Il governo ha varato il Def, il documento di base della politica economica e finanziaria, usato per programmare le spese e le entrate pubbliche. Si parte sempre dal vecchio Pil, di cui non si può proprio fare a meno. Secondo il giudizio dei tecnici, lo scenario, con i sostegni europei, sarebbe un rimbalzo del 4,5% nel 2021 e una crescita cumulata di 14,3 punti percentuali in quattro anni.
Nei primi due anni, ossia entro dicembre del 2022, si ritornerebbe più o meno a dove eravamo al momento dell’esplosione della pandemia (-8,9 punti percentuali di Pil). Questa attesa è conseguente al Piano nazionale di ripresa e di resilienza, che vale 191,5 miliardi orientati al potenziamento delle infrastrutture fisiche, sociali e tecnologiche dell’Italia ai fini di una svolta green e digital dell’Italia.
Nome in codice: PNRR
Il PNRR (il Piano nazionale di ripresa e resilienza), a ben vedere, vale il 12% del Pil e dunque non ci stupiamo che possa suscitare 14,3 punti di crescita del medesimo. Ma il punto è: che cosa sarà dopo? Già nell’ultimo anno di programmazione (il 2024), ossia prima che il programma straordinario sia esaurito, secondo il MEF la crescita sarebbe solo più dell’1,8%. Come dire che i modelli tendono a ricondurre all’old normal la crescita italiana. Si dirà che i modelli hanno bisogno di tempo per riconoscere e incorporare i miglioramenti di produttività e che prima di disegnare un futuro bisogna realizzare almeno le premesse. Questo è vero, ma non è la prima volta che l’umanità ha subito uno shock pandemico o simile: una crisi improvvisa della produzione e della domanda. Come è andata, negli altri casi?
La peste nera del 1347
La pandemia da peste nera polmonare arrivò in Europa nel 1347, tramite un marinaio giunto a Messina su una nave proveniente dal Mar Nero. Proprio come nel 2020, la pandemia europea toccò per prima l’Italia. Non potendo essere fermata dalle vaccinazioni, dilagò in quattro ondate, l’ultima delle quali del 1399 e dimezzò la popolazione europea. Non ci fu alcun recovery plan. Dopo la pandemia, data la scarsità di forza lavoro, i datori di lavoro, in competizione per un lavoro più scarso, furono costretti ad alzare i salari. L’aumento del reddito delle famiglie del popolo consentì loro di ambire a consumi prima inaccessibili, come i panni tinti per vestirsi, la carne in tavola una volta alla settimana e il vino per rallegrare le serate dopo il lavoro. La domanda stimolò naturalmente le nuove produzioni tessili, accrebbe gli allevamenti e le macellerie, diffuse la coltura della vite e moltiplicò le osterie. La combinazione di consumi e investimenti produsse prosperità, i cui profitti vennero reinvestiti nei palazzi e nelle arti che fiorirono nel Rinascimento.
La grande crisi del 1929
Cambiamo secolo e avviciniamoci ai giorni nostri. Dopo la crisi del 1929, una classica crisi da sovraproduzione che la Borsa aveva trasformato anche in crisi di liquidità, le condizioni della popolazione erano globalmente drammatiche. La disoccupazione toccò il 25% e la povertà fece crollare i consumi contagiando tutti i settori. Anche in questo caso, non ci fu alcun recovery plan. Però le ore lavorative settimanali che nel 1929 erano 48, nel 1934 con il new deal erano diventate 34. Diventò istituzionale la settimana lavorativa di cinque giorni (e quindi con il sabato libero) che anticipando tutti Henry Ford aveva adottato nei suoi stabilimenti fin dal 1926, per distribuire l’impressionante incremento di produttività che si era verificato con l’introduzione della sua rivoluzionaria catena di montaggio.
Il dibattito tra Giovanni Agnelli e Luigi Einaudi
Nello stesso periodo l’Italia aveva un orario di 48 ore settimanale per sei giorni alla settimana. Ma nel 1933 il senatore Giovanni Agnelli in un dibattito con Luigi Einaudi riconosceva che la velocità del progresso delle macchine e dell’organizzazione non andavano di pari passo e sosteneva che la soluzione fosse nella riduzione degli orari di lavoro. La discesa dell’orario di lavoro avvenne però con frizioni e discussioni in Italia, tanto che le 40 ore e la settimana corta furono una conquista della vigilia degli anni Settanta.
Il senso della nostra riflessione?
Non siamo in una situazione molto diversa di quella della fine del Trecento o dei primi anni Trenta del secolo scorso. Le tecnologie hanno ampiamente introdotto guadagni di produttività che permettono sia di alleggerire sia di sostituire il lavoro umano, anche in settori tradizionalmente non impattati dall’innovazione, come i servizi e il terziario. La digitalizzazione che introdurrà il PNRR accelererà questo fenomeno. Nello stesso tempo, l’uscita dalle grandi crisi ha bisogno di consumi, quindi di più redditi distribuiti a più famiglie, per evitare di tornare allo scenario dello zero virgola.
Due suggerimenti concreti
- Il primo: che la riforma fiscale che accompagnerà il recovery plan sia coerente con la necessità di aumentare il reddito disponibile dei ceti più compressi negli ultimi due decenni.
- Il secondo: che s’incominci a considerare la settimana di 4 giorni e di 32 ore.
Per una volta, potremmo essere tra i primi ad adottare una soluzione notevole, verso cui la tecnologia ci sta naturalmente portando. In Spagna se ne sta già parlando. In Giappone la settimana di 4 giorni la sta sperimentando Microsoft, con l’obiettivo di migliorare la produttività totale. In Svezia sono stati condotti diversi esperimenti, anche nell’amministrazione pubblica, che dimostrano che si può ottenere in 4 giorni essenzialmente lo stesso prodotto che si realizza in 5, lasciando più tempo libero alle persone, che possono sia impiegarlo per apprendere di più, sia per proprie attività del tempo libero. Per il settore turistico sarebbe una riforma che incrementerebbe la domanda, dopo i tempi oscuri appena attraversati.
Da qualche tempo, la settimana lavorativa di 4 giorni è tra gli obiettivi della 34enne premier finlandese Sanna Marin. Da noi, purtroppo, non è neppure iniziato il dibattito.
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