Le tasse non bastano più. Non è una considerazione italiana, ma generale. Per contrastare la pandemia si è ampiamente agito sulla spesa pubblica in deficit, così che il debito pubblico è scappato di mano.
Nei paesi avanzati il quoziente tra debito pubblico e Pil è in media il 120%. Nei paesi emergenti resta al 60, solo per il peso relativo della Cina, considerata emergente, e anche perché diversi paesi emergenti hanno perso, nel corso del 2020, l’accesso ai mercati dei capitali. Hanno fatto default in sei nel 2020: Argentina, Belize, Ecuador, Suriname, Libano e Zambia. Inoltre, Gabon, Mozambico, Repubblica del Congo hanno meritato un rating CCC (secondo Fitch) ed El Salvador, Iraq e Sri Lanka sono a B- con outlook negativo.
In Europa, la linea di demarcazione del 100% del Pil, che rappresenta l’allarme rosso per il debito pubblico, l’hanno sorpassata tutti i grandi, a eccezione della Germania. Il risvolto macroeconomico della situazione è chiaro: lo spazio fiscale che i paesi avanzati hanno per gestire la prossima crisi è zero. Inoltre, i paesi ad alto debito soffriranno quando il mercato finanziario avrà tassi di interesse normali e saranno delle vere e proprie mine per la stabilità finanziaria internazionale.
La conseguenza di questo è che quando l’economia sarà in ripresa, il consolidamento fiscale sarà inevitabile e sarà impossibile non alzare le tasse. Già, ma quali? La globalizzazione ha prodotto due effetti: la migrazione delle grandi imprese alla ricerca di giurisdizioni fiscali più convenienti e, più recentemente, l’esplosione della produzione di servizi digitali, difficili o ambigui da collocare entro una giurisdizione fiscale territoriale. La conseguenza è, come scrive Giorgio Arfaras, che le grandi imprese del terzo millennio non sono molto diverse dalle grandi imprese di mezzo secolo fa, ossia producono più o meno lo stesso profitto lordo (sui ricavi), ma hanno un profitto netto più alto, perché pagano meno tasse.
I G7 poco convincenti sulla minimum tax
Così, i 7 grandi si sono incontrati e hanno concordato una minimum tax per le società, globale ma da riscuotere Stato per Stato, pari al 15% sui profitti delle grandi imprese (senza definire quali sarebbero). In secondo luogo, hanno convenuto che il 20% del profitto eccedente il margine del 10% sarà imputato e tassato dove sono avvenute le vendite.
L’accordo è stato salutato con soddisfazione da tutti, perché ripristinerebbe l’equità fiscale e segnerebbe la fine della concorrenza al ribasso fiscale che ha contraddistinto gli ultimi decenni, da quando la mobilità del capitale è esplosa.
Noi siamo decisamente meno entusiasti dell’accordo, perché temiamo che abbia voluto segnare un punto di svolta politico, più che un rimedio pratico a una situazione oggettivamente problematica.
Tre grandi questioni
La prima è che l’accordo manca di concretezza. E per essere applicato richiede non solo l’adesione di tutti i paesi (che non può che essere volontaria), ma un gigantesco scambio di informazioni tra gli Stati, complicato dal fatto che le grandi multinazionali pagano già le tasse nei paesi dove si sono stabilite e quindi potrebbero eccepire il caso della doppia tassazione e chiedere che le tasse già eventualmente versate costituiscano un credito di imposta.
La seconda questione è che il 15% di corporate tax minima non è un significativo aumento rispetto a quanto già è previsto nella maggior parte dei paesi considerati più convenienti. Il 15% è la corporate tax base in Lussemburgo. In Europa: la Bulgaria è al 10%, Irlanda e Cipro al 12,5%, ovunque altrove si paga di più. Insomma, sia sul fronte del riparto geografico del profitto (solo il 20% del profitto eccedente il 10%), sia sul fronte delle tasse minime delle grandi imprese, il giro di vite è più nominale che sostanziale. Possiamo tranquillamente scordarci di colmare le casse pubbliche con queste manovre, quando pure fossero adottate. Tra l’altro è previsto che l’applicazione di queste regole, non a breve termine di sicuro, produrrà la parallela rimozione delle varie web tax emerse nel frattempo.
