Che cosa possono dirci i sondaggi condotti fino al 9 settembre sul risultato delle elezioni che si terranno domenica prossima? Non moltissimo, in verità, come dimostrano le mediocri performance di queste rilevazioni nei turni elettorali precedenti, ben diverse da quelle registrate in altri paesi simili al nostro (Francia, Germania, Spagna, per citarne qualcuno).

C’è una spiegazione, però: ovunque, i sondaggi possono essere pubblicati fino al momento dell’apertura dei seggi, in Italia ne è vietata la diffusione a partire da due settimane prima del voto, ossia quando molti elettori – e questo avviene non solo in Italia – devono ancora decidere che cosa votare, o addirittura se recarsi alle urne. Quest’anno, poi, la questione è complicata dal fatto che buona parte delle rilevazioni sono state effettuate in agosto, ossia in un periodo in cui, normalmente, i sondaggi non si fanno proprio, sia perché è più difficile costruire un campione attendibile, sia perché è noto che in periodo di vacanza le persone pensano alla politica anche meno del solito. Detto tutto questo, un’analisi delle rilevazioni effettuate su un arco di tempo più lungo della sola campagna elettorale, e guardando non ai singoli sondaggi bensì a una media ponderata dei risultati (figura 1), qualcosa di importante comunque lo dice.

Sull’arco di un anno, si vedono chiaramente la tendenza alla crescita di Fratelli d’Italia (FdI) e Partito democratico (Pd), quella al declino di Lega e Movimento 5 Stelle (M5S) e la sostanziale stabilità di Forza Italia, tutte confermate anche dopo lo scioglimento delle Camere il 21 luglio (in figura, la linea nera verticale). Intorno alla metà di agosto (è il momento evidenziato dalle frecce rosse), però, interviene una discontinuità: il Pd comincia a perdere terreno, il M5S si rafforza, la Lega accelera la tendenza alla discesa. Che cosa motiva questa svolta? L’unico fatto nuovo della settimana precedente è la rottura dell’accordo (sottoscritto da pochi giorni, ma nell’aria da un mese) fra il Pd di Enrico Letta e Azione di Carlo Calenda, che decide invece di allearsi con Italia Viva di Matteo Renzi. È lì che le cose cambiano.

La marea degli indecisi

Da quel momento, al livello degli attori politici diventa chiaro che il centrosinistra non è più una coalizione e non sarà competitivo sui collegi uninominali: sfuma, dunque, la possibilità di un accordo parlamentare fra centrosinistra e M5S se il centrodestra non arrivasse alla maggioranza assoluta dei seggi, e il M5S si sposta su posizioni sempre più “esterne” e critiche rispetto all’esperienza del governo Draghi, per massimizzare almeno il voto di protesta, visto che andare al governo non è più un’opzione. Gli elettori, a loro volta, si rendono anch’essi conto di come stanno le cose e, a seconda dei casi, si spostano su FdI e sul M5S, senza premiare particolarmente Italia Viva di Renzi e Azione di Calenda, percepiti, probabilmente, come meno influenti da soli di quanto sarebbero stati in coalizione con il Pd. Questo lascia però, ancora al 9 settembre, una marea di indecisi (figura 2).

La figura mostra i possibili ambiti di indecisione: fra voto e astensione, certo, ma anche su “che cosa” votare. Al di là degli spostamenti all’interno della stessa coalizione (ovvi, e che in realtà riguardano il solo centrodestra, a centrosinistra la coalizione non c’è), vi sono a questo punto diverse opzioni aperte sia per l’elettorato definibile, semplificando molto, come “arrabbiato” (questo può scegliere fra Lega, M5S e ItalExit), sia per quello definibile come “riformista”: qui l’offerta comprende Pd, FI, Az-IV e – punto cruciale – FdI. Su questo torneremo.

L'interpretazione dei segnali

In ogni caso, che nella torrida estate del 2022 qualcosa sia cambiato nella testa (verrebbe da dire nella pancia) degli elettori, è confermato anche da altri segnali. Fra fine giugno e primi luglio, l’Eurobarometro (un sondaggio condotto in tutti i paesi dell’Unione dal 1974, affidabile perché consente confronti negli anni e fra i diversi paesi) rilevava in Italia un’opinione pubblica relativamente tranquilla e fiduciosa, in media con il resto dell’UE su quasi tutto, con poche differenze. Gli italiani risultavano essere:

