Una transizione dolce, verso un’altra industria del turismo in montagna. Dove non tutto ruoti attorno alla neve. Neanche d’inverno. Un modello diverso rispetto a quello che si è imposto negli ultimi cinquant’anni e che non può essere realizzato dall’oggi al domani. Per non compromettere innanzitutto i posti di lavoro che oggi l’industria dello sci assicura. Ma necessario. E questo potrebbe essere l’anno giusto per avviare il cantiere, per cominciare a guardare oltre la gita domenicale per una discesa sugli sci. Ne è convinto Andrea Rolando, docente del dipartimento di architettura e studi urbani del Politecnico di Milano, che da tempo studia la valorizzazione dei territori intermedi.
Verso l'esordio dell'Immacolata
Perché proprio quest’anno? Perché a poco più di cinquanta giorni dall’avvio ufficiale della stagione invernale – che da sempre coincide con il ponte dell’Immacolata – l’industria della neve vive tra incertezze e angosce che rimandano alla stagione cancellata dal Covid. Innanzitutto per il caro bollette che rischia di far saltare tutti i conti di società che per forza di cose sono grandi consumatrici di energia: per far girare gli impianti ma anche per produrre la materia prima: la neve artificiale. Pochi numeri danno un’idea immediata di quale può essere il salasso che i gestori delle piste da sci si troveranno ad affrontare nella stagione che deve cominciare: se l’anno scorso servivano 3,5 euro per produrre un metro cubo di neve quest’anno se ne spenderà il doppio, forse anche di più. E non è che si possa aspettare.
Carissimi "cannoni"
Tra poche settimane, appena i termometri scenderanno sotto zero, nelle località delle Alpi si comincerà a produrre neve artificiale – sperando magari che arrivi anche quella naturale – per preparare il fondo indispensabile per garantire piste perfette per l’apertura dell’8 dicembre. Un’operazione che può pesare per il 40 per cento del consumo totale di elettricità. L’altro 60 per cento viene assorbito per far girare skilift e seggiovie. Tanto che già si rincorrono voci di decisioni anche drastiche per sopravvivere a un inverno mai così difficile: ridurre l’apertura degli impianti, anticipando di un’ora la chiusura e magari posticipando anche l’apertura, limitare la fresatura della neve senza per questo compromettere la sicurezza e la qualità sulle piste, rallentare la velocità di skilifts e seggiovie. E, soprattutto per le piccole stazioni, l’ipotesi di un’apertura limitata al weekend: dal venerdì alla domenica, gli unici giorni in grado di garantire sulla carta un guadagno rispetto ai costi.
Rincari tra il 5 e il 10%
Ecco, i costi. Di sicuro sciare costerà di più. «Ma non parlate di stangata perché non c’è alcuna stangata all’orizzonte, non spaventiamo la gente. Non si copre neanche l’inflazione con i rincari che applicheremo», precisa Valeria Ghezzi, appena riconfermata al vertice di Anef, l’associazione che riunisce il 90 per cento dei gestori di impianti di risalita in Italia. I ritocchi ai listini dei prezzi variano dal 5 per cento in più annunciato nel comprensorio delle Dolomiti al 10 per cento sulle piste della Vialattea in Piemonte dove in dicembre (10 e 11) tornerà una prova di Coppa del mondo femminile. In Val d’Aosta, invece, l’associazione impianti a fune ha deciso un aumento del 9 per cento. Ma c’è anche chi come la Regione Friuli Venezia Giulia – proprietaria di tutti gli impianti – ha scelto di mantenere lo skipass allo stesso prezzo dell’anno scorso. Proprio come il comprensorio di Monterosa ski – che nel primo weekend di ottobre ha dovuto rinviare l’apertura degli impianti a causa del forte vento – che ripropone i prezzi del 2021, che variano da 38 a 60 euro a seconda del periodo.
«No a ristori assistenziali»
All’Anef si guarda al nuovo governo per trovare una soluzione. «Non chiediamo ristori assistenzialisti anche perché ci rendiamo conto che il caro energia è un problema che tocca tutte le imprese – aggiunge ancora Valeria Ghezzi -. Non c’è comparto immune all’impazzimento dei costi di luce e gas. Qui in Trentino hanno sospeso anche la produzione del Trentingrana per le spese che richiede un formaggio che deve invecchiare sedici mesi. E i dipendenti sono finiti tutti in cassa integrazione. Ma la cassa ha un costo spaventoso. Per questo ci auguriamo che il governo trovi nuovi strumenti. D’altronde se ci fermiamo noi, muore la montagna. Siamo la locomotiva di una lunga filiera. Grazie agli impianti di sci lavorano alberghi e ristoranti, maestri di sci e negozi. Ancora si fanno i conti di quanto è costata la stagione con le piste ferme per Covid. Senza lo sci per una valle come la mia vorrebbe dire passare da diecimila a duemila abitanti. La montagna non si salva con ciaspole e sci di fondo».
Gli effetti climatici
Eppure secondo il professor Rolando un’altra montagna è possibile. Di più: necessaria. «Tenendo conto anche dei cambiamenti climatici destinati sempre di più ad accorciare la lunghezza della stagione invernale e ad alzare la quota di dove cadrà la neve. Per questo bisogna far evolvere le stazioni sciistiche verso un altro modello anche più equilibrato e sostenibile di sviluppo. Dove si scia ma si fanno anche altre cose. In questa chiave è importante un’operazione come quella promossa dal Piemonte che allunga le notti di permanenza del turista senza che spenda di più. Ma si deve pensare alla montagna anche come un posto ideale per lo smart working ora che lavorare fuori dall’ufficio è una realtà e cresce il popolo dei nomadi digitali», aggiunge il professore. Insistendo però sul concetto di “transizione dolce”: «Ci sono in gioco troppi posti di lavoro per non tenere conto degli effetti negativi che una trasformazione non governata potrebbe creare. Non si può immaginare di lasciare gente a casa. Però è ora di pensarci. Anzi, necessario», conclude Rolando.
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