Sono trascorsi vent’anni dall’11 settembre, una data che è divenuta un evento. E di un evento tanto complesso – nelle sue cause profonde e nelle sue molteplici ripercussioni, più che nell’accadimento in sé – proviamo qui ad offrire una serie di osservazioni, necessariamente non esaustive, ma che possono fornire spunti per una lettura più ampia ed articolata.

L’intelligence

La prima considerazione attiene a quanto, nei settori dell’intelligence come in quelli accademici che si occupavano di Islamismo radicale, si sapeva. E si sapeva molto. L’intelligence era a conoscenza della rete globale di Al-Qaeda (“La Base”), del suo modus operandi, dei suoi metodi di reclutamento, dei suoi piani strategici. Lo sapeva per via di indagini e ricerche approfondite. Studiosi conoscevano l’ideologia, la parabola, e i proclami di Al-Qaeda: il gruppo islamista, infatti, pubblicava testi e comunicati che venivano regolarmente diffusi durante tutti gli anni 90. Erano anni in cui Al-Qaeda si costituì come tale dopo l’incubazione in Afghanistan negli anni 80, nel contesto della guerra contro i Sovietici.

Inoltre, prima dell’11 settembre, c’erano state avvisaglie terribili delle reali mire del “Fronte contro i Crociati” annunciato da Bin Laden e dal suo braccio destro, Ayman Al-Zawahiri, nel 1995: l’attacco alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998 (con più di 200 morti), e quello all’incrociatore USS Cole nel Golfo di Aden nel 2000. L’Amministrazione Clinton aveva risposto, per esempio, bombardando una fabbrica in Sudan che si credeva producesse armi per il gruppo terroristico (errore: produceva soltanto medicine). Ma mai si credette davvero che Al-Qaeda potesse rappresentare quello che di lì a pochissimo sarebbe diventato, ovvero l’elemento centrale nelle strategie di sicurezza globale degli USA e poi dell’intera comunità internazionale. Questo fu dovuto a miopia (dell’Amministrazione Clinton come di quella di Bush Jr, almeno dei primi mesi), non certo a qualche oscura macchinazione cospiratoria. Insomma, l’11 settembre poteva sembrare un fulmine a ciel sereno, ma non lo era.

La fede e la politica

L’Islamismo è un fenomeno che mira a far diventare una fede religiosa, l’Islam, un programma politico. Vi sono movimenti Islamisti che credono che la lotta politica debba essere violenta: vengono definiti spesso come gruppi radicali o estremisti. All’interno dell’Islamismo sono una minoranza, ma si impongono chiaramente all’attenzione pubblica. Al-Qaeda è stato storicamente il più famoso e influente di questi gruppi. E con l’11 settembre ha contribuito a uno sviluppo decisivo.

Dopo gli attacchi terroristici a New York e Washington si assistette infatti a un’enorme proliferazione di pubblicazioni sul tema, che si sarebbe allargata nei due decenni successivi a tutta la variegata galassia Islamista. Ma questa volta, temi affrontati fino ad allora solo in oscuri seminari accademici per specialisti, irruppero nella cultura di massa, specie occidentale, per rispondere ad una domanda che in quei giorni sembrava centrale: «Perché ci odiano?».

Perché ci odiano?

Una domanda che racchiude molto più di quanto sembri, e che rappresenta, in sè stessa, una delle principali conseguenze dell’11 settembre. La risposta che si impose inizialmente, bruscamente, fu: «Ci odiano per chi siamo». Ovvero, ci odiano per i nostri valori e per la nostra identità.

Una tale riflessione indicava l’emersione, chiara ed esplicita, di due categorie manichee: noi e loro.

Da una parte l’Occidente; dall’altro l’Oriente, in particolare e soprattutto il mondo Islamico. Una risposta identitaria, che insisteva su una ineluttabile differenza culturale, un tratto distintivo determinante che separava “noi” e “loro” in due entità inevitabilmente contrapposte, incompatibili e nemiche.

