L’anno dei “portenti sciagurati” (dal Coronavirus al crollo del prezzo del petrolio, a fine aprile divenuto addirittura negativo per un giorno) forse sta per riservarci altri prodigi inquietanti. Almeno in campo energetico.

Tutto nasce dalla strisciante crisi economica mondiale che dura, di fatto, dal 2008. Accelerata per tutto il 2019 anche dalla guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, aveva indotto, per la prima volta da oltre un decennio, a ridurre le stime della domanda petrolifera globale per il 2020. Già all’inizio di quest’anno si produceva più greggio (circa 100,5 milioni di barili al giorno, mb/g) di quanto il mercato potesse assorbirne (98,8 mb/g), con un chiaro effetto depressivo sui prezzi, scesi mediamente di quasi il 25% durante il 2019.

La diffusione della pandemia - con oltre metà del mondo posto in quarantena, pur in tempi diversi, e la quasi totalità delle attività produttive e di trasporto paralizzate - ha inferto alla domanda di “oro nero” un colpo senza precedenti: per un paio di mesi essa è franata addirittura sotto quota 80 mb/g.

I principali produttori (riuniti nel Cartello dell’Opec, guidato come sempre dall’Arabia Saudita ma da alcuni anni allargato di fatto ad altri grandi esportatori come Russia, Messico e Kazakistan), tentando di risolvere il problema, hanno fatto il contrario di quanto il buon senso e l’esperienza passata suggerivano: ridurre in modo drastico la produzione. La Russia in particolare, cercando di strappare quote di mercato ai concorrenti, ha rifiutato di aderire a un primo, modesto taglio produttivo collettivo di 1/2 mb/g, negoziato all’inizio di marzo. L’Arabia  Saudita ha risposto aumentando la sua produzione e ribassandone i prezzi fino a 8 dollari al barile. L’effetto è stato deleterio: il mercato inondato di petrolio proprio mentre questo ne richiedeva sempre meno. Con un inevitabile crollo dei prezzi.

Lo shale oil americano nel mirino

A farne le spese, in prima battuta, è stato soprattutto lo shale oil americano, un tipo di greggio prodotto negli Usa da una quindicina di anni con il moderno (ma inquinante) sistema del fracking (la frantumazione idraulica ad altissima pressione delle rocce di scisto impregnate di petrolio), grazie a cui si estrae greggio di ottima qualità ma a costi mediamente più alti (circa 50 dollari al barile) della produzione convenzionale, che nei Paesi del Golfo Persico scendono fino a 10/20 dollari. Il tracollo dei corsi petroliferi si spiega così: finché il mercato, nello scorso decennio, ha assorbito la crescente produzione americana, lo shale oil è stato un affare redditizio, tanto da fornire, nel 2019, il 63% del greggio del Paese (7,7 mb/g su un totale di 12,2). Ma quando la caduta della domanda globale ha fatto crollare i prezzi intorno a 20/25 dollari, per questi produttori (in genere medio-piccoli) si è profilato il tremendo dilemma tra estrarre in perdita o chiudere i pozzi.

Nel primo caso, diventava inevitabile un ulteriore, rapido aumento dell’indebitamento (mediamente già molto elevato). Secondo Rystad Energy, una delle maggiori aziende mondiali di consulenza energetica, con quotazioni sotto i 20 dollari al barile oltre 500 imprese avrebbero rischiato la bancarotta. Un esempio su tutti: Chesapeake Energy Corp., la più grande impresa del settore finora fallita, a fine giugno ha chiuso l’attività con oltre 8 miliardi di dollari di passivo. Nel secondo caso, la prospettiva era un’ondata di svendite di giacimenti alle grandi imprese petrolifere, che sarebbero così entrate in possesso, a prezzi stracciati, di riserve di “oro nero” spesso ingenti. Ma anche destinate a restare a lungo improduttive nel sottosuolo, finché i corsi del barile non fossero tornati remunerativi. Non a caso, l’indice delle trivelle estrattive in attività negli Usa - uno degli indicatori più affidabili per valutare l’andamento del mercato -, secondo le stime di Baker Hughes, una delle principali imprese di servizi petroliferi, è crollato in un anno da 719 alle attuali 179. Risultato analogo si ha comprendendo anche le trivelle dei pozzi metaniferi: da 868 a 255.

In America, per chi ha continuato a produrre, è quindi diventato vitale trovare, a qualsiasi prezzo, un acquirente in grado di stoccare il greggio estratto che non trovava mercato. Ma ormai i depositi erano quasi ovunque pieni: quelli Usa sono giunti a contenere 530 milioni di barili, l’equivalente di tre settimane di consumi, quasi il doppio del normale, costringendo ad affittare decine di grandi petroliere - tenute ferme nei porti colme di greggio - come serbatoi galleggianti. Da qui la necessità di svendere il petrolio, addirittura “regalandolo”, com’è accaduto il 20 aprile, con un compenso (fino a 23 dollari al barile in quel “magico” giorno), a chi avesse saputo dove stivarlo.

I PREZZI

Le quotazioni del Wti negli ultimi tre anni
Le quotazioni del Wti negli ultimi tre anni
Fonte: macrotrends.net

«Troppo poco e troppo tardi»

L’alternativa angosciosa (estrarre in perdita o chiudere i pozzi) per Mosca e Riyadh invece non si è posta: i loro greggi si estraggono rispettivamente al costo di 20/30 dollari e addirittura appena una decina per barile. Quindi possono resistere, per un certo tempo, producendo anche in perdita: le loro aziende energetiche (grandi colossi di fatto sotto controllo pubblico) si reggono grazie a riserve valutarie e fondi sovrani statali dotati di molte centinaia di miliardi di dollari, pronti a coprire mancati introiti temporanei. Ma il rischio di un crollo dei prezzi ha fatto sì che il 9 aprile i due giganti produttivi accettassero un accordo - con la partecipazione per la prima volta anche degli Usa - per tagliare la produzione dell’Opec allargata. Una riduzione (9,7 mb/g) di proporzioni mai viste nei 60 anni di vita del Cartello petrolifero, anche se, a fronte di una domanda ormai in caduta libera, come ha chiosato il Financial Times, si è trattato comunque di «troppo poco e troppo tardi».