Apocalittici e tartassati
La terza questione è quella più sostanziale.
Quante imposte dovrebbero pagare le società? E quante ne pagano effettivamente?
Prendiamo come esempio quello italiano, caso di solito definito come “tartassato”. La verità è che in un anno normale l’Ocse ha calcolato che (2017) le imposte delle società sui profitti e plusvalenze sono state il 2,1% del Pil (contro una pressione fiscale complessiva del 43%), in Germania le società hanno pagato di meno (2%) e in Francia un poco di più (2,3%), ma ovunque si guardi con questa prospettiva risulta chiaramente che non c’è sistema fiscale che riesca a far meglio (Stati Uniti 1,7%), salvo ovviamente i semi-paradisi fiscali (Lussemburgo 5,2%, perché il Lussemburgo domicilia i profitti degli altri). Questo perché più o meno tutte le giurisdizioni fiscali sono uguali in una cosa: massimizzano il prelievo sui redditi personali (delle persone fisiche) e sulle transazioni del valore aggiunto (Iva) e sui consumi.
Le tasse sui redditi personali valgono quattro volte tanto quelle sulle società: 8 per cento del Pil nell’Ocse e quasi il 12 per cento del Pil in Italia). Le tasse sui beni e servizi (che includono sia l’Iva che le accise) valgono l’11 per cento nella media Ocse e il 12 per cento del Pil in Italia. Infine i contributi sociali, che sono circa il 9% del Pil nell’Ocse, sono il 13% in Italia. Come si vede, le imposte sulle società sono più o meno deliberatamente tenute ai minimi ovunque, e questi numeri non considerano i contributi alla produzione più o meno generosamente concessi, né le cosiddette tax expenditure, che in Italia valgono l’8% del Pil e sono prodotte a vantaggio per lo più di categorie produttive.
È comprensibile la ragione di tutto questo.
In un modello nel quale i paesi sono in concorrenza per la crescita del proprio Pil, la leva fiscale è stata usata, grazie alla globalizzazione, per crescere più degli altri attraendo a casa propria il Pil. L’aumento della pressione fiscale media (che ha riguardato tutti i paesi) è stata pagata tutta quanta dai redditi personali. Ed è così che si sono generate le diseguaglianze di ricchezza che sono sempre più spesso sotto la lente.
Chi ha più sostanze sfugge le più alte imposte personali trasformando i redditi personali in societari e poi trasferendoli in luoghi amichevoli con il favore di strutture giuridiche ad hoc.
Il punto chiave della debolezza dell’accordo sta qui: se si decide di spostare parte del peso fiscale sulle grandi società bisogna essere un po’ più realistici con l’aliquota minima e avvicinarsi almeno all’aliquota minima dei redditi sulle persone fisiche (23%).
In secondo luogo, siccome non si può più modificare un sistema fiscale senza tenere conto dei contraccolpi internazionali, occorrerebbe che tutti i Paesi, con estrema maturità, rinunciassero alla concorrenza fiscale come strumento di attrazione degli investimenti internazionali. Tra l’altro, se probabilmente un certo grado di concorrenza fiscale è ineliminabile, non è però giustificabile entro un’area monetaria come quella dell’euro, dove produce effetti dannosi.
In terzo luogo, si possono abbassare le tasse personali, cresciute ovunque troppo, a condizioni di non tollerare più i paradisi fiscali e i centri fiscali offshore, che gestiscono masse di risparmio spesso frutto di redditi poco o per nulla tassati e che custodiscono i segreti per arricchire i più ricchi. Il tutto sempre più velocemente da quando i mercati finanziari moltiplicano (troppo) i valori delle azioni.
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