costi sociali altissimi e la pace sociale sta in piedi solo con la spesa pubblica. Ormai siamo abituati, l’Argentina non restituisce e contratta sul debito; di fatto non sanno più come rientrare».

La svolta del 1946

Soprattutto durante il secondo dopoguerra, la prosperità economica del Paese era alta e l’Argentina si trovava a essere creditrice delle economie più avanzate, grazie alle massicce esportazioni di carni e grano alle potenze belligeranti. Tutto ciò permise al governo di Juan Domingo Perón, eletto nel 1946, di attuare un programma decisamente nazionalista e statalista, che prevedeva forti investimenti in istruzione e salute, più poteri alla classe operaia, nazionalizzazione della banca centrale argentina e dei trasporti, nonché controllo statale su tutti gli enti stranieri che operavano nel Paese. Quest’ultima mossa di Perón, in particolare, cominciò ad allontanare gli investitori internazionali e contribuì a rendere l’economia argentina via via meno competitiva agli occhi del resto del mondo. E da quel momento sono iniziati i guai per l’Argentina e per oltre ottant’anni, si sono succeduti governi e dittature che hanno adottato politiche molto diverse tra loro, soprattutto per quanto riguarda la sfera sociale e il welfare: ciclicamente al popolo sono stati concessi benefici, come sussidi, che poi venivano tolti perché troppo onerosi per lo stato.

L'effetto boomerang

I governi hanno finanziato ingenti piani grazie alla collaborazione con la banca centrale argentina, che ha continuato a stampare moneta ogni qualvolta fosse necessario. Ma questa pratica, appunto la “monetizzazione del debito” ha un pericoloso effetto boomerang: non fa altro che creare inflazione su inflazione e impoverire le fasce più deboli della popolazione. Dalla dittatura militare dal 1976 al 1983 alla legge di convertibilità del 1991  (cambio fisso tra peso argentino e dollaro statunitense con un rapporto di uno a uno) è tutto un susseguirsi di disastri economici perché  il tasso di cambio fisso comporta un  aumento del livello delle importazioni e una flessione delle capacità produttive nazionali con importanti ripercussioni negative in termini sia di occupazione sia di fuga di capitali; l’Argentina non riesce a ripagare il proprio debito e continua a chiedere nuovi prestiti al Fondo monetario internazionale e nel 2001 scatta la corsa agli sportelli bancari dei risparmiatori ritirano i risparmi, li convertono in dollari statunitensi e li mandano all’estero; viene dichiarato default e l’Argentina affronta la peggiore crisi economica della sua era contemporanea. La risposta  è un tasso di cambio fisso pari a 1,40 tra peso e dollaro. La ripresa inizia solo nel 2007, ed è minima, ma dal 2015 il processo di indebitamento riprende, complici sia la fluttuazione del dollaro che l’azione speculativa dei fondi avvoltoio.

La Banca centrale argentina ha già dovuto fronteggiare nove default

Nel 2020 l’Argentina va in default per la nona volta nella storia e l’economista Joseph Stiglitz è incaricato di trovare una strategia di sostenibilità per il debito sovrano; a queste difficoltà però si sommano stavolta anche le vicissitudini della pandemia Covid-19. Nel 2021 la stragrande maggioranza dei proprietari del debito accoglie l’offerta del governo di 54,8 dollari per ogni 100 di valore nominale e del 98% dei titoli soggetti alla giurisdizione argentina. E oggi la situazione è di nuovo al collasso con l’inflazione alle stelle, la crisi scatenata dalla guerra in Ucraina, circa il 40% della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà), il narcotraffico che la fa da padrone e la corruzione che dilaga tra le forze di polizia. Come non bastasse è arrivata la siccità e il mantenimento dell’obiettivo di deficit fiscale è ritenuto impossibile in un momento in cui le entrate diminuiranno a causa delle perdite agricole riconducibili al clima, e sarà altrettanto probabile un aumento dei prezzi dei prodotti agricoli.

L’azzeramento delle tasse

Come risposta, le  mosse del governo appaiono tutte centrate ad acquisire il consenso popolare in vista delle elezioni del prossimo 22 ottobre. L’idea è quella di cancellare le imposte sul reddito per quasi tutti i lavoratori dipendenti argentini: il Parlamento di Buenos Aires ha approvato il disegno di legge che le cancella, una misura proposta dal ministro dell’Economia, Sergio Massa che aveva già varato l’esenzione temporanea dalle imposte sul reddito per il 99% dei dipendenti con un decreto. «Anche questa è una mossa tipicamente elettorale e un regalo al ceto basso ma soprattutto a quello medio perché una soglia di 5mila dollari al mese esentasse è molto alta per l’Argentina; per uscire dalla spirale inflazionistica in Argentina hanno una sola strada: ridurre la spesa pubblica ma non lo faranno perché il serbatoio dell’elettorato che prende soldi dalla Pa è amplissimo».  La legge, che nei giorni scorsi ha ottenuto il via libera del Senato (dopo ore di dibattito e con 38 voti a favore e 27 contrari), azzera le tasse definitivamente per 800mila lavoratori e pensionati. Soltanto chi percepisce un importo superiore a 15 volte il salario minimo federale, vale a dire 1,77 milioni di pesos al mese (oltre 5mila dollari), dovrà continuare a pagare le tasse. «Per me lo stipendio non è profitto, ma remunerazione», aveva detto in quell’occasione Massa. La misura costerebbe fino allo 0,83% del Pil nel 2024, secondo le stime dell’ufficio di bilancio del Congresso. Porterà voti ma non farà cambiare strada all’Argentina.