  • più negativi della media sulla situazione economica del proprio paese (media UE buona 34 per cento, cattiva 64; Italia buona 21, cattiva 78)
  • ma più ottimisti sul futuro (i prossimi dodici mesi andrà: meglio, media UE 16, IT 29; peggio: media UE 53, IT 38)
  • più fiduciosi della media sull’efficacia del PNRR (media UE 56, IT 65)
  • preoccupati come tutti dell’inflazione e della crisi energetica
  • un po’ meno convinti delle sanzioni alla Russia e dell’invio di armi all’Ucraina, e dunque un po’ meno soddisfatti della media su risposta UE (57-37 UE, 56-40 IT) e risposta nazionale (55-40 UE, 52-45 IT) alla crisi ucraina
  • addirittura, un po’ più ottimisti della media sul futuro dell’Unione Europea (IT 67 per cento, UE 65).

Il quadro che si può osservare un paio di mesi dopo, in una rilevazione condotta a fine agosto in cui si chiedeva agli intervistati quali fossero i problemi avvertiti come più urgenti e se il nuovo governo riuscirà a occuparsene in maniera efficace, è radicalmente diverso (figura 3).

Come si può vedere, la maggioranza assoluta degli intervistati non crede che il governo che uscirà dalle urne sarà in grado di affrontare i problemi (fa eccezione solo la sicurezza, al penultimo posto in ordine di priorità, dove i no sono pari al 46,6 per cento rispetto al 42 per cento dei sì). I problemi sono gli stessi di due mesi prima (inflazione, caro-bollette, occupazione) ma la fiducia, in otto settimane, pare evaporata.

Le medie ingannevoli

Torniamo ai sondaggi elettorali. E precisiamo ancora due cose. Intanto, che in un sondaggio si scrive 25 per cento ma si dovrebbe leggere "dal 23 al 27 per cento”; inoltre, che il consenso dei singoli partiti a livello nazionale è un valore medio calcolato sul totale degli elettori, ma le medie, soprattutto in alcuni casi, sono davvero “medie del pollo”: il 13 per cento del M5S, in particolare, è frutto di valori intorno o inferiori al 10  al Centro e al Nord, e intorno o superiori al 20 al Centro-Sud e nelle Isole, il che complica, e anche di parecchio, le stime che circolano di attribuzione dei collegi uninominali, soprattutto se il partito dovesse alla fine risultare sottovalutato, come è accaduto in passato.

Quali conclusioni possiamo ricavare da tutto questo, con tutte le cautele che abbiamo detto e, naturalmente, in assenza di sviluppi del conflitto in Ucraina tali da creare spostamenti significativi della pubblica opinione?

  • A disporre le pedine sulla scacchiera elettorale è stata la mossa di Matteo Renzi (che non ha voti, ma conosce la politica anche troppo bene) e Carlo Calenda (che un po’ di voti li aveva e li ha ceduti in cambio di nulla, rischiando di renderli irrilevanti)
  • Gli astenuti, questa volta, saranno non solo quelli che si percepiscono “fuori da tutto” (sono tanti, purtroppo, e da tempo) ma anche una quota non indifferente di elettori moderati, che si sentono privi della possibilità di esprimere un voto utile in vista della formazione di un governo (si veda, per esempio, l’ultimo sondaggio Ipsos)
  • Per come si sono messe le cose, a sinistra il risultato finale si giocherà soprattutto sulla capacità di mobilitare “tutto” l’elettorato potenziale (e questo spiega i toni sempre più “resistenziali” del segretario del Pd Enrico Letta)
  • A destra, invece, il risultato dipenderà dalla capacità di FdI di persuadere una quota di elettorato moderato che c’è una persona – e un partito – affidabile alla guida della coalizione (e questo spiega i toni “draghiani” della Presidente di FdI, Giorgia Meloni)
  • Infine, la vittoria del centrodestra, a oggi, pare scontata. Non è scontata, invece, una vittoria a valanga, tale da tradursi nella maggioranza dei due terzi alla Camera e al Senato, che consentirebbe di approvare le riforme costituzionali in assenza di referendum confermativo; se accadesse proprio questo, si avrebbe verosimilmente a centrosinistra un tracollo del Pd, avviato a quel punto sulla strada malinconica dell’irrilevanza percorsa dal partito socialista francese.

Certo, sarebbe bello leggere i sondaggi fino alla mattina del giorno in cui si vota. Sarebbe bello, anche, che la partecipazione al voto, per una volta, crescesse invece di calare. Ma, per come stanno le cose, questo sì che non succederà, almeno finché l’offerta politica resta quella che è.