Il taglio ha comunque prodotto qualche effetto e i corsi sono risaliti. Da luglio navigano intorno a quota 40 dollari: accettabile se si pensa all’incubo dei 20 dollari medi toccati in aprile, ma ancora insufficiente per le necessità finanziarie di un gran numero di produttori. Perché il vero, grande problema di quasi tutti i Paesi petroliferi è il “breakeven point”, la quotazione necessaria a garantire almeno il pareggio ai loro bilanci statali, uno degli indicatori più sicuri del reale andamento economico di un Paese produttore. E poiché le uscite - sia per i grandiosi piani di sviluppo (come la “Vision 2030” saudita, che prevede investimenti per 4.000 miliardi di dollari in un decennio), sia per la dilagante corruzione che il petrolio ha universalmente generato - risultano di fatto incomprimibili, ecco che occorrono quotazioni del greggio mediamente ben più elevate delle attuali per tenere i conti sotto controllo.

Pena il drastico ridimensionamento dei piani di sviluppo e degli stessi investimenti per assicurare quanto meno gli attuali livelli di produzione energetica. Non a caso nel 2020, per la prima volta da vari anni, gli investimenti mondiali in campo energetico scenderanno sotto la soglia-limite dei 400 miliardi di dollari.

Chi vince e chi perde

Che cosa accadrà in futuro? Due le vie su cui possono avviarsi i prezzi mondiali del greggio: una prevede quotazioni molto deboli (forse anche sotto i 20 dollari al barile) per l’intero 2021, legate a possibili nuove ondate della pandemia, con forti e duraturi impatti sulla crescita mondiale. L’altra punta invece su corsi in risalita a 50/60 dollari, in grado di soddisfare i Paesi produttori senza deludere troppo quelli consumatori, fin dalla prossima primavera, non appena nel mondo si avvierà la ripresa economica post Covid 19. Ma c’è anche chi ritiene che si sia ormai raggiunto il picco di Hubbert”, la soglia massima di produzione storica di greggio, alla quale seguirà soltanto un inesorabile calo. L’incertezza resta grande anche perché, com’è intuibile, gli interessi dei grandi produttori di greggio sono assai differenti. Proviamo a prevedere quali potrebbero essere vincitori e vinti di questo scontro all’ultimo barile?

Se i prezzi tornano stabilmente oltre quota 50 dollari, vincono i Paesi produttori e le grandi aziende del settore (occidentali e non), che ora vedono vacillare i loro bilanci a causa di profitti sempre più miseri. Con quotazioni sui 20 dollari prevalgono i Paesi consumatori e ciò, almeno in una prima fase, potrebbe costituire un forte incentivo per l’uscita dalla crisi economica causata dalla pandemia. Più di tutti appare in pericolo l’Opec, sempre meno in grado di “fare il mercato” come un tempo. A tali livelli, poi, rischiano il disastro soprattutto i produttori di shale oil americani, ma anche molti di greggio convenzionale, compresi i regni un tempo ricchissimi del Golfo Persico. Infatti, se il loro prezzo di produzione è relativamente basso (e quindi offre un po’ di profitto anche con quotazioni mondiali stracciate), il temuto breakeven point dei bilanci statali, già ricordato, richiede livelli ben superiori. 

L’Arabia Saudita, per esempio, che estrae i suoi barili a un costo di circa 10 dollari, dovrebbe venderli quasi a 90 per mantenere in equilibrio i propri conti. Ciò perché - nonostante un fondo sovrano ricco di 320 miliardi e riserve in valuta pregiata per 480 miliardi - le enormi spese militari (circa 70 miliardi l’anno, l’8% del Pil) e gli investimenti nel faraonico piano d’investimenti “Vision 2030” hanno generato un deficit di bilancio di 50 miliardi per il 2020, mentre il debito estero è salito a 120 miliardi.

Un po’ meglio (ma solo un poco) va la Russia, che pareggia i suoi conti pubblici con un barile a “soli” 42 dollari e - sostiene l’ex premier Anton Siluanov - potrebbe resistere per almeno un decennio a prezzi sui 30-35 dollari. In realtà, anche Mosca deve far cassa il più possibile: essa vive una delicata fase politica, con il presidente Putin che, dopo l’approvazione della discussa riforma costituzionale che lo terrà al potere per altri 16 anni, è alla ricerca del consenso popolare. Il malcontento politico invece è crescente, le spese militari restano molto elevate (3,9% del Pil), quelle sociali sono compresse e il reale costo umano ed economico per il Paese della pandemia resta un’incognita.

La quotazione del petrolio entra nelle urne americane

A ciò va aggiunta la situazione americana, assai delicata per altri versi. Trump ha stanziato una gran massa di aiuti per i settori più in crisi, shale oil compreso, ma soltanto una solida ripresa dell’economia mondiale, con corsi stabilmente oltre i 50 dollari, può riportare al profitto questo tipo di greggio e riavviare l’economia. Ma il rivale Joe Biden è tentato dal vietarne l’estrazione perché inquina a fondo l’ambiente. Le elezioni presidenziali ormai imminenti si giocano dunque anche (e forse soprattutto) sulla quotazione del petrolio. L’ex “oro nero” potrebbe presto ribaltare il mondo.