L’inimicizia scaturiva fondamentalmente nella natura stessa dell’Islam, una religione antitetica alla modernità in quanto non ne poteva riconoscere i tratti e i valori fondanti: separazione tra religione e politica, diritti individuali inalienabili, vita umana come esercizio di libertà. Al-Qaeda, in questo ragionamento, non veniva considerata un’aberrazione del mondo Islamico, un’indebita e mostruosa trasposizione di una pratica di fede in un’ideologia politica rivoluzionaria, radicale e violenta; ma anzi una sua naturale, rappresentativa e financo necessaria manifestazione.

Lo scontro tra civiltà

Era la costruzione del paradigma dello “scontro di civiltà”, che ebbe a livello mondiale i suoi rappresentanti in Bernard Lewis, Samuel Huntington e Francis Fukuyama. Questo paradigma, appunto, tracimò dopo l’11 settembre dall’ambito accademico (dove aveva conosciuto alterne e poi declinanti fortune) a quello della saggistica popolare e poi dei mass media, affermandosi nella cultura di massa proprio in virtu’ di quella semplificazione brutale della realtà che ne è tratto distintivo. Gli scritti di Oriana Fallaci (“La rabbia e l’orgoglio” in primis) sono gli esempi più celebri. Una rappresentazione del mondo tanto semplice e netta che non poteva che rivelarsi terribilmente inadeguata per esplorare appieno cause e conseguenze dell’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono.

La Guerra al Terrore

Non sulla base solo di queste idee, ma nutrendosene per legittimare e sostenere un nuovo corso di politica estera, l’Amministrazione Bush inaugurò una nuova strategia a livello geopolitico: la Guerra al Terrore. Sono dunque primariamente le conseguenze dell’11 settembre a rilevarne la gravità: esso catapultò il mondo in una nuova era. Dal 1945 al 1989 si era vissuti nel bipolarismo della Guerra Fredda. Dopo il 1991, con la scomparsa dell’URSS, gli Stati Uniti avevano tentato di fondare un Nuovo Ordine Mondiale, dove la mancanza di alternative o sfide realistiche alla loro egemonia (politica, culturale, economica: la “Fine della Storia” nel celeberrimo saggio di Fukuyama) ne dimostrava ipso facto l’intrinseca validità. Ecco allora che l’11 settembre pone fine a quella breve e ingenua stagione.

La sfida alla civiltà liberale

Possono non esserci alternative valide al sistema occidentale (e l’Islamismo certo non ne ha prodotte, come aveva sostenuto già nel 1994 Olivier Roy in un influente saggio, “Il Fallimento dell’Islam Politico”); ma si percepisce e si costruisce una sfida alla civiltà liberale e capitalista. Una sfida portata ora non più dal Comunismo, ma da un fenomeno che appare totalmente alieno, diverso, incomprensibilmente e spaventosamente avverso alla modernità. In questi termini, ecco che il linguaggio dello Scontro di Civiltà si concretizza a livello propagandistico con la “Guerra al Terrore” e a livello strategico nella repressione della sfida all’Occidente in due guerre: l’invasione nel 2001 dell’Afghanistan dei Talebani e poi nel 2003 dell’Iraq di Saddam Hussein.

Le contraddizioni sullo scacchiere

La conclamata politica isolazionista con cui Bush era entrato alla Casa Bianca solo alcuni mesi prima è stata completamente ribaltata dall’11 settembre, che invece offre perversamente la possibilità di espandere l’interventismo militarista dei neoconservatori (fino ad allora una fazione minoritaria della destra repubblicana) e con esso valori e interessi statunitensi (i primi considerati come universali e i secondi come materia di sicurezza nazionale). Già all’epoca da più parti si protesta per la logica fallace di queste guerre: Al-Qaeda non è uno stato. Perché’ invaderne due? Per l’appoggio che i Talebani e Saddam le danno, si dirà; ma al di là della mancanza di prove, degli obiettivi molteplici e indefiniti (guerra al terrorismo, esportazione della democrazia, lotta alla proliferazione di armi di distruzioni di massa, solo per rimanere alle motivazioni ufficiali), e delle sofferenze causate (i morti e feriti si conteranno a centinaia di migliaia, senza considerare i rifugiati, la devastazione economica e sociale), è appunto l’idea stessa di combattere il ‘terrorismo’ facendo una ‘guerra’ che sembrava sconfinare nell’assurdo orwelliano.

Le crociate incrociate

Alle guerre in Afghanistan e Iraq non ha fatto che da contraltare un’ondata di attacchi terroristici in tutto il mondo, orchestrati sia da Al-Qaeda che dalle decine di gruppi ad essa legati o da essa ispirati. Per questi, il millenario scontro con i "Crociati" si stava finalmente compiendo. Dal canto suo, l’Amministrazione Bush meglio non seppe fare che etichettare il suo progetto di ordine mondiale come una "crociata". La paralizzante dicotomia dello "scontro di civiltà" sembrò diventare una profezia che si auto avvera: lo stesso tipo di linguaggio manicheo caratterizzava i neo-conservatori di Bush come gli estremisti di Bin Laden. Gli uni rinfacciavano agli altri di essere il male assoluto, proponendosi vicendevolmente come soluzione alle sopraffazioni e alla violenza altrui. Un autore anglo-pakistano, Tariq Ali, scriverà appunto già nel 2001 un libro dal titolo quanto mai esplicativo per descrivere questa situazione: "Lo scontro di fondamentalismi".

L’odio viscerale

A questo punto è bene tornare all’altra risposta sul “perché ci odiano?” Una risposta che era già stata elaborata negli ambiti accademici ben prima dell’11 settembre, ma che, come accennato, ha ricevuto nuova linfa dopo di esso e soprattutto dopo le guerre in Afghanistan e Iraq.

L’ostilità aperta e viscerale di un gruppo come Al-Qaeda dipende non da ciò che l’Occidente è, ma da quello che l’Occidente ha fatto e fa: «Ci odiano per quel che facciamo».

Studi di questo tenore sull’emersione dell’Islamismo si concentrano su processi storici e dinamiche politiche. Essi sono meno interessanti alla ricerca di una qualche natura intrinseca dell’Islam come “civiltà’’ che darebbe vita ad Al-Qaeda e quindi all’11 settembre. Si peritano invece di capire come eventi a livello politico, sociale ed economico abbiano portato all’emersione dell’Islamismo, l’ibrida commistione di religione e politica.

Questa prospettiva, così facendo, finisce per disarticolare il mondo manicheo dello scontro di civiltà proprio in virtù del radicamento nella storia dell’Islamismo. Quello che si sottolinea sono fenomeni come il colonialismo europeo, le ripercussioni della guerra fredda, l’imperialismo americano, l’instaurazione e il supporto di regimi dittatoriali nel mondo musulmano, la sperequazione economica frutto di una globalizzazione incontrollata e oppressiva. Quello che viene addebitato a una natura intrinseca dell’Islam nel paradigma dello scontro di civiltà viene invece qui attribuito a fenomeni storici dove il mondo musulmano è stato alla mercé di poteri al di fuori del suo controllo. E che ha trovato, in alcuni casi, in una rilettura ideologica e politica dell’Islam un linguaggio e un modo per opporre resistenza.

Il Che Guevara dell’Islam

È anche per questo che un Bin Laden, sia da vivo che da morto, viene spesso descritto con i toni con cui negli anni 60 la controcultura occidentale si riferiva a Che Guevara.

Il corollario di questo ragionamento è che l’Islamismo, anche e soprattutto quello radicale di Al-Qaeda e dell’11 settembre, non è un fenomeno di ri-emersione di una tradizione Islamica nemica del moderno. È invece un fenomeno prodotto dal moderno, pienamente moderno: non l’Altro assoluto rispetto alla nostra modernità, ma parte integrante di essa.

È una prospettiva che richiede sforzi per riconoscere come si è giunti all’11 settembre, e che mal si presta a semplificazioni indebite.