«Il futuro? Studiare e poi lavorare e mentre si lavora studiare ancora. Si chiama long life learning e sarà il nuovo paradigma della formazione in Italia e che nel mondo è già realtà. Non si può pensare di andare all’università, laurearsi, e aver finito di studiare». Per Patrizio Bianchi - ex ministro della Pubblica istruzione del governo Draghi e ora professore emerito dell’Università di Ferrara (dal gennaio 2020 è il titolare della cattedra Unesco in "Education, Ggowth and equality") di cui è stato rettore dal 2004 al 2010 - il sistema educativo italiano è da ricalibrare ridando valore alle tanto vituperate lauree triennali.
Professore Bianchi, facciamo un passo indietro e partiamo da un dato inquietante: i dati Ocse ci dicono che tutti i Paesi, tranne il Messico, hanno più laureati di noi. Ne hanno più di noi Cile, Colombia, Costa Rica, Corea, Grecia Turchia, e così via, e la distanza rispetto alla media è tale da sembrare, al momento, incolmabile, perché la quota dei laureati nel nostro Paese è 29% contro 47% della media Ocse. Come ne usciamo?
«Dipende molto da come si contano i laureati. All’estero una laurea triennale è una laurea vera e propria; in Italia no, serve la magistrale. Il percorso triennale che è visto come una specie di laurea minore andrebbe rivalutato perché è la base della formazione. Da noi invece prevale l’idea che si debba fare tutto di seguito, triennale, magistrale e magari un dottorato. Ma non è così che gira il mondo».
E come gira il mondo?
«Gira che si fa una triennale e si entra nel mondo del lavoro, poi a suo tempo ci si rimette sui libri e si prende un altro titolo. Il punto è che l’economia cambia talmente rapidamente che non si può pensare di studiare una cosa a 20 anni e applicarla fino a 70. L’assurdo è che in Italia si premia la fedeltà del lavoratore all’azienda che può durare tutta una vita mentre all’estero i rapporti di lavoro, nella percezione dei giovani, durano una media di 3 anni e sono legati alla qualità della vita. La società e le conoscenze cambiano molto rapidamente e non si può mai pesare di essere arrivati. Guardi cosa sta succedendo con l’intelligenza artificiale».
Il tasso di occupazione dei laureati è pari al 70% contro l’84% della media Ocse Come si spiega il basso utilizzo dei laureati da parte delle aziende?
«Spesso le aziende non hanno bisogno di un laureato magistrale ma di uno triennale da collocare in posizioni intermedie. Invece il mercato offre solo laureati magistrali e così il sistema si imballa. Bisogna mettersi in testa che si deve lavorare e studiare, studiare e lavorare».
Anche le università avranno le loro colpe…
«Certamente, non sempre i corsi formativi sono adeguati ma oramai questo è un falso problema perché, cercando, si trova ogni tipo di corso. Il fatto è che, da un lato, la scuola dovrebbe iniziare prima dei sei anni e dall’altro andrebbero correttamente valorizzati gli studi professionalizzanti come gli Its, ragioneria e geometri. Sono queste le professionalità che hanno consentito all’Italia il grande sviluppo nel dopoguerra fino agli anni ‘90. Sicuramente gli atenei devono ripensare l’offerta formativa partendo dalla rivalutazione dei corsi triennali».
E poi c’è la fuga all’estero dei nostri giovani. L’Istat, nell’ultimo rapporto sulle migrazioni, ha quantificato in un milione circa i nostri connazionali espatriati tra il 2012 e il 2021. Un quarto dei quali aveva una laurea.
«Sì. I dati sono preoccupanti. l’Italia, secondo “Look4Ward”, l’Osservatorio per il lavoro di domani di Intesa SanPaolo, perde ogni anno circa 8 mila giovani laureati di età compresa tra 25 e 34 anni. Negli ultimi 10 anni sono stati 120 mila i laureati che sono andati all’estero: 40 mila sono rientrati nel nostro Paese, mentre i talenti persi si attestano a 80mila. Le retribuzioni in Italia sono molto basse rispetto al resto del mondo occidentale. Ma ancora una volta il problema è il tipo di laurea: magari uno stipendio è basso per un laureato magistrale ma sarebbe accettabile per uno con la triennale. Ad ogni modo, nel mondo globalizzato non viaggiano solo le merci ma anche le persone e a questo ci dobbiamo abituare